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Caring for the forests of an inland area in the era of climate change: a case study of Basilicata, Southern Italy

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 21, Pages 10-36 (2024)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0042-021
Published: Mar 28, 2024 - Copyright © 2024 SISEF

Review Papers

Abstract

This study provides an overview of the forests of Basilicata, Southern Italy, including their recent history, dominant forest types, current management, and vulnerability to climate change and wildfire. It outlines silvicultural and management proposals that can be implemented in the new forest plan that the Basilicata Region is about to adopt. The proposals are based on the principle of adaptive management to support forest functionality, biodiversity and ecosystem services. Silvicultural methods include continuous cover forestry, natural regeneration, species richness and functional diversity, structural diversification, imitation of natural disturbances, tree retention to increase biodiversity. The characteristics of the forest-wood supply chain have been analyzed, highlighting weaknesses and possible improvements.

Keywords

Forest Management Plan, Silviculture, Climate Change, Wildfires, Forest-Wood Supply Chain, Basilicata, Italy

Premessa 

Anche chi è restio a rappresentazioni stereotipate - la retorica del “vivere lentamente”, le celebrazioni estetizzanti dei paesaggi, dei riti antichi, dei borghi remoti, e via dicendo ([54]) - riconosce che molte aree interne dell’Appennino meridionale sono marginali e fragili sul piano socio-economico e afflitte da crisi demografiche in grado di stravolgere le piccole comunità che presidiano il territorio ([87], [94]). Considerate a lungo come aree da supportare con logiche assistenziali, sono spesso prive di una gestione in grado di trasformare in sviluppo le innegabili risorse che le caratterizzano: l’ambiente ancora poco alterato, i beni naturali, il patrimonio boschivo; elemento, quest’ultimo, che è dominante in molti di questi territori. Tutte risorse che, opportunamente valorizzate, potrebbero servire per produrre occupazione, porre un freno alla crisi demografica, generare beni e servizi a favore della collettività ([108], [64]).

La Basilicata è un’importante area interna dell’Italia meridionale, caratterizzata da un territorio vario, prevalentemente montuoso, con vaste zone sottoposte a misure di protezione ambientale, e da una notevole varietà di boschi, rappresentativi dei principali piani di vegetazione della bioregione mediterranea. Protagonisti di una storia articolata, in graduale ricostituzione dopo secoli di forte manipolazione, questi boschi hanno bisogno di una gestione che ne faccia risaltare i valori e le potenzialità; di una gestione al passo dei tempi e dei cambiamenti in corso.

Negli ultimi anni, dal clima al contesto socio-economico, numerose cose sono cambiate, o lo stanno facendo velocemente. Così come si è modificato - con l’emanazione del Testo Unico delle Foreste e Filiere forestali (TUFF, d.l. 34 del 3 aprile 2018) e dei decreti attuativi che sono seguiti, primo dei quali quello che delinea la Strategia Forestale Nazionale - il quadro normativo che regola la politica forestale nel nostro paese.

Nel bacino mediterraneo il cambiamento climatico si è manifestato in modo evidente, con episodi di siccità intense, accoppiate ad ondate di calore ([158], [153], [5]). Queste nuove condizioni ambientali possono mettere a rischio la stabilità e la funzionalità dei boschi, con effetti a cascata sui servizi ecosistemici ([140], [8]). La gestione forestale orientata al mantenimento dei servizi ecosistemici dovrà tener conto di questi cambiamenti ([130]); così come dovrebbero essere adottati i principi e i metodi della “gestione forestale a favore del clima” - comunemente: climate smart forestry - che mira a rendere più efficiente la filiera foresta-legno nel contrasto e nella mitigazione del cambiamento climatico, preservando con interventi specifici la produttività, la biodiversità e i benefici dei sistemi forestali ([171]). In un apposito capitolo diamo conto dei più evidenti effetti dell’accresciuto stress climatico sui sistemi forestali della Basilicata.

Tra le conseguenze del cambiamento climatico, ma non solo di quello, spicca l’aumento del pericolo degli incendi boschivi, di cui pure si parla nel seguito. Il passaggio del fuoco ha effetti profondi sui sistemi forestali; le aree percorse dal fuoco possono andare incontro a differenti dinamiche post-incendio: dalla riduzione delle funzioni ecosistemiche alla transizione verso comunità arbustive o steppiche ([133]).

La motivazione alla base di questo lavoro è rappresentata dal prossimo rinnovo del Piano Forestale Generale della Regione Basilicata. In vista del nuovo Piano, ci siamo dati il compito di delineare le modalità che riteniamo adatte, sul piano selvicolturale e gestionale, per prendersi cura dei boschi lucani nell’era del cambiamento climatico.

I contenuti del lavoro consistono: in una ricapitolazione della storia dei boschi in Basilicata negli ultimi due secoli, per meglio comprendere e interpretare la situazione odierna; nella descrizione dello stato attuale del patrimonio forestale; nella ricognizione della vulnerabilità e della risposta dei sistemi forestali lucani a fattori di stress oggi rilevanti, come quelli legati a condizioni climatiche spesso ostili, e ai disturbi provocati dagli incendi; nella presentazione di proposte selvicolturali applicabili alle più rilevanti fisionomie forestali della regione; nella definizione di principi e metodi per la gestione forestale adattativa; infine, nell’analisi delle caratteristiche, debolezze e prospettive della filiera foresta-legno, snodo importante per dare concretezza agli obiettivi della gestione forestale sostenibile.

Cenni sulla storia dei boschi in Basilicata nel XIX e XX secolo 

Le formazioni boschive coprono oggi, sulla base dei dati disponibili, il 39% del territorio regionale. Ma pochi decenni orsono, intorno alla metà del secolo scorso, la Basilicata era un caso emblematico di disboscamento. Tanto che, verso la fine degli anni ′50, un giovane assistente alla cattedra di geografia dell’Università di Heidelberg, Franz Tichy, venne dalla Germania in Basilicata per studiare il fenomeno. Dai dati che raccolse, ricavò la tesi per conseguire l’abilitazione alla docenza nella sua università. La dissertazione - dal titolo “Le foreste della Basilicata e la deforestazione nel XIX secolo. Processi, cause e conseguenze” - fornisce una preziosa documentazione di uno fra i più significativi casi di disboscamento avvenuti nel mezzogiorno d’Italia durante il periodo post-unitario ([167]).

Per il periodo 1850-1950, Tichy riporta, per la Basilicata, una perdita di superficie boscata di circa un terzo, dai 236.322 ha del 1850 ai 160.813 ha del 1950. Ma il disboscamento era iniziato già prima del 1850. Per tutto l’ottocento, i boschi vicini agli abitati, o quelli facilmente accessibili, furono manipolati intensamente, se non completamente eliminati, per il bisogno di legno a scopo energetico o come materiale da lavoro, e per la necessità di spazio per le colture, l’allevamento e il pascolo. La richiesta di terra per la produzione di cereali era determinata dalle necessità di una popolazione in crescita, come quella della Napoli capitale della prima metà dell’ottocento ([157]).

Riepiloghiamo, per sommi capi, alcuni aspetti di questa storia. Durante il periodo della dominazione francese su Napoli, nel 1806, fu emanato il primo provvedimento di eversione della feudalità con incameramento dei fondi ecclesiastici e feudali nel demanio pubblico. Queste terre passarono sia ai Comuni che ai privati, con il risultato che il bosco fu spesso eliminato e i terreni messi a coltura. Nel 1816 fu restaurata la monarchia borbonica e alcuni terreni vennero restituiti alla Chiesa e ai vecchi proprietari, ma la maggior parte rimase ai Comuni e alla Corona. La feudalità non fu ripristinata, ma non venne neppure riconosciuto il precedente diritto di pascolo, legnatico e semina. In pratica, venne interdetto l’uso del bosco in regime di “campo aperto” come era tradizione quasi in tutto il mezzogiorno. La riduzione degli usi civici non fu bilanciata dall’assegnazione di terre. La conseguenza fu che continuò il massiccio attacco ai boschi che erano stati oggetto di assegnazione, per soddisfare le necessità di base della gente, per le colture e l’allevamento ([3]).

Il tasso di manipolazione dei boschi e di disboscamento non fu minore nei decenni post-unitari. Tichy riporta che i dissodamenti approvati in Basilicata per la messa a coltura fra il 1831 e il 1861 ammontarono a circa diecimila ettari. Dopo il 1861, ebbe una forte incidenza la prima legge forestale unitaria del 1877, elaborata dal ministro Majorana Calatabiano. Il provvedimento imponeva il vincolo forestale, ma solo al di sopra della zona del castagno, liberalizzando l’uso del suolo e le attività economiche alle quote inferiori. Qualche anno prima, nel 1867, era entrata in vigore la legge di confisca dei beni religiosi, che furono incamerati nel demanio e poi venduti ai Comuni e ai privati, unitamente a buona parte dei beni sottratti a Chiesa e feudatari nel decennio francese. La concomitanza di questi provvedimenti aprì la strada a vasti disboscamenti. De Dominicis ([62]) stima che a livello italiano la distruzione dei boschi fu del 45%, come effetto dello svincolo stabilito dalla legge del 1877, e testualmente scrive “i boschi con il nuovo regno trapassavano ai privati e ai Comuni che dei privati dovevano essere peggiori amministratori per evitare il jugulamento dei loro bilanci”. L’ex primo ministro Luigi Menabrea aveva raccomandato vanamente, soprattutto per l’Italia meridionale, l’esclusione dei boschi dalla vendita demaniale. Anche la costruzione della rete ferroviaria italiana contribuì, con la grande richiesta di traversine, alla riduzione dei boschi di querce e di faggio.

Secondo Tichy oltre 15.000 ettari di bosco furono disboscati in Basilicata nel periodo 1862-1880, soprattutto per la quotizzazione delle aree demaniali. Nel 1870 in Basilicata c’erano 196.890 ha di bosco (22.443 ha dello Stato, 106.283 ha dei Comuni, 68.163 ha dei privati), nel 1909 i boschi erano ridotti a 180.000 ha; complessivamente una riduzione di circa 56.000 ha rispetto al 1850 ([62], [167]).

A partire dal nuovo secolo, con la legge speciale per la Basilicata del marzo 1904, furono messi maggiori vincoli al taglio dei boschi, stabilendo norme per la conservazione di quelli esistenti, nonché risorse per l’esecuzione di rimboschimenti. La legge sul demanio forestale del 1910 e la successiva legislazione, fino alla legge Serpieri RDL 3267 del 1923, impressero una svolta alla politica forestale italiana sul piano della protezione del bosco e della protezione idrogeologica attraverso il rimboschimento.

Tuttavia, in Basilicata come in altre parti del meridione, gli effetti di queste nuove politiche tardarono a venire. Ci furono anzi nuove ondate di disboscamento, alcune causate dall’aumento della popolazione rurale nel primo dopoguerra, altre dalle politiche autarchiche del periodo fascista - come la “battaglia del grano” - che portarono a un ampliamento delle aree coltivate a cereali, a scapito del bosco. Fra il 1930 e il 1950, periodo di crescita demografica ed espansione agricola, in Basilicata scomparve un altro 15-20 per cento di bosco ([81], [113]).

Abbastanza diversa fu la storia dei boschi nelle località remote dell’Appennino. Il caso di quelli del Pollino, grande massiccio montuoso fra Basilicata e Calabria, è indicativo. All’inizio del XX secolo questi boschi presentavano ancora segni limitati di manipolazione. Delle loro caratteristiche sono preziosa testimonianza i resoconti delle esplorazioni condotte nel 1826 dal botanico napoletano Michele Tenore ([138]) e le successive escursioni compiute verso la fine del secolo da altri naturalisti. Tutti questi viaggiatori riferiscono di foreste ancora fitte, selvagge, difficili da percorrere, con alberi colossali e con molte specie (aceri, tigli, tassi, frassini, ecc.), rappresentate da individui monumentali. Non che si trattasse di foreste “vergini’: erano praticate, ad esempio, le ceduazioni per la produzione del carbone e in bosco si faceva la calce, tanto che ancor oggi non è difficile imbattersi nei resti delle “carcare”, vecchi forni in muratura a secco usati per cuocere la pietra calcarea. Erano comunque boschi ricchi di specie, articolati, con esemplari di grandi dimensioni ed elevata biomassa.

Quando, a inizio del secolo, visitò le foreste del Pollino, l’aristocratico inglese Norman Douglas ebbe però ad esprimersi così: “si affretti chi abbia voglia di godersi questi paesaggi selvosi, prima che scompaiano dalla faccia della terra” ([66]). Presagiva, evidentemente, che ci sarebbero stati dei grossi cambiamenti e che quei boschi si trovavano in pericolo. Fra il XIX secolo e il XX secolo iniziò la “seconda rivoluzione industriale”, con tutto ciò che questo ebbe a comportare: disponibilità di nuove fonti di energia, innovazioni tecnologiche, nei sistemi di comunicazione e di trasporto, sviluppo delle industrie. In Italia si stava procedendo alla costruzione della rete ferroviaria e c’era una grande richiesta di legname per produrre le traversine necessarie per il fissaggio delle rotaie. Alcune agguerrite imprese, dotate di adeguata organizzazione e con la necessaria tecnologia (ferrovie Decauville, locomotive a vapore, teleferiche), si accorsero che quei remoti boschi di montagna potevano diventare una “miniera d’oro”. Nel 1910, la società italo-tedesca Rueping - nota per aver brevettato un redditizio sistema di impregnazione che consentiva di usare il legno di faggio per la produzione delle traversine - stipulò dei contratti con i Comuni proprietari dei boschi nella zona del Pollino e ne iniziò lo sfruttamento, con tagli su grandi superfici e asportazione di migliaia di alberi di grandi o anche grandissime dimensioni. In numerosi casi queste estese utilizzazioni consistettero in forme di taglio “quasi” raso - il cosiddetto taglio “borbonico”, che prevedeva il risparmio di sole 15 piante per “moggio”, corrispondenti a 45 piante per ettaro (sul tema, v. [18]) - con prelievi di biomassa superiori al tasso di accrescimento della foresta. Fu in questo periodo che ebbe luogo la rarefazione dell’abete bianco, dell’olmo e del tiglio montano, dei grandi aceri, del frassino maggiore, del tasso, e si determinò una drastica semplificazione dei boschi, come composizione e struttura. Alla Società Rueping succedettero poi altre imprese, come la ditta Palombaro, e questo tipo di sfruttamento proseguì fino al secondo dopoguerra ([21]).

In tutta la Basilicata, la situazione iniziò a cambiare a partire dagli anni ′50, quando le trasformazioni sociali, i fenomeni di urbanizzazione e la diffusione dei combustibili fossili come primaria fonte di energia portarono a una progressiva diminuzione della pressione dell’uomo sul bosco. Verso la fine del secolo, anche grazie all’entrata in vigore della legge quadro 394/91, iniziò la stagione segnata dall’istituzione delle aree protette che oggi, fra parchi nazionali, regionali, riserve statali e siti della Rete Natura 2000, interessano circa il trenta per cento del territorio regionale ([134]).

I boschi in Basilicata oggi 

Secondo l’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi forestali di Carbonio (INFC-2015) la superficie forestale in Basilicata è di 392.412 ha, pari al 39.3% della superficie regionale ([77]). Questa superficie viene suddivisa nelle due macrocategorie inventariali di “Bosco” e “Altre terre boscate” con un’estensione, rispettivamente, di 288.020 e 104.392 ha (Tab. 1).

Tab. 1 - Superfici (in ha) delle macrocategorie inventariali e loro ripartizione per la Regione Basilicata (dati INFC-2015).

Categoria Classe fisionomica Sup. (ha)
Bosco Boschi alti con soprassuolo 285.778
Aree temporaneamente prive di soprassuolo 720
Impianti di arboricoltura da legno 1.522
Subtotale 288.020
Altre terre boscate Boschi bassi 3.729
Boschi radi 9.252
Boscaglie 5.896
Arbusteti 65.910
Aree boscate inaccessibili o non classificate 19.605
Subtotale 104.392
Totale generale per la Regione 392.412

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Il dato di superficie riportato da INFC-2015 risulta maggiore di quasi 36.000 ha (+10%) rispetto a quello di INFC-2005. Si tratta di un incremento, attribuibile alla ricolonizzazione post-coltura in aree marginali, maggiore di quello registrato, nel medesimo periodo, a scala nazionale (+5.6%). Il confronto tra la Carta Forestale Regionale del 2006 ([60]) e la Carta delle Foreste e Boschi della regione Basilicata del 2023 (Fig. 1) evidenzia pure un aumento, pari al 9.2%. Il trend di espansione della copertura forestale sul territorio regionale è stato messo in evidenza anche da stime basate sul telerilevamento ([103]).

Fig. 1 - Carta delle Foreste e Boschi della Regione Basilicata (2023).

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Per quanto riguarda la consistenza dei boschi della Basilicata, l’INFC-2015 stima, per la macrocategoria “Bosco”, un volume medio (cormometrico) di 124 m3 ha-1, contro una media nazionale di 165 m3 ha-1; per la biomassa, un valore medio di 97 t ha-1, contro un valore di 115 t ha-1 come dato medio nazionale.

Nella macrocategoria “Bosco”, prevalgono i boschi puri di latifoglie (215.826 ha) e quelli misti (51.399 ha); vengono poi i boschi puri (11.847 ha) e misti (8.949 ha) di conifere. Nelle “Altre terre boscate” prevalgono i boschi puri di latifoglie (51.394 ha) e i boschi misti (51.879 ha), seguono i boschi puri (746 ha) e misti (373 ha) di conifere.

La suddivisione delle superfici boscate fra forme di proprietà è riportata in Tab. 2; da notare - per la rilevanza che questo dato viene ad avere sul piano gestionale - che per circa due terzi i boschi lucani sono di proprietà privata.

Tab. 2 - Superfici (in ha) delle categorie inventariali distinte per tipo di proprietà (dati INFC-2015).

Categoria Proprietà Enti Sup. (ha)
Bosco Privati 177.959
Pubblico Stato/Regione 19.011
Comuni 83.668
Altri enti 3.723
Non classificato 3.659
Altre terre boscate Privato 67.471
Pubblico 14.472
Non classificato 22.449

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Considerando le categorie forestali individuate da INFC-2015 (Tab. 3) si nota una prevalenza dei querceti termofili e meso-termofili, che rappresentano il 60% delle formazioni forestali regionali. Le faggete, i boschi misti di latifoglie e gli arbusteti rappresentano, rispettivamente, il 9%, 10% e 17% della superficie forestale totale.

Tab. 3 - Ripartizione delle superfici forestali (in ha) per categorie inventariali (dati INFC-2015).

Categoria Classe fisionomica Superficie (ha)
Boschi alti Boschi di abete bianco 746
Pinete di nero, laricio e loricato 2.610
Pinete di pini mediterranei 8.933
Altri boschi di conifere 5.150
Faggete 26.820
Querceti a rovere, roverella e farnia 43.077
Cerrete, boschi farnetto, fragno e vallonea 130.692
Castagneti 5.955
Ostrieti, carpineti 7.084
Boschi igrofili 12.975
Altri boschi di latifoglie 29.872
Leccete 10.371
Altri boschi di latifoglie sempreverdi 1.864
Non classificato 347
Piantagioni di altre latifoglie 1.522
Altre terre
boscate
Arbusteti temperati 21.139
Arbusteti mediterranei 44.771
Boschi bassi 3.729
Boschi radi 9.252
Boscaglie 5.896
Aree boscate inaccessibili o non classificate 19.605

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Il confronto tra le classi fisionomiche della Carta Forestale Regionale del 2006 e la Carta delle Foreste e Boschi della Basilicata del 2023 (Tab. 4), mette in evidenza un incremento del 5% nella superficie dei boschi di faggio e dei boschi di castagno e un leggero decremento dei boschi di pini mediterranei. Aumentano in modo marcato le superfici delle pinete oro-mediterranee e degli altri boschi di conifere montane e submontane (+29,2%), come quelle dei querceti mesofili e meso-termofili (+17,8%). Una riduzione sensibile si evidenzia per i rimboschimenti con specie esotiche (-38%). Per quanto riguarda le formazioni mediterranee e gli arbusteti termofili le differenze sono da attribuire, probabilmente, ad una diversa modalità di classificazione di questi tipi fisionomici. Le formazioni igrofile risultano in espansione (+53,3%), sia per la spontanea riduzione della pressione antropica che per le misure di tutela cui sono sottoposte le aree ripariali. Gli indicatori di consistenza per le diverse categorie inventariali sono riportate in Tab. 5.

Tab. 4 - Superfici (in ha) delle classi fisionomiche: confronto tra la Carta Forestale Regionale (2006) e la Carta delle Foreste e Boschi della Basilicata (2023).

Carta Forestale Regionale (2006) Carta Foreste e Boschi (2023) Diff.
(%)
Classe fisionomica Superficie forestale Classe fisionomica Superficie forestale
Boschi di faggio 29.900 Boschi di faggio 31.299 +4,7
Pinete oro-mediterranee e altri boschi di conifere e montane e submontane 5.762 Pinete oro-mediterranee e altri boschi di conifere montane e submontane 7.442 +29,2
Boschi di castagno 8.698 Boschi di castagno 9.077 +4,4
Querceti mesofili e meso-termofili 184.033 Querceti mesofili e meso-termofili 216.813 +17,8
Altri boschi di latifoglie mesofile e meso-termofile 19.572 Altri boschi di latifoglie mesofile e meso-termofile 32.197 +64,5
Boschi di pini mediterranei 19.384 Boschi di pini mediterranei 18.612 -4,0
Boschi (o macchie alte) di leccio (leccio arboreo) 12.699 Boschi (o macchie alte) di leccio 16.493 +29,9
Arbusteti termofili 24.589 Formazioni arbustive termo mediterranee 33.670 -42,4
Macchia 27.929
Gariga 5.923
Formazioni igrofile 13.950 Formazioni igrofile 21.382 +53,3
Piantagioni da legno e rimboschimenti con specie esotiche 2.208 Rimboschimenti con specie esotiche 1.348 -38,9
Aree temporaneamente prive di copertura forestale 763 - - -
Totale 355.409 Totale 388.332 +9,3

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Tab. 5 - Consistenza delle categorie forestali inventariali regionali. Valori ad ettaro del numero di alberi (N, ha-1), area basimetrica (G, m2 ha-1), volume del fusto (V, m3 ha-1), biomassa epigea (B, Mg ha-1) e incremento annuo (m3 ha-1 anno-1).

Categoria Classe fisionomica N G V B I
Boschi alti Boschi di abete bianco 833,6 40,8 369,9 240,2 10,6
Pinete di nero, laricio e loricato 729,7 21,6 149,1 98,6 5,2
Pinete di pini mediterranei 647,2 15,7 96,6 67,7 3,3
Altri boschi di conifere 615,5 18,8 141,2 89,3 4,6
Faggete 1211,5 33,5 330,9 257,5 6,2
Querceti a rovere, roverella e farnia 955,5 11,6 60,3 51,9 2,1
Cerrete, boschi farnetto, fragno e vallonea 1024,1 16,3 120,8 98,1 3,8
Castagneti 1175 22,2 189,4 120,3 7,1
Ostrieti, carpineti 2575,9 19 104,5 91,7 3,0
Boschi igrofili 355,8 10,1 55,4 36,1 2,9
Altri boschi di latifoglie 759,6 13,3 90,8 65,9 3,4
Leccete 944 11 56,7 55,1 2,0
Altri boschi di latifoglie sempreverdi 607,7 3,2 92,5 69,1 7,7
Non classificato 4490,8 26,6 114,7 95,1 6,8
Media Basilicata 991,3 16,8 124,3 97,7 3,7
Media nazionale 1275,9 22,3 166,7 116,0 4,1
Impianti di
arboricoltura
da legno
Pioppeti artificiali 0 0 0 0 0
Piantagioni di altre latifoglie 32,2 0,4 1,4 9,1 0,1
Piantagioni di conifere 0 0 0 0 0
Media Basilicata 32,2 0,4 1,4 1,3 0,1
Media Nazionale 416,5 9,8 72,8 43,2 4,9

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Si notano, nei dati INFC-2015, alcune apparenti anomalie, soprattutto nei dati riferiti agli impianti di arboricoltura da legno, dei pioppeti artificiali e delle piantagioni di conifere. In particolare il dato relativo alle “piantagioni di altre latifoglie” è probabilmente affetto da errori di campionamento dovuti al fatto che si tratta di categorie di piccola estensione e ad alta frammentazione; un altro dato anomalo è quello delle piantagioni di conifere (ad esempio i popolamenti di douglasia), che probabilmente sono stati assegnati alla categoria “altri boschi di conifere”. I valori di incremento corrente forniti da INFC-2015 presentano poi alcuni valori (bassi o elevati) in apparente contrasto con quanto osservato nel corso di rilievi diretti in bosco effettuati per la redazione dei piani di assestamento delle foreste del demanio regionale.

Vulnerabilità e resilienza dei sistemi forestali 

Le conseguenze negative (alterazioni) di uno stress ambientale o di un disturbo sul bosco ne rappresentano la vulnerabilità; l’analisi dei fattori che la determinano consente di definire criteri di gestione volti a mitigare queste conseguenze e a mantenere la funzionalità del sistema. L’attitudine del bosco a riprendersi da stress e disturbi, senza perdere l’integrità strutturale e funzionale, definisce la sua resilienza. In un quadro gestionale, la resilienza può essere considerata come la capacità del sistema di garantire i servizi ecosistemici ([119], [93], [63]).

Fra i fattori che influenzano la resilienza dei sistemi forestali agli effetti del cambiamento climatico spiccano: la ricchezza specifica e la diversità funzionale interspecifica, alle quali si associa un potenziale più ampio di acclimatazione della comunità forestale; la complessità strutturale, che favorisce un’efficace ripartizione delle risorse e la complementarietà delle nicchie ecologiche; la rinnovazione naturale, che contribuisce al ripristino dell’ecosistema dopo i disturbi ([70]).

A scala globale, ci sono segnali di un declino della resilienza dei sistemi forestali in rapporto agli stress e ai disturbi cui sono sottoposti ([74]). La gestione forestale sostenibile, attuata in modo adattativo, può contribuire a ridurre la vulnerabilità e ad accrescere la resilienza dei sistemi forestali allo stress climatico e ai fattori di disturbo, ai fini della conservazione dei servizi ecosistemici ([165]).

Stress climatico: casi ed effetti in Basilicata

Il clima sta diventando difficile per le foreste: le siccità frequenti, prolungate e intense mettono a rischio la salute dei nostri boschi e i benefici ambientali ed economici per la collettività ([150]).

Nel corso degli ultimi venti anni, sono stati segnalati migliaia di casi di vulnerabilità e declino nelle foreste, in ogni parte del globo e in tutti i biomi ([6], [79]). Lo stress climatico può provocare mortalità arborea e modificazioni della composizione e della struttura del bosco, con fenomeni regressivi verso comunità semplificate; le traiettorie ecologiche variano a seconda degli ambienti, delle caratteristiche della comunità forestale e della gestione che viene applicata ([12]).

In Basilicata si stanno manifestando anomalie negli andamenti delle temperature e delle precipitazioni. Al di là dell’aumento delle temperature medie (+1,2 °C rispetto al periodo pre-industriale) in linea con il trend globale, le giornate con temperature maggiori di 33 °C si sono triplicate nell’ultimo trentennio, per il fenomeno delle ondate di calore. Per quanto riguarda le precipitazioni, la principale anomalia nell’ultimo trentennio non riguarda i totali annui - tranne alcune annate critiche in cui i valori sono stati inferiori rispetto alla media di lungo periodo - quanto la tendenza alla riduzione del numero dei giorni piovosi nell’arco dell’anno, con lunghi periodi di siccità alternati ad eventi estremi di pioggia, in grado di provocare nubifragi, di inedita intensità, e alluvioni (E. Scalcione, Agenzia Lucana di Sviluppo e di Innovazione in Agricoltura - ALSIA, comunicazione personale, 2021).

Lo stress provocato dalle ondate di calore e siccità sta colpendo, in Basilicata, soprattutto i querceti della fascia submontana che mostrano segni, per ora circoscritti, di deperimento, consistenti in riduzioni di vigore e mortalità anticipata degli alberi. Nella fascia submontana del versante ionico, che appare maggiormente affetta dal fenomeno e vulnerabile, rilevante è il caso dei boschi con presenza di farnetto, che manifestano segni di stress; ne è un esempio il Bosco Capillo nel comune di S. Paolo Albanese nel Parco del Pollino ([49]). Casi segnalati di deperimento riguardano anche il cerro e la roverella in alcune aree della Collina Materana, ad esempio il bosco comunale di Gorgoglione ([51]). Questi impatti sono aggravati dalle caratteristiche dei suoli su cui vegetano i boschi: sottili, erosi ed eccessivamente compatti a causa del pascolo.

Il portale SafeOaks, curato dai docenti di selvicoltura e assestamento forestale dell’Università della Basilicata (⇒ http:/­/­safeoaks.unibas.it/­), riporta informazioni aggiornate sulla vulnerabilità, sulle ricerche in corso e sulla gestione adattativa dei querceti a foglia caduca colpiti da stress climatico.

Altri casi segnalati riguardano i boschi misti di latifoglie, con predominanza di carpino e altre specie minori ([53]), colpiti dall’evento siccitoso del 2017, i cui impatti sono risultati variabili a seconda dell’esposizione e delle caratteristiche topografiche ([153]). Sempre nell’estate del 2017, numerose specie forestali hanno manifestato il fenomeno dell’abscissione fogliare precoce: dati in corso di pubblicazione, basati su indici telerilevati, indicano che migliaia di ettari di bosco in Basilicata ne sono risultati affetti. Nei castagneti si sono manifestati sintomi temporanei di stress nel corso delle recenti annate siccitose ([95]), mentre nelle faggete sono stati segnalati danni da anomalie termiche (gelate) primaverili ([132]).

Nel bosco Pantano di Policoro per il concomitante effetto di alterazioni della regimazione idraulica dell’asta fluviale e di stagioni siccitose, le specie igrofile (frassino ossifillo, ontano e pioppo bianco e, su tutte, la farnia) vengono progressivamente sostituite da specie della macchia mediterranea ([137]). Ciò mette a rischio la conservazione dei lembi relitti di foresta planiziaria con presenza di farnia, habitat di grande importanza sul piano conservazionistico.

Per contro, i boschi vetusti che vegetano nel Parco del Pollino, indisturbati o quasi da decenni e con alberi plurisecolari, stanno reagendo apparentemente bene alle modifiche del clima, suggerendo un ruolo positivo della “naturalità” del bosco in termini di resistenza allo stress climatico ([52]).

L’intensità e gli impatti dello stress climatico sono legati alla variabilità orografica regionale, con differenze tra il versante ionico, più vulnerabile, e quello appenninico occidentale, in cui l’esposizione alle correnti tirreniche umide garantisce regimi di precipitazioni in grado di mitigare gli effetti delle ondate di calore. Questa variabilità richiede un’analisi accurata dell’entità e della distribuzione del deperimento causato dallo stress climatico. Individuare e monitorare i boschi in declino può aiutare a comprendere quali siano gli impatti complessivi del cambiamento climatico e dove sia urgente intervenire per cercare di mitigarli. Con questi obiettivi, i ricercatori forestali dell’Università della Basilicata hanno dato vita a “SilvaCuore”, la prima App italiana per il censimento dei siti forestali in deperimento ([31]). Questo tipo di informazione, unitamente all’uso di modelli spazialmente espliciti, è una delle basi per il rilevamento e la valutazione dei servizi ecosistemici. A partire dal potenziale di assorbimento del carbonio, per il quale sono state previste, a scala regionale, riduzioni nel corso dei prossimi decenni ([156]).

I cambiamenti del clima interagiscono in modo non semplice, e con effetti non facilmente prevedibili, con quelli di uso del suolo. Da segnalare, ad esempio, in apparente controtendenza, un’espansione naturale di comunità preforestali (arbusteti) in zone esposte a siccità e in aree considerate fragili in rapporto al rischio di desertificazione ([103]). Oltre agli effetti sui sistemi forestali, il cambiamento climatico acuisce i problemi di degrado dai quali la Basilicata è affetta, con un’alta percentuale di territorio esposta a rischi di desertificazione, soprattutto nella parte sud-orientale del territorio regionale ([72], [76]). In generale, la vulnerabilità del territorio appare maggiore nelle aree soggette a cambiamenti rispetto a quelle con modelli stabili di uso del suolo, come quelle forestali e seminaturali ([159]). Da non trascurare il fatto che l’effetto combinato delle dinamiche climatiche, ambientali e demografiche può impattare sulla resilienza delle piccole comunità sociali delle aree più interne, con effetti a cascata sulla capacità di gestione del territorio e sui servizi ecosistemici ([87], [94]).

Incendi boschivi: incidenza, effetti, dinamiche di ricostituzione

Gli incendi rappresentano uno dei principali fattori naturali in grado di influenzare le dinamiche della vegetazione nella regione mediterranea. Tuttavia, i comportamenti dell’uomo ne hanno modificato, e spesso intensificato, le caratteristiche in termini di severità, durata, estensione delle aree interessate e tempo di ritorno. La perdita di copertura vegetale causata dall’incendio innesca perdita di habitat e paesaggio, riduzione della capacità di sequestro del carbonio, perdita di stabilità del suolo, aumento del rischio idrogeologico ([104], [91]).

In Basilicata, l’elevata eterogeneità ambientale si traduce in un’elevata variabilità spaziale del pericolo d’incendio. Uno dei fattori che generano variabilità è rappresentato dalla distribuzione dei combustibili vegetali, costituiti sia dalla biomassa viva che dalla necromassa. I cambiamenti d’uso del suolo avvenuti negli ultimi decenni hanno contribuito ad aumentare l’accumulo del combustibile, creando continuità nella sua distribuzione spaziale. Tuttavia, mentre i fattori predisponenti (cambiamenti nel clima e nell’uso del suolo) incidono sull’aumento del pericolo e della severità, l’innesco dell’incendio è dovuto per la quasi totalità alle azioni dell’uomo ([97]). Dai dati relativi alle cause di incendio per il territorio lucano risulta che per il 50% gli incendi boschivi sono dovuti all’azione volontaria dell’uomo, il 15% è riconducibile a cause accidentali o colpose, il 35% degli eventi viene classificato come di causa incerta ([146]).

L’azione dell’uomo e il cambiamento climatico hanno portato a un ampliamento del periodo di maggior pericolo e, al tempo stesso, a eventi di maggiore intensità. Dall’elaborazione dei dati relativi agli incendi della Regione Basilicata (dati CFS/CCF), nel periodo 2004-2022 sono stati mappati 4.481 incendi, che hanno interessato una superficie di 52.348 ha, di cui 22.636 ha di superficie boscata e 29.716 ha circa di superficie non boscata (Fig. 2, Tab. 6 - [147]). Come andamenti nel tempo, si nota un aumento della superficie percorsa dal fuoco, pur associata a una riduzione del numero di incendi. Questo fatto costituisce un elemento di criticità per diversi aspetti: la difficoltà delle operazioni di spegnimento, la definizione del danno e soprattutto la capacità di ripristino post-incendio dei sistemi forestali. Inoltre, il fenomeno registra un impatto considerevole nelle aree protette, con un 35% di incendi che hanno colpito aree Natura 2000 ([46]). Si tratta di aree di estensione ridotta rispetto ad altre aree protette come i parchi nazionali o regionali, e soprattutto, distribuite all’interno di un territorio antropizzato, e pertanto particolarmente vulnerabile al rischio di incendio.

Fig. 2 - Rappresentazione di tutte le aree percorse dal fuoco in Basilicata dal 2004 al 2022 (elaborazione dei dati del Catasto degli incendi della Regione Basilicata).

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Tab. 6 - Numero di eventi (N) e superficie percorsa (S, in ha) dal fuoco in Basilicata nel periodo 2004-2022, in totale e separatamente per tipo di uso del suolo (dati CFS/CCF, [147]).

Variabile Categoria Periodo di riferimento
2004-2022
Numero di eventi (n) Totale 4.481
Superficie percorsa dal fuoco (ha) Totale 52.348,8
- Bosco 22.632,6
- Non bosco 29.716,2

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I dati georiferiti relativi alle aree percorse dal fuoco, disponibili nel catasto degli incendi della Regione Basilicata (⇒ https:/­/­rsdi.regione.basilicata.it/­incendi-2021/­) rappresentano un’utile fonte per comprendere l’evoluzione del fenomeno nell’ultimo ventennio. In Tab. 7 sono riportate le aree percorse dal fuoco derivate dal catasto degli incendi, incrociate con le classi fisionomiche di I livello della Carta forestale Regionale del 2006. Si nota come le maggiori superfici e il maggior numero di eventi siano stati rilevati nei querceti mesofili e meso-termofili, seguiti dai boschi di pini mediterranei e dagli arbusteti termofili. Tuttavia, se si considera l’incidenza percentuale della superficie percorsa dal fuoco sulla superficie totale, i valori massimi si notano nelle formazioni igrofile, seguite dai boschi di pini mediterranei, mentre i querceti mesofili e meso-termofili presentano un’incidenza bassa (3,1%). I querceti mostrano una maggiore resistenza al passaggio del fuoco, come testimoniato dalla bassa superficie media di incendio (2,7 ha), mentre nelle pinete mediterranee si ha sia un’elevata incidenza che un’alta superficie d’incendio. Le formazioni igrofile presentano un’alta incidenza d’incendio (60%), a causa dell’elevata quantità di necromassa presente, ma una superficie media bassa (2,2 ha), dovuta probabilmente allo sviluppo lineare, lungo gli alvei fluviali, di queste formazioni. Al contrario, le faggete mostrano una ridotta incidenza (0,9%), ma un’elevata superficie media d’incendio. Nelle faggete il pericolo d’incendio non è quindi alto ma una volta che si sviluppa, il bosco non oppone grande resistenza al passaggio del fuoco. Nella prospettiva di un aumento dei fenomeni climatici estremi, questo dato preannuncia un innalzamento del rischio d’incendio anche nelle aree montane.

Tab. 7 - Numero di eventi (N), superficie percorsa dal fuoco (S, in ha) e superficie media dell’incendio (Sm, in ha) in Basilicata nel periodo 2004-2022 (fonte: Catasto degli incendi della Regione Basilicata), separatamente per le classi fisionomiche di I livello della Carta Forestale regionale (superficie in ha). L’incidenza (I) è calcolata come rapporto percentuale fra la superficie percorsa dal fuoco e quella della categoria fisionomica.

Classe fisionomica di I livello Superficie
della classe
N S Sm I
Boschi di faggio 29.900 42 274,0 6,5 0,9
Pinete oro-mediterranee e altri boschi di conifere montane e submontane 5.762 85 457,9 5,4 7,9
Boschi di castagno 8.698 121 371,5 3,1 4,3
Querceti mesofili e meso-termofili 184.033 2.114 5.772,8 2,7 3,1
Altri boschi di latifoglie mesofile e meso-termofile 19.572 93 466,5 5,0 2,4
Arbusteti termofili 24.589 365 2.207,4 6,0 9,0
Boschi di pini mediterranei 19.384 674 4.695,1 7,0 24,2
Boschi (o macchie alte) di leccio (leccio arboreo) 12.699 201 530,0 2,6 4,2
Macchia 27.929 527 1.744,2 3,3 6,2
Gariga 5.923 47 245,2 5,2 4,1
Formazioni igrofile 1.395 386 839,2 2,2 60,2
Piantagioni da legno e rimboschimenti con specie esotiche 2.208 86 320,7 3,7 14,5
Aree temporaneamente prive di copertura forestale 763 13 52,3 4,0 6,9

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Infine, sono state considerate le aree in cui, nel periodo di osservazione (2004-2022), si è verificato un ritorno del fuoco, valutando la frequenza (numero di incendi nel periodo), il tempo di ritorno e la superficie interessata (Tab. 8). I dati mettono in evidenza un numero di incendi di ritorno sulle stesse aree, espresso come frequenza media, superiore per la Provincia di Potenza rispetto alla Provincia di Matera. Questo dato, probabilmente, è determinato dagli incendi dell’area costiera tirrenica che presentano per alcuni comuni, come Trecchina e Maratea, un numero alto di eventi per le stesse aree, rispettivamente di 8,8 e 8,6 eventi nel periodo di osservazione. Si tratta, in questi casi, di eventi di origine antropica, la cui frequenza ha portato a una progressiva semplificazione e degradazione delle comunità vegetali interessate: da macchia mediterranea a gariga e, in alcuni casi, a coperture erbacee di carattere steppico.

Tab. 8 - Superfici percorse dal fuoco, frequenza (numero di incendi nel periodo) e tempi di ritorno, espressi per Provincia. Le superfici riportano il valore cumulato derivante dalla sovrapposizione delle sole aree bruciate ripetutamente nel periodo 2004-2022.

Parametro Provincia
MT PZ
Frequenza media (n. di incendi) 4,3 5,2
Tempo di ritorno medio (anni) 3,9 3,1
Superficie boscata (ha) 2760,1 1990,9
Superficie non boscata (ha) 1165,2 5372,8

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Le dinamiche di ricostituzione della vegetazione dopo il passaggio del fuoco, e le differenze che si manifestano fra le fisionomie forestali, raccomandano una gestione adattativa del territorio forestale. Si tratta di processi che possono infatti mostrare esiti divergenti a seconda delle caratteristiche del fuoco, della biomassa distrutta, delle strategie riproduttive e delle condizioni climatiche che si instaurano dopo l’incendio ([112]). In base alle combinazioni di questi fattori i boschi percorsi dal fuoco potrebbero richiedere tempi di ripristino lunghi, fino ai casi in cui il sistema appare incapace di recuperare appieno le funzioni ecosistemiche pre-incendio. L’impiego di indici spettrali da telerilevamento ha messo in evidenza come le aree forestali percorse dal fuoco mostrino una diversa capacità di risposta a seconda del tipo funzionale di bosco ([75]). Studi condotti a scala europea, suggeriscono che nella regione mediterranea è in atto un rallentamento dei processi di ripristino della copertura vegetale dopo l’incendio ([133]). Il fenomeno potrebbe essere dovuto a condizioni climatiche critiche negli anni immediatamente successivi all’incendio. La resilienza del bosco all’incendio in ambiente mediterraneo è legata alle condizioni di vigoria della vegetazione pre-esistente all’incendio e alle strategie riproduttive delle specie, con un vantaggio per le specie a riproduzione agamica (sprouters) rispetto a quelle a riproduzione gamica (seeders). Da questo punto di vista le formazioni forestali mediterranee di sclerofille e i querceti termofili e meso-termofili appaiono caratterizzati da una maggiore resilienza ([162]).

Selvicoltura per la biodiversità e la resilienza dei boschi lucani 

La promozione della biodiversità e della resilienza dei boschi lucani rappresenta l’obiettivo centrale delle proposte colturali presentate in questo capitolo. Proposte che raffigurano una selvicoltura da attuarsi nel quadro di una gestione su basi naturali, il cui filo conduttore è riconducibile al seguente principio: il bosco è un sistema complesso da gestire in modo adattativo, sul quale l’uomo può intervenire allo scopo di migliorare la capacità di fornire i beni e i servizi richiesti dalla collettività, a condizione di garantirne la funzionalità e la conservazione dinamica ([35], [38]).

Per ogni insieme di proposte vengono individuati dei casi target, che corrispondono alle fisionomie boschive prevalenti nel territorio lucano, considerate in diversi stadi evolutivi e manifestazioni colturali. L’individuazione di questi target è stata fatta sulla base delle conoscenze degli autori, sia dirette sia basate sulle risultanze di lavori e rapporti scientifico-tecnici riguardanti i sistemi forestali della Basilicata, nonché del contenuto dei piani di gestione delle foreste demaniali e comunali. La loro rilevanza e rappresentatività risulta dai dati della Carta Forestale della Basilicata e da quelli dell’ultimo Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio ([77]).

L’individuazione di un target preminente non esclude che la medesima proposta colturale possa essere applicata a un target diverso. Alcune di queste proposte riguardano azioni da mettere in atto nel quadro della pianificazione forestale a scala aziendale, altre si addicono maggiormente alla pianificazione d’indirizzo territoriale, per la quale già ci sono in Basilicata utili esempi ([1]). Con la locuzione “ove possibile” ci si riferisce nel testo al fatto che la proposta dovrà essere valutata, in quanto a fattibilità, dall’équipe di pianificazione in rapporto al contesto specifico; con i termini “supportare” o “supporto” si richiama il fatto che la proposta dovrebbe essere sostenuta da risorse economiche extra-aziendali.

Da segnalare, a questo proposito, che oltre il 60% dei boschi “alti” della Basilicata sono di proprietà privata, e che quasi il 30% del territorio regionale ricade in aree protette; si tratta di aspetti che, per motivi diversi, inevitabilmente influenzano la fattibilità delle proposte colturali, ognuna delle quali viene, qui di seguito, descritta in rapporto al suo obiettivo preminente.

Nelle proposte presentate si fa ampio riferimento ai principi e ai metodi della selvicoltura ritenuta oggi idonea per i sistemi forestali semi-naturali: copertura permanente, diversificazione compositiva e strutturale, agevolazione dei processi naturali, interventi a imitazione dei disturbi, prelievi su piccole superfici, tree retention per la promozione della biodiversità, bosco come sistema complesso e autopoietico ([35], [117], [123], [39]).

Gli obiettivi in relazione ai quali vengono raggruppate le proposte colturali sono i seguenti: promozione della biodiversità; rinaturalizzazione; mitigazione dello stress climatico; prevenzione degli incendi boschivi; prospettive per i cedui.

Promozione della biodiversità

La biodiversità favorisce la resilienza della foresta, quindi il mantenimento dei servizi ecosistemici ([166]). Per le foreste del nostro paese, e in particolare per quelle degli ambienti mediterranei limitati dalla disponibilità idrica, la biodiversità, declinata come ricchezza specifica e diversità funzionale, ha un effetto positivo sulla produttività forestale ([152], [90]). La conservazione e la promozione della biodiversità sono aspetti dai quali la gestione forestale sostenibile non può oggi prescindere ([33]).

Per questo insieme di proposte, il target è rappresentato dalle faggete e dai querceti mesofili e meso-termofili: boschi di faggio della fascia montana (faggete montane ad agrifoglio in dinamica connessione con i querceti submontani ovvero, alle quote superiori, faggete altimontane a campanula); e querceti della fascia submontana dominati dal cerro dove, fra i 500 e 1200 m di quota, queste formazioni rappresentano la vegetazione forestale semi-naturale, con caratteristiche di relativa stabilità nelle odierne condizioni ([4] - Fig. 3, Fig. 4, Fig. 5).

Fig. 3 - Cerreta. Le giovani fustaie e i popolamenti transitori, derivanti da tagli di avviamento ad alto fusto, rappresentano una tipologia diffusa in Basilicata. Tendono a configurarsi come soprassuoli monoplani, a sottobosco arbustivo più o meno denso, spesso pascolati. Sono boschi da diversificare e valorizzare: oggi se ne ricava solo legna da ardere e cippato, anche laddove il soprassuolo è di buona conformazione.

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Fig. 4 - La cerreta trova, in alcune località della Basilicata, condizioni ottimali per il suo sviluppo. Nella foto, il bosco di Montepiano (Accettura), una delle più belle cerrete italiane. È un peccato che, anche in questi casi, la produzione legnosa vada poco oltre quella rappresentata dalla legna da ardere.

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Fig. 5 - Fascia montana, giovane fustaia di faggio coetaneiforme e monoplana, con sottobosco di aglio selvatico.

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In buona parte questi boschi sono rappresentati da fustaie o popolamenti transitori derivanti da tagli di avviamento all’alto fusto ([88]). Spesso si tratta di soprassuoli monoplani, meno frequentemente biplani, con piano superiore costituito da vecchie riserve. Raramente sono boschi stratificati, frequentemente sono impoveriti sul piano compositivo a causa delle manipolazioni che hanno subito. L’orientamento colturale definito nei piani di assestamento forestale è quasi sempre costituito dal trattamento a tagli successivi. Gli interventi selvicolturali si limitano, in genere, a diradamenti sul piano dominato. Raramente sono prescritti, e quasi mai vengono applicati, i tagli di rinnovazione della fustaia, anche in presenza di classi adulte e mature ([47]). Scarsa, in genere, è la dotazione di necromassa. Soprattutto nei querceti, la rinnovazione naturale è spesso compromessa dal pascolo. La qualità dei fusti è disomogenea, data l’assenza di trattamenti colturali specificamente mirati all’educazione del popolamento. Non sono rari i casi in cui nel passato sono stati fatti tagli di sfruttamento che hanno rilasciato gli individui di peggiore conformazione.

I querceti a foglia caduca, soprattutto negli ambienti termo-xerofili, rappresentano le formazioni più vulnerabili al cambiamento climatico (v. portale safeoaks - ⇒ http:/­/­safeoaks.unibas.it/­).

Caso particolare, ma di rilievo, è quello delle faggete e dei querceti con partecipazione di abete bianco (Fig. 6). L’abete ha una distribuzione rarefatta in seguito alle intense utilizzazioni del passato. Lo ritroviamo in comunità forestali a prevalenza di faggio e cerro, in località separate fra loro. È consociato al faggio sul massiccio del Pollino: in Comune di Terranova di Pollino, al Bosco Rubbio, in Comune di Francavilla sul Sinni, al Bosco Vaccarizzo, in Comune di Carbone. Nell’Abetina di Laurenzana (Comuni di Laurenzana e Viggiano) l’abete è consociato sia al faggio che al cerro, nell’abetina di Ruoti, in Comune di Ruoti, è in consociazione con il cerro. Si tratta di popolazioni autoctone dall’alto valore conservazionistico, per la preziosa variabilità genetica che custodiscono ([142]).

Fig. 6 - Piantina di abete bianco sotto la chioma di un faggio. Nella fascia montana la ricostituzione del bosco misto faggio-abete bianco è da considerare come un’opportunità per avere un bosco più vario e resistente, in accordo con il principio secondo il quale il miglior modo per conferire alla foresta resistenza al cambiamento climatico è quello di aumentarne i livelli di biodiversità funzionale, senza trascurare il fatto che la presenza dell’abete può contribuire alla valorizzazione della provvigione legnosa.

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La rinnovazione naturale dell’abete è vigorosa nelle chiarie e nelle situazioni ecotonali (margini interni ed esterni del bosco). Sono frequenti i casi in cui si ritrovano, nel piano inferiore di boschi a densa copertura, nuclei promettenti di rinnovazione naturale di abete, bisognosi di essere messi in luce ([131], [141], [151]). Non sono segnalati fino ad ora casi significativi di vulnerabilità da stress climatico sull’abete bianco, mentre sono disponibili dati dendro-ecologici che segnalano, in base ai pattern di accrescimento legnoso, una minore sensibilità alla siccità dell’abete rispetto al faggio ([154]).

Nei casi-target descritti, sono diverse le azioni colturali con cui si può tendere alla promozione della diversità strutturale, compositiva e funzionale della foresta. Presentiamo, a seguire, quelle che consideriamo di particolare rilevanza per le attuali condizioni di questi sistemi forestali.

Competizione e diversificazione strutturale

Per la regolazione della competizione nei popolamenti, si proceda a interventi (diradamenti) selettivi, in cui le scelte siano guidate non solo dalla posizione sociale delle piante ma anche dall’interpretazione del loro ruolo nella dinamica del soprassuolo. Si cerchi di incidere sui piani alti della copertura. Agendo in modo circoscritto e mirato su “celle” selezionate del popolamento, è possibile promuovere la diversificazione strutturale del bosco e l’eterogeneità della copertura. Interventi di questo tipo possono tradursi sia nel prelievo di fusti di grosse dimensioni che nella conservazione di un piano inferiore (sottopiano). Quest’ultimo è utile per “educare” la forma del popolamento arboreo, nella prospettiva di una selvicoltura orientata alla valorizzazione della provvigione legnosa attraverso la selezione di fusti di qualità, che siano d’interesse per l’industria del legno ([175]) .

Da non trascurare il fatto che nei querceti meso-termofili della fascia sub-montana, la rimozione selettiva di alberi co-dominanti è in grado di migliorare, come si evidenzia nel seguito, lo stato idrico degli alberi rilasciati, alleviando gli effetti delle ricorrenti siccità ([149]).

Nell’organizzazione spaziale dei tagli - da definire in modo realistico in sede di pianificazione - ci si riferisca a gruppi di alberi (coorti), invece che a unità fisse di superficie. Con prelievi circoscritti su piccoli gruppi si riesce ad aumentare la disomogeneità del popolamento, favorendo una “tessitura” fine dell’ecosistema; e si determinano discontinuità di copertura e margini che rappresentano ubicazioni favorevoli alla rinnovazione naturale. L’ampiezza delle discontinuità va considerata anche in rapporto alle esigenze di luce delle specie sporadiche eventualmente presenti, per favorire la loro rinnovazione e l’ampliamento dei piccoli gruppi presenti, e così la ricchezza specifica e la diversità strutturale del bosco ([43], [174], [9]).

In foreste povere di necromassa e biodiversità, come spesso si presentano quelle lucane, è da incentivare la tree retention, ovvero la conservazione di alberi ad alto valore di conservazione: alberi vecchi, vivi o morti, in piedi o a terra, ricchi di microhabitat, che contribuiscono alla creazione di un ambiente naturale complesso ([160], [122], [111]). Nei boschi pascolati a limitato rischio di incendio, una disposizione a intreccio dei tronchi rilasciati e dei grossi rami può rendere difficoltoso l’accesso degli animali: una sorta di “chiudenda” naturale in grado di favorire hot-spots di rinnovazione naturale e biodiversità (Fig. 7).

Fig. 7 - Rilascio sul terreno di tronchi e ramaglie disposti ad intreccio. Può servire, in zone a limitato pericolo d’incendio, per creare zone di difficile accesso per il bestiame al pascolo, in modo da preservare la rinnovazione naturale laddove essa riesca ad insediarsi. Si aumenta così la dotazione di necromassa e si favorisce la biodiversità, caratteristiche da promuovere in molti dei boschi lucani.

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Rinnovazione naturale e diversificazione compositiva

La capacità del bosco di rinnovarsi in modo autonomo è il presupposto per una gestione forestale su basi naturali. Per questo motivo, la presenza, lo sviluppo e i fattori limitanti per la rinnovazione naturale devono essere oggetto di accurate valutazioni, fin dalle prime ricognizioni svolte dall’équipe di pianificazione per definire gli orientamenti e gli obiettivi del piano di gestione. Si superi, ove possibile, lo schema convenzionale secondo il quale la rinnovazione è aspetto da considerare solo poco prima dei cosiddetti tagli di maturità. Questo approccio frequentemente si risolve nella constatazione che il bosco non ha la capacità di rinnovarsi nei tempi previsti; oppure, ben che vada, ci si trova di fronte alla rinnovazione della sola specie principale. Con la conseguenza che boschi che potrebbero essere variegati sotto il profilo compositivo, risultano invece impoveriti. Si valorizzi, invece, la cosiddetta pre-rinnovazione, ovvero la rinnovazione presente sotto copertura indipendentemente dall’esecuzione di tagli appositamente fatti per favorirla: essa rappresenta il segno della capacità del bosco di ricostituirsi in modo autonomo e progressivo. Dovrebbe quindi diventare una guida per l’organizzazione spazio-temporale degli interventi colturali. Ove sia presente rinnovazione promettente, il suo reclutamento verso i piani superiori di chioma sia agevolato da diradamenti che incidono sul piano intermedio e dominante. La promozione della rinnovazione e della diversità strutturale del bosco può andare di pari passo con l’educazione della forma dei fusti e anche con i metodi propri della selvicoltura d’albero, indirizzata alla specie prevalente o a quelle di accompagnamento ([11], [78], [118], [26]).

Diversità funzionale

Le strategie per tollerare o sfuggire alla siccità sono differenti tra le specie. La diversità funzionale tra alberi che crescono vicini tra loro può migliorare l’efficienza d’uso della risorsa idrica ([84]). In generale la diversità funzionale interspecifica conferisce resistenza alla comunità forestale di fronte allo stress climatico e può essere inclusa tra i criteri con i quali si interviene in modo selettivo sulla comunità forestale nel corso dei trattamenti selvicolturali ([34], [19]). Sono oggi disponibili sia banche dati sui caratteri funzionali delle specie (ad esempio, TRY - Plant Trait Database - ⇒ https:/­/­www.try-db.org/­TryWeb/­Home.php) sia tecnologie di telerilevamento che, grazie ai progressi nell’hardware e del software, rendono realistico questo approccio in un quadro di selvicoltura di precisione ([56]).

Nelle faggete montane, in cui recentemente sono stati descritti danni da gelate tardive, un aspetto da prendere in considerazione, negli interventi di selezione sul popolamento arboreo, può essere quello relativo alla fenologia, con particolare riguardo al periodo di schiusura delle gemme in primavera ([132]).

Alla valutazione della diversità funzionale - e del suo ruolo in rapporto al potenziale del bosco di reagire positivamente agli stress climatici - dovrebbe essere data importanza anche a scala di pianificazione di indirizzo territoriale, nella fase in cui si definiscono le funzioni preminenti delle tipologie boschive e in cui si rilevano i servizi ecosistemici ([57]).

Rinaturalizzazione

Si tratta di un tema importante in rapporto alla possibilità di avere boschi diversificati e resilienti al cambiamento climatico. Per rinaturalizzazione non si intende un generico “ritorno alla natura”, bensì un approccio colturale con cui si favorisce l’evoluzione di popolamenti forestali di origine artificiale - rimboschimenti puri o misti - verso boschi con maggiore presenza delle specie arboree autoctone, ovvero di quelle spontaneamente presenti in quella data fascia vegetazionale ([126]). Nel medio termine la rinaturalizzazione influenza la biodiversità e le funzioni a scala di paesaggio, e quindi la distribuzione spaziale dei servizi ecosistemici. Aspetto, quest’ultimo, da monitorare nel quadro della pianificazione forestale di indirizzo territoriale.

Sono quindi i popolamenti artificiali derivanti da rimboschimento il target principale di questo insieme di proposte colturali. Li ritroviamo, in Basilicata, dal piano mediterraneo a quello montano, come risultato delle opere di rimboschimento effettuate sino alla fine degli scorsi anni settanta. Si tratta di formazioni a dominanza di conifere, raramente di popolamenti misti di conifere e latifoglie. Le condizioni vegetative sono variabili in relazione a composizione specifica, modalità gestionali, caratteristiche ambientali, stadio evolutivo (Fig. 8).

Fig. 8 - Rimboschimento multi-specifico. Probabilmente fu piantato ciò che si trovava nel vivaio delle vicinanze, mescolando le specie (pini, cedri, cipressi, ecc.). Il risultato, a distanza di tempo, è un bosco gradevole sul piano paesaggistico (a), con un ingresso spontaneo, da vedere con favore, delle conifere all’interno del querceto, pascolato e lacunoso, che si trova nelle vicinanze (b).

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Caso speciale è quello delle pinete mediterranee del litorale ionico, a prevalenza di pino d’Aleppo, costituite, a partire dagli anni cinquanta, come fascia arborea a protezione delle colture agricole retrostanti; alla loro gestione conservativa dedichiamo un paragrafo specifico.

Altro caso degno di considerazione, per l’importanza che rivestono nella formazione del paesaggio tradizionale e per i “saperi” locali connessi alla loro coltivazione, è quello dei castagneti da frutto. Oggi spesso abbandonati, o assoggettati a forme saltuarie di gestione, non è raro che si trovino in uno stato di evidente rinaturalizzazione post-coltura, con ingresso delle latifoglie proprie della fascia di vegetazione.

Rinaturalizzare “naturalmente”

Rinaturalizzare in modo “naturale” è la via da seguire in quei rimboschimenti in cui si osserva un ingresso diffuso delle specie decidue competenti dal punto di vista stazionale ([127]). Vale, in tali casi, il principio secondo cui va assecondata la naturale evoluzione del sistema verso un bosco caratterizzato da maggiore biodiversità, sia compositiva che strutturale. In tal senso, gli interventi colturali devono favorire i processi che hanno spontaneamente luogo in quel determinato contesto ambientale. Non è opportuno fissare dei modelli vegetazionali ai quali far tendere il sistema: non si saprebbe quali e si rischierebbero frustranti aporie. Rinaturalizzare significa ripristinare i processi naturali e i meccanismi di autoregolazione del sistema, a supporto della sua funzionalità e resilienza ([128]). Il principio si traduce nel supporto a una selvicoltura nel corso della quale si procede a prelievi circoscritti, per ridurre in modo mirato la copertura del popolamento e favorire l’accesso delle latifoglie ai piani superiori di chioma. Così intervenendo, si ha la possibilità di decidere se favorire questa o quella specie, sulla base del criterio della promozione della diversità funzionale della comunità forestale ([19]).

Nei castagneti da frutto in evoluzione post-coltura, la rinaturalizzazione è un obiettivo gestionale da privilegiare, rispetto a ipotesi di recupero della coltura da frutto, quando: sia presente una diffusa rinnovazione di specie autoctone tipiche della fascia vegetazionale (querce, specie correlate al querceto, ecc.); laddove ci si trovi su versanti in cui prevalgono obiettivi di protezione; nei casi in cui le caratteristiche della stazione, del popolamento e il contesto socio-economico facciano dubitare circa una gestione continuativa della coltura da frutto.

Rinaturalizzare sempre? Anche soluzioni intermedie

Vi sono molti rimboschimenti in cui non si osserva un vigoroso ingresso di latifoglie, ovvero casi in cui non vi è una chiara tendenza del sistema a supporto di un approccio colturale orientato alla rinaturalizzazione. In attesa che ci siano segni che rivelino questa tendenza, è necessario iniziare a fare ciò che quasi mai è stato fatto nei rimboschimenti: vale a dire, dar corso a interventi (diradamenti selettivi) volti a regolare la competizione e a concentrare l’accrescimento legnoso sugli alberi promettenti come vigore e conformazione. Opportunamente fatti, i diradamenti rappresentano un modo sia per valorizzare la provvigione legnosa e la funzione produttiva del bosco, sia per imprimere al popolamento una struttura tale da favorire l’ingresso delle latifoglie, laddove ce ne siano i presupposti vegetazionali ([28], [10]). Soprattutto nei rimboschimenti di conifere della fascia mediterranea gli interventi colturali per la regolazione della competizione dovrebbero far propri i principi e le modalità operative della selvicoltura di prevenzione dell’incendio ([98], [125]).

La prospettiva della rinaturalizzazione deve essere valutata caso per caso, in modo flessibile. Evitando di compromettere funzioni del popolamento che, in uno specifico contesto, possono essere ragguardevoli. Si pensi, ad esempio, a rimboschimenti che mostrino una buona od ottima vocazione produttiva. Oppure al caso rappresentato da castagneti da frutto, gestiti a bassa intensità colturale, in cui la funzione produttiva può coesistere con quella turistico-ricreativa, esaltata dal pregio estetico e dalla monumentalità dei vecchi esemplari, e con i processi di evoluzione naturale che si stiano manifestando. In questa prospettiva, le scelte che riguardano il castagneto da frutto dovrebbero andare oltre l’antinomia tra la libera evoluzione e il recupero della precedente funzione produttiva ([109], [110]).

Non rilevanti per estensione, ma paradigmatici circa l’opportunità di procedere nella rinaturalizzazione senza schemi rigidi, sono i coniferamenti. Si tratta di interventi eseguiti in passato con lo scopo di colmare le lacune di popolamenti di latifoglie o di cedui degradati. Specialmente quelli realizzati con pino nero nei querceti mesofili hanno prodotto popolamenti misti, pluristratificati, gradevoli sul piano paesaggistico e in buone condizioni sul piano funzionale. Per questi boschi si suggerisce una gestione fondata sulla cura del popolamento e sul rispetto delle tendenze naturali che si manifestano nel sistema.

Gestione su basi naturali per le pinete

Il caso più rilevante in Basilicata è rappresentato dalle pinete litoranee dell’arco ionico, a prevalenza di pino d’Aleppo. Oltre alla funzione protettiva originaria, la gestione di queste pinete deve considerare oggi una pluralità di aspetti, da quelli conservazionistici per la presenza di aree incluse nella rete Natura 2000, a quelli connessi al turismo di massa, che si traducono in pressioni ambientali di varia natura e in un alto pericolo d’incendio ([48]).

In generale, va sostenuto l’indirizzo gestionale ispirato alla conservazione della pineta. Il fondamento ecologico di questa scelta è da ricondurre alla previsione che le specie termo-mediterranee della macchia bassa ([145]) possano adattarsi meglio, rispetto a quelle della macchia alta, alle nuove condizioni climatiche. Le specie della macchia bassa sono a basso potere di copertura e non ostacolano la rinnovazione naturale del pino d’Aleppo, come invece fanno quelle della macchia alta. Per questo motivo, la successione della pineta di pino d’Aleppo verso la macchia sempreverde a prevalenza di leccio potrebbe risultare rallentata, se non bloccata: da formazione pioniera con caratteri di transitorietà, la pineta potrebbe assumere un assetto stabile ([30]). È questa una prospettiva da recepire negli indirizzi della pianificazione forestale, sia a scala aziendale che territoriale.

Nelle pinete dovrebbe trovare applicazione una selvicoltura mirata ad accrescere sia la resistenza alla siccità del popolamento arboreo ([19]) sia la resilienza all’incendio. Di fronte al cambiamento climatico, il tipo di pineta più stabile e con il maggior grado di resilienza al disturbo da incendio è costituito dalla fustaia disetanea, nella quale è sempre presente un’aliquota di piante in grado di disseminare ([100]). Sul piano colturale, vanno prescritti diradamenti selettivi e tagli su piccole superfici nella pineta matura per promuovere la rinnovazione naturale e indirizzare la pineta verso una fustaia disetanea a gruppi. Laddove si sviluppi una fitta rinnovazione naturale, è opportuno intervenire tempestivamente con gli sfollamenti. Una riduzione della competizione per la luce determina infatti un’accelerazione dei processi riproduttivi e la formazione di una “banca” del seme nella chioma, decisiva per la resilienza della popolazione in caso di passaggio del fuoco ([161], [173]).

Oltre alle pinete litoranee, va evidenziato che molti dei rimboschimenti di pino d’Aleppo nella fascia basale e submontana potrebbero assumere caratteri di relativa stabilità e rappresentare di fronte al cambiamento climatico un tassello di resilienza e diversificazione del paesaggio delle aree interne ([22]). In questi casi, una gestione adattativa e di precisione deve prevalere su impostazioni in cui la rinaturalizzazione verso il bosco di latifoglie sia un obiettivo rigido. È quindi da superare l’idea secondo la quale, data la loro origine artificiale, i popolamenti di conifere sarebbero solo un problema da risolvere. Al contrario, possono rappresentare un’opportunità sia sul piano ecologico (climate smart forestry) che su quello produttivo, per gli sbocchi di mercato di alcuni prodotti, ad esempio nel settore del packaging. Si tratta di aspetti da considerare nella pianificazione forestale a scala territoriale ([44]).

Mitigazione dello stress climatico

Gli stress climatici provocati dalle ondate di siccità e calore colpiscono soprattutto i querceti termofili della fascia sub-montana - boschi di cerro e farnetto in consociazione varia (v. portale safeoaks - ⇒ https:/­/­safeoaks.unibas.it/­) - che rappresentano il target di questo insieme di proposte colturali. A causa del pascolo sregolato, svariati di questi boschi vegetano su suoli sottili e compatti. Si tratta di condizioni che, ostacolando lo sviluppo delle radici e l’assorbimento dell’acqua, aggravano lo stress climatico. Il compattamento del suolo può essere anche dovuto a modifiche della vegetazione erbacea causate dal prelievo selettivo degli animali; modifiche che a loro volta comportano cambiamenti nella distribuzione delle radici e della struttura del suolo ([144]). Oltre a ciò, la competizione fra gli alberi per la (già scarsa) risorsa idrica diventa rilevante nel determinare perdite di vigore a causa della crisi del sistema di trasporto idraulico ([2]). I diradamenti sono lo strumento di cui il selvicoltore dispone per regolare la competizione all’interno del popolamento arboreo. La loro efficacia nel migliorare lo stato idrico delle piante dipende dal tipo di diradamento e dal grado con cui viene fatto, oltre che dalle caratteristiche del popolamento e da quelle stazionali. In condizioni di siccità, la quantità di acqua disponibile per l’assorbimento delle radici può essere significativamente ridotta dall’evapotraspirazione del sottobosco erbaceo e arbustivo. Il controllo (o la rimozione) della vegetazione del sottobosco può contribuire a migliorare l’assorbimento radicale durante i periodi siccitosi ([80]). Si tratta di interventi la cui opportunità deve essere valutata nel contesto specifico, con attenzione al fatto che la riduzione dell’ombreggiamento e l’aumento del carico radiativo potrebbero favorire l’evaporazione dal suolo, soprattutto in aree con ridotta densità arborea.

La regolazione della competizione per favorire l’accesso degli alberi alla risorsa idrica del suolo può essere un obiettivo rilevante anche in altre fisionomie boschive: rimboschimenti di conifere, querceti mesofili, faggete termofile. Boschi, questi ultimi, per ora non ancora colpiti da stress da siccità, ma che potrebbero esserlo nel futuro.

Alleviare la competizione e lo stress idrico

Nei querceti colpiti da stress climatico si è osservato che gli alberi che sopravvivono alla siccità sono spesso quelli più alti e con i tassi di crescita più elevati, capaci di utilizzare le risorse idriche che si trovano in profondità nel suolo ([50], [149]). Per ridurre in modo efficace la competizione per l’acqua si dovrebbe procedere, ove possibile, con diradamenti selettivi concentrati sulle piante intermedie e co-dominanti, in modo da avvantaggiare gli alberi grandi, che hanno maggiori probabilità di evadere e sopravvivere alla siccità. Poco utili, in questi casi, sono i diradamenti di tipo basso, consistenti nella sola rimozione degli alberi delle classi diametriche inferiori, o di quelli declinanti. Gli alberi morti non vengano, in ogni caso, rimossi: siano lasciati in piedi o, dopo la caduta, vengano lasciati sul letto di caduta per incrementare la necromassa del sistema e per creare microambienti favorevoli alla rinnovazione naturale.

Nei popolamenti di conifere, le ricerche mostrano che i diradamenti devono essere di grado piuttosto forte, sia al fine di conseguire apprezzabili risultati come alleviamento dello stress idrico, sia per garantire la durata di questo effetto ([124]). Il tempo di ritorno della siccità è destinato a ridursi nel futuro e quindi la durata dei tempi di ripristino post-siccità diventa un aspetto da considerare con attenzione. Nei boschi misti, particolarmente in quelli mesofili, sono consigliabili diradamenti selettivi o di tipo alto, che incidano sulle piante dominanti e codominanti ([92]).

Nei querceti con sintomi di deperimento il diradamento di tipo alto può assumere il significato di “taglio di rinnovazione”, ovvero di un intervento con il quale si creano ubicazioni (chiarie) in grado di favorire la rinnovazione naturale. Si ribadisce l’idea che la rinnovazione non debba essere vista in relazione della maturità cronologica (turno) del bosco, ma della capacità riproduttiva delle piante e della ricettività ambientale nei confronti dei semenzali. Per migliorarla si possono prevedere, ove possibile, interventi di scarificazione del suolo, da attuare su superfici limitate, laddove il suolo sia troppo compattato e presenti una dura crosta superficiale. In questi boschi la produzione di seme appare spesso ridotta e il pascolo, co-fattore delle difficili condizioni ambientali e del deperimento, non è compatibile con la rinnovazione naturale diffusa, a meno di creare zone alle quali gli animali non riescono ad accedere.

Controllare il pascolo e il sottobosco

Una razionale gestione può contribuire a ridurre gli effetti negativi del pascolo sul suolo e la vulnerabilità del bosco allo stress climatico. Il pascolo di bovini, ovini, caprini ha effetti diversi sulla compattazione del suolo, con differenze che dipendono da vari fattori: intensità e frequenza del pascolo, tipo di suolo e di vegetazione, caratteristiche geomorfologiche.

Data la loro mole, i bovini provocano fenomeni di compattazione maggiore ed estesa in profondità, soprattutto nelle aree in cui il suolo è argilloso. Le pecore esercitano un pascolo selettivo e disomogeneo, che porta a una compattazione localizzata. Le pecore e le capre, simili per dimensioni e peso, hanno comportamenti diversi. Le capre, agili, tendono ad arrampicarsi e a brucare su alberelli e arbusti, mentre le pecore pascolano maggiormente sul cotico erbaceo. Le capre hanno maggiori probabilità di provocare compattazione del suolo sui terreni scoscesi o nelle aree rocciose, mentre le pecore possono causare maggiori danni nelle aree pianeggianti o in luoghi con un fitto cotico erbaceo ([83], [107]).

La strada per ridurre i disturbi provocati dal pascolo passa sia attraverso la predisposizione di un piano di pascolamento - da rendere prospetto obbligatorio del piano di gestione forestale a scala aziendale - sia attraverso un processo partecipativo che permetta di recepire le necessità dei portatori di interesse (allevatori). È alla scala dei piani d’indirizzo territoriale, in questo caso, che le richieste degli allevatori e le esigenze di preservare le funzioni del bosco trovano le maggiori probabilità di composizione ([99]).

La traspirazione degli arbusti e delle erbe del sottobosco può rappresentare una perdita idrica consistente in rapporto al potenziale di ricarica assicurato dalle precipitazioni. La conservazione di un piano arboreo dominato, la cui asportazione non contribuisce ad alleviare lo stress idrico degli alberi rilasciati, può contribuire a ridurre lo sviluppo del sottobosco, in modo da limitare queste perdite. A questo fine, può essere valutato, laddove le condizioni del suolo lo consentono, l’introduzione di pascolo ovicaprino, meno impattante per il suolo rispetto a quello bovino. Il controllo del sottobosco con il pascolo può trovare applicazione anche come misura di prevenzione degli incendi boschivi ([102]).

Prevenzione degli incendi boschivi

La lotta attiva agli incendi boschivi (soppressione della fiamma e spegnimento) ha visto negli ultimi anni un incremento dei costi e una riduzione della sua efficacia. Soprattutto nel caso di incendi ad alta intensità - i cosiddetti Extreme Wildfire Events ([164]) - le operazioni di spegnimento, sia da terra che da mezzo aereo, possono risultare poco efficaci. Come sì è visto in precedenza, per le mutate condizioni climatiche e i cambiamenti di uso del suolo, nella regione mediterranea il pericolo d’incendio e il periodo di maggior rischio sono ampliati e la Basilicata non fa eccezione.

L’indicazione, in queste condizioni, è quella di dare applicazione alla selvicoltura di prevenzione dell’incendio ([24]), da attuarsi nel quadro di una gestione del territorio che miri a renderlo “a prova d’incendio” (fire smart territory - [163]). In Basilicata, visto l’ambiente d’impronta mediterranea e le condizioni climatiche che determinano situazioni di pericolo, non ci sono formazioni forestali a basso rischio d’incendio. La maggiore attenzione va riservata alle formazioni della fascia basale e submontana, in particolare ai popolamenti di conifere e ai boschi d’interfaccia con l’ambiente agricolo e urbano.

Indirizzi selvicolturali e gestionali per la prevenzione dell’incendio

La selvicoltura di prevenzione - attività recepita dalla legge quadro 353/2000 e, in Basilicata, dalla legge regionale 13/2005 “Norme per la protezione dei boschi dagli incendi” - è considerata come uno dei mezzi più efficaci per la lotta agli incendi boschivi. I suoi metodi sono noti ([24]). In sintesi, si tratta di interventi riconducibili a due categorie di azioni colturali: quelle che mirano a creare boschi resistenti all’incendio e quelle volte a ridurre il carico di combustibile. Nel primo caso si tratta di interventi colturali per agevolare la variabilità strutturale e compositiva del bosco, al fine di renderlo meno denso e favorire le specie meno infiammabili come le latifoglie. Nel secondo caso si tratta di interventi finalizzati alla riduzione del combustibile: sfolli, diradamenti e spalcature. L’obiettivo non è quello di escludere che il bosco possa prendere fuoco, bensì di contenere l’intensità dell’eventuale fronte di fiamma entro limiti accettabili, e rendere efficaci gli interventi di lotta attiva. In alcuni contesti possono assumere rilevanza, a questo fine, il pascolo controllato e il fuoco prescritto, quest’ultimo già previsto dalla legge regionale sopra citata e indicato tra gli interventi colturali previsti nell’ambito dell’attività di prevenzione degli incendi dal d.l. 120/2021.

In Basilicata, sebbene prevista sia nel Piano Antincendio Regionale che nel Programma Annuale Antincendio, la selvicoltura per la prevenzione degli incendi boschivi viene applicata in modo limitato; ne sono un esempio gli interventi effettuati nel quadro di progetti finanziati per contesti di particolare rischio, come le pinete della fascia ionica ([86]), e le ripuliture delle fasce boscate limitrofe alla viabilità principale finalizzate alla riduzione del rischio di innesco. Ciò che si propone per il Piano Forestale a venire è di rendere la selvicoltura di prevenzione, oltre che aspetto fondante della pianificazione antincendio regionale, parte integrante della pianificazione a scala aziendale. Per i piani di gestione forestale nelle zone a maggior rischio, si dovrebbe prevedere la redazione della carta dei combustibili, da allegare al piano. Si tratta della descrizione a scala di unità o comparto colturale dei modelli di combustibile presenti, la cui conoscenza e mappatura costituisce un elemento chiave per la definizione del rischio di incendio e delle misure selvicolturali di prevenzione ([25]).

Aspetto da non trascurare: soprattutto in aree sottoposte a misure di tutela ambientale - ve ne sono parecchie in Basilicata - l’applicazione della selvicoltura di prevenzione si è scontrata talvolta con le posizioni di coloro che, con spirito di intransigente conservazione, sono contrari a qualsiasi forma di manipolazione del bosco. A questo proposito, due sono le indicazioni: la prima è quella di dar vita a processi di partecipazione per cercare di armonizzare le posizioni verso l’obiettivo comune, quello di contenere la calamità rappresentata dagli incendi boschivi; la seconda è di programmare gli interventi di selvicoltura di prevenzione nel quadro di una gestione forestale adattativa e di sistema, in cui le cure colturali sono a sostegno dei processi naturali e mirano alla diversificazione e alla complessità della foresta. Una gestione di tal fatta rappresenta un modo efficace per comunicare e diffondere la “cultura” del bosco, fondamentale presupposto affinché il bosco sia rispettato ([36]).

Si accennava prima al concetto di fire smart territory. È questo un obiettivo cui val la pena di traguardare nel medio-lungo periodo. Significa mirare, nel quadro della pianificazione di indirizzo territoriale, a un paesaggio a mosaico in cui alle aree chiuse di bosco si alternino zone aperte di pascolo, aree coltivate, macchie alte e basse, ecc. Si tratta di una eterogeneità spaziale che rende il territorio meno vulnerabile agli incendi. La distribuzione frammentata del combustibile legnoso limita infatti la dimensione dell’incendio, ne rallenta la diffusione e riduce l’intensità delle linee di fuoco, rendendo l’eventuale incendio più facile da fronteggiare ([67], [172]). Da dire anche che un paesaggio siffatto risulta attraente sul piano estetico, e quindi diventa un valore aggiunto per l’economia basata sul turismo eco-sostenibile.

Prospettive per i cedui

In Basilicata, secondo i dati INFC-2015, i cedui interessano una superficie di 80.555 ha, ovvero il 28% della superficie attribuita alla categoria “Bosco”. Oltre la metà sono cedui di querce decidue (oltre il 70% dei querceti puri o misti risultano governati a ceduo); circa un quarto sono rappresentati dai cedui, con o a prevalenza di leccio, della macchia-foresta mediterranea; seguono, distanziati per estensione, i cedui di castagno e quelli di faggio.

Più dell’80% dei cedui in Basilicata rientra fra i cedui invecchiati (meglio definibili come cedui oltre-turno) ovvero soprassuoli in cui i fusti di origine agamica (polloni) hanno superato l’età corrispondente a quella stabilita per il taglio dalle prescrizioni di massima ([47]). Per questo motivo si tratta di popolamenti sensibilmente cambiati, con strutture e dinamiche inedite, rispetto a quelli che venivano utilizzati in passato. Non poche volte si assiste in queste formazioni a una conversione “silenziosa” in cui il ceduo oltre-turno manifesta un’autonoma evoluzione verso la fustaia ([69]).

Tenendo conto delle novità legate alla crisi climatica, dei fattori di disturbo che sul bosco agiscono, nonché di un interesse localmente ancor vivo per la funzione economico-produttiva del ceduo, si presentano, qui a seguire, per alcuni casi target, proposte colturali per una gestione del ceduo che non sia di retroguardia. E soprattutto sia attenta alla funzionalità del bosco e rispettosa dell’ambiente.

Cedui quercini e di altre latifoglie

I cedui di querce decidue e di altre latifoglie rappresentano la maggioranza dei cedui lucani e quelli sui quali ancora si manifestano, sia nella proprietà pubblica dei comuni, sia in quella privata, interessi economici non trascurabili. Interessi che hanno dato luogo negli ultimi anni a utilizzazioni non sempre condotte con modalità commendevoli, oppure orientate verso una filiera legno-energia che non appare in linea con le modalità che dovrebbero assicurarne la sostenibilità ([135], [136]).

Nel caso dei cedui quercini, l’indicazione gestionale non può ridursi a una alternativa tout court tra la prosecuzione del governo a ceduo o l’avviamento all’alto fusto. Troppo dipende infatti dalle caratteristiche specifiche del bosco, dalle novità introdotte dalla crisi climatica, dal contesto socio-economico, dalla volontà dei proprietari ([68], [58]).

Fatto salvo quanto può essere deciso a scala di pianificazione aziendale, è auspicabile che una valutazione dei vari fattori coinvolti, delle condizioni limitanti quanto di quelle favorevoli, a questo o a quel tipo di governo del bosco, trovi una prima attuazione nella pianificazione di indirizzo territoriale. A questa scala, le scelte verranno ponderate anche in relazione alla biodiversità e alla percezione estetica del paesaggio, al potenziale per un turismo eco-sostenibile, alle esigenze di conservazione biologica ([65], [101]). E saranno prese in considerazione le motivazioni che possono ancora rendere accettabile il governo a ceduo nell’attuale quadro climatico: la buona resistenza ai disturbi, la garanzia che il bosco si rinnovi naturalmente, la semplicità e flessibilità gestionale, gli effetti positivi (transitori) sulla biodiversità, il ciclo produttivo breve. In effetti, il governo a ceduo può rappresentare, se correttamente condotto, una modalità di gestione in grado di emulare, con tempi di ritorno brevi, i disturbi naturali a piccola e media scala che mantengono un buon grado di biodiversità e di resilienza del bosco e del paesaggio ([15]).

Fatte queste premesse, si possono dare le indicazioni seguenti: (i) in molti querceti decidui della fascia submontana termofila, con soprassuoli poveri di biomassa (sotto-provvigionati) e in ambienti degradati, non appare opportuna né una prosecuzione del governo a ceduo né una conversione attiva all’alto fusto attraverso i tagli di avviamento. In questi casi, ci si indirizzi verso l’evoluzione naturale controllata del bosco; (ii) la sostenibilità del governo a ceduo sia valutata in relazione al rischio idrogeologico dei versanti, acuito dagli inediti regimi di precipitazione imposti dal cambiamento climatico ([85]). Si tratta di una novità in grado di restringere l’estensione del ceduo sui versanti, fino a comprometterne l’idoneità, e di un aspetto che richiede una valutazione ben fatta a scala di pianificazione di indirizzo territoriale; (iii) nei casi in cui il governo a ceduo è sostenibile, si dia corso a una selvicoltura del ceduo a “regola d’arte” per la quale sono stati da tempo sistematizzati principi e metodi colturali ([42]). Alcune modalità colturali, come il taglio a saltamacchione modificato ([13]), potrebbero trovare applicazione nei querceti lucani; (iv) ci sia adeguato supporto affinché nelle proprietà non assestate il taglio del ceduo non sia derubricato a intervento di scarsa importanza e, come tale, non bisognoso di accurate relazioni professionali e valutazioni d’impatto. A tal proposito si tenga conto del fatto che i “tagli rasi” fatti malamente, quelli estesi e contigui, le alterazioni al suolo e i dissesti di versante provocati dai mezzi meccanici, nonché la qualità (spesso scarsa) delle matricine rilasciate, impattano sul paesaggio e suscitano vive opposizioni e reazioni negative nella gente (Fig. 9); (v) nei cedui mesofili a prevalenza o dominanza di cerro, specialmente in quelli oltre-turno, si consideri l’avviamento all’alto fusto come opzione colturale elettiva; (vi) nel caso di popolamenti con presenza di matricine di più cicli e altre specie sporadiche si valuti la possibilità di intraprendere la strada del ceduo composto ([40]).

Fig. 9 - Tagli nel ceduo di questo tipo (da notare la qualità scadente dei fusti rilasciati) screditano la gestione forestale.

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Cedui con leccio prevalente

I cedui a prevalenza di leccio si collocano prevalentemente nella fascia mediterranea basale, con risalite verso quella submontana. Le tipologie sono varie: formazioni a marcata prevalenza di leccio, formazioni aperte alle specie della macchia mediterranea, fino a boschi in cui il leccio si intercala al querceto termo-xerofilo sopra-mediterraneo (Fig. 10).

Fig. 10 - Valle dell’Agri. Macchia foresta dominata dal leccio sul versante, bosco ripariale nel fondovalle.

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Il cambiamento climatico agirà su queste formazioni, ed è possibile che la lecceta nei suoi tratti mesofili possa evolvere verso boschi con maggior presenza di specie della macchia mediterranea. Anche i cedui di leccio sono, nella maggioranza dei casi, oltre-turno. Come indirizzi colturali e gestionali, valgono per questi cedui diverse delle considerazioni prima esposte per quelli di querce decidue.

Si aggiungono le seguenti: (i) dato l’alto pericolo d’incendio della vegetazione mediterranea si dia supporto, ove necessario, alle azioni colturali proprie della selvicoltura preventiva degli incendi boschivi; (ii) nelle formazioni miste con la macchia mediterranea è consigliabile lasciare il bosco alla libera evoluzione ([115]); (iii) nelle formazioni a leccio prevalente della proprietà pubblica, a maggior ragione se si ricade entro aree protette o sottoposte a misure di tutela e salvaguardia, è da perseguire l’opzione dell’avviamento all’alto fusto, una volta valutate la fertilità stazionale e le condizioni del bosco ([89]). Il rilascio intensivo di allievi con il taglio di avviamento può rappresentare un modo per contenere il riscoppio delle specie della macchia e ridurre il pericolo d’incendio ([41]); (iv) nelle formazioni a leccio prevalente della proprietà privata e laddove persiste un interesse produttivo sul breve periodo, come alternativa al ceduo matricinato si valuti l’opzione del ceduo a sterzo, soprattutto nel caso di apprezzabile differenziazione fra i polloni ([116]); (v) in alternativa, può avere interesse il ceduo composto, che garantisce effetti positivi dal punto di vista paesaggistico-ambientale. In alcune situazioni, il ceduo composto può accordarsi con l’ordinamento silvo-pastorale dell’azienda ([114]).

Cedui di castagno

Quasi il 70% dei castagneti della Basilicata è rappresentato da cedui orientati alla produzione legnosa. Si tratta di boschi che rappresentano, da un lato, formazioni interessanti sul piano delle potenzialità produttive, passibili di valorizzazione in un quadro colturale adeguato; dall’altro, formazioni che, se non gestite, possono degradarsi e creare problemi dal punto di vista ambientale.

In caso di abbandono, ad esempio, all’invecchiamento del soprassuolo fa seguito un aumento della massa e della competizione fra le ceppaie, con diminuzione del potere ancorante dell’apparato radicale. Su versante ripido, questo può favorire dinamiche di ribaltamento e crollo a domino, causa a sua volta di disordine idrogeologico ([143]). Soprattutto su substrati alterabili e versanti acclivi, non appare quindi opportuno un indirizzo gestionale che prescriva tout court l’evoluzione libera di ex-cedui di castagno per i quali non si ravvisi la convenienza economica della coltivazione. In questi casi l’evoluzione del popolamento, nella prospettiva di una sua rinaturalizzazione, deve essere comunque “guidata”, per ridurre la competizione fra i polloni e per favorire la diversificazione strutturale e la diffusione delle altre latifoglie presenti.

La gestione che miri alla produzione legnosa, sia di quantità che di qualità, trova nei cedui di castagno occasioni promettenti, a patto di mettere in atto la cura del popolamento attraverso l’esecuzione di interventi di diradamento. Sono indispensabili, questi ultimi, qualora si punti a turni lunghi e grossi assortimenti. La regolazione della competizione risulta importante per prevenire il fenomeno della cipollatura e il conseguente deprezzamento degli assortimenti ([106]). L’allungamento dei turni non è però da prevedere nelle stazioni in cui ci siano infezioni di cancro corticale ([148]). In talune situazioni può essere interessante l’opportunità del ceduo castanile da frutto, innestando varietà gradite al mercato. Recenti sperimentazioni mostrano le potenzialità della selvicoltura d’albero, in cui l’obiettivo della produzione di fusti di qualità può convivere con quello di promuovere la biodiversità ([105]).

La necessità della matricinatura del ceduo di castagno è argomento dibattuto. Nei regolamenti vigenti esiste un obbligo di rilascio di matricine. Nel castagneto la matricina rilasciata non svolge un ruolo rilevante ai fini della sostituzione delle vecchie ceppaie, che conservano in modo pressoché indefinito la capacità pollonifera. Né, dato il rapido sviluppo dei polloni, apportano un significativo beneficio per la copertura del suolo. Anzi, se troppo numerose, possono ridurre la crescita dei polloni. Infine, si ricoprono rapidamente di rami epicormici e quindi non sono destinate a fornire assortimenti di qualità ([105] - Fig. 11). Per questi motivi va considerata la possibilità di innovare le norme che riguardano la matricinatura nei cedui di castagno. Si suggerisce quanto segue: (i) rendere possibile il ceduo semplice non matricinato e stabilire un numero massimo di matricine rilasciabili; (ii) prescrivere il rilascio delle specie sporadiche eventualmente presenti, il cui ritmo di crescita non interferisce con quello dei polloni; (iii) consigliare la matricinatura a gruppi, che favorisce la diversificazione del popolamento, la produttività dei polloni e migliora la valenza paesaggistica del ceduo ([61]); (iv) sotto il profilo della protezione del suolo, il taglio raso senza rilascio di matricine dovrebbe essere accompagnato dall’indicazione di una riduzione dell’ampiezza delle tagliate.

Fig. 11 - Ceduo di castagno. Pressoché nullo, se non dannoso, l’effetto delle matricine rilasciate, il cui fusto si ricopre rapidamente di rami epicormici a detrimento della qualità degli assortimenti legnosi che possono essere ritratti.

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Cedui di faggio

In Basilicata la superficie di cedui di faggio è relativamente modesta. Molti sono cedui oltre-turno, con ceppaie policormiche, nel dominio della faggeta altimontana. Per questi l’indicazione gestionale resta quella, da tempo in vigore, del bosco in evoluzione controllata, in libera conversione verso l’alto fusto. Nella faggeta la conservazione del governo a ceduo è opzione accettabile nella piccola proprietà privata o in caso di boschi comunali sottoposti a usi civici di legnatico, con la possibile innovazione rappresentata dall’applicazione del trattamento a sterzo ([7]). Altrimenti, l’alto fusto è sempre raccomandabile, per cui, con le eccezioni di cui sopra, la prescrizione da dare in questi sistemi è quella della conversione ([14], [42]).

Gestione forestale adattativa 

La gestione dei sistemi forestali dovrebbe essere impostata su basi adattative. Questo termine richiama la necessità di adottare metodi flessibili, esenti da schematismi e rigidità, basati sulla rimodulazione degli obiettivi della gestione tenendo conto dei cambiamenti ambientali e socio-economici che possono intercorrere; e metodi che siano fondati sul “mosaico” delle conoscenze scientifiche al momento disponibili ([16]).

In questo capitolo, il tema della gestione adattativa viene declinato considerando due aspetti. Il primo attiene alla concreta evenienza che i beni e i servizi erogati dai sistemi forestali (servizi ecosistemici), dati per stabili e garantiti, siano invece passibili di cambiamenti, non necessariamente in senso negativo. Questo richiede che ci siano periodici rilevamenti e valutazioni. Il secondo riguarda le innovazioni nei piani di gestione forestale, che dovranno fare riferimento sia ai nuovi indirizzi normativi, sia all’evoluzione delle discipline scientifiche sottese alla pianificazione forestale.

Mettiamo in evidenza che queste proposte vengono “seminate” su di un terreno fertile in Basilicata: negli ultimi venti anni, grazie agli investimenti pubblici, alle competenze e al meritorio impegno dei funzionari tecnici regionali, all’attività dei professionisti dottori forestali e agronomi, formatisi nei corsi di laurea in Scienze forestali e ambientali, la pianificazione forestale ha conosciuto in regione un considerevole sviluppo.

Rilevamento e valutazione dei servizi ecosistemici

I servizi ecosistemici possono andare incontro, nella regione mediterranea, a forti cambiamenti, a causa della rapidità con cui stanno modificandosi il clima, l’ambiente e il contesto socio-economico, e delle dinamiche in atto nelle biocenosi ([20], [120], [130]). Il periodico rilevamento dei servizi ecosistemici e la valutazione del loro valore economico e degli effetti di trade-off, trova prioritaria applicazione nella pianificazione di indirizzo territoriale ([155], [55]).

In Basilicata, tra le dinamiche in corso o attese nei prossimi anni, che rendono necessaria una rilevazione periodica e valutazione dei servizi ecosistemici, possiamo annoverare: (i) nella fascia della vegetazione basale: transizioni da macchie alte chiuse a macchie basse lacunose o garighe, con biocenosi semplificate sul piano strutturale; accresciute difficoltà per le localizzazioni costiere di latifoglie mesofile (Quercus spp., Fraxinus spp., ecc.); rallentamento dei processi di rinaturalizzazione delle pinete costiere; accresciuto pericolo d’incendio. Servizi ecosistemici da rilevare e valutare: assorbimento del carbonio, funzione produttiva, protezione idro-geologica, funzione frangivento, fruizione turistica orientata alla natura ed eco-sostenibile, valori legati alla diversità biologica; (ii) nella fascia della vegetazione sopra-mediterranea e submontana: contrazioni delle aree di stabilità delle latifoglie esigenti; regressioni verso boschi lacunosi o fisionomie miste arboreo-arbustive; rallentamento dei processi di rinaturalizzazione dei rimboschimenti; successioni secondarie verso comunità pre-forestali (arbusteti termofili) su terreni precedentemente coltivati o pascolati. Servizi ecosistemici da rilevare e valutare: assorbimento del carbonio, funzione produttiva, valore pastorale, produzione di biodiversità e di paesaggio, attrattività turistico-ricreativa eco-sostenibile; (iii) nella fascia della vegetazione montana e oro-mediterranea: processi di vulnerabilità della faggeta con possibili aumento della diversificazione strutturale della biocenosi ma diminuzione della consistenza e del grado di copertura dei popolamenti; ampliamento dell’area di stabilità delle latifoglie continentali; possibile maggior competitività dell’abete bianco autoctono rispetto al faggio; ampliamento dell’idoneità stazionale delle conifere oro-mediterranee (pini neri e pino loricato); possibile innalzamento della timberline; dinamiche di erosione a carico di popolazioni di specie oceaniche già relittuali, come quelle di Taxus baccata. Servizi ecosistemici da rilevare e valutare: assorbimento del carbonio e funzione produttiva, valori legati alla biodiversità e al paesaggio, valori naturalistico-conservazionistici, regolazione idrologica e deflussi, attrattività turistico-ricreativa eco-sostenibile, che oggi contempla anche le pratiche di terapia forestale ([82]).

Oltre che dalle dinamiche naturali, i servizi ecosistemici possono essere influenzati dal tipo di gestione che viene applicata. Per cui può essere importante, nel quadro della pianificazione territoriale, applicare metodologie di analisi che permettano di testare l’effetto di scenari gestionali alternativi, in cui si dia più o meno sostegno a una determinata funzione del bosco: produzione di legno, assorbimento del carbonio, protezione idrogeologica, conservazione della natura, ecc. ([23]).

Il rilevamento periodico e la valutazione dei servizi ecosistemici sarà facilitato - al pari di tutte le altre attività connesse alla gestione forestale - da un’ulteriore sviluppo del sistema informativo regionale collegato alle foreste e all’ambiente; fra gli strumenti più importanti da acquisire ricordiamo l’inventario delle foreste e la copertura con dati LiDAR del territorio regionale.

Il piano di gestione forestale come progetto aperto

Così come definito dalla vigente normativa (TUFF, d.l. 34 del 3 aprile 2018) e dai successivi decreti attuativi (in particolare il decreto 20 Ottobre 2021 “Disposizioni per la definizione dei criteri minimi nazionali per l’elaborazione dei piani forestali di indirizzo territoriale e dei piani di gestione forestale”), il Piano di Gestione Forestale è lo strumento per gestire la proprietà forestale a scala aziendale, pubblica e privata.

Già nel nome, la normativa vigente introduce una novità: non si parla più di Piani di Assestamento ma di Piani di Gestione Forestale, da redigere secondo “i principi, i criteri e i metodi propri dell’assestamento forestale”. Non si tratta di una semplice distinzione formale, ma del recepimento di un nuovo modo di intendere la gestione forestale e il suo principale strumento pianificatorio ([129]); per una discussione sull’argomento v. Ciancio ([37]).

Si ritiene che questa impostazione debba essere recepita nel prossimo Piano Forestale della Regione Basilicata. In particolare, nelle linee guida che la Regione Basilicata è chiamata ad aggiornare recependo i principi e i metodi definiti dalla normativa nazionale.

Per quanto riguarda le finalità di fondo, i piani di gestione forestale dovrebbero: contribuire a rendere operativi i principi della gestione forestale sostenibile, adattativa e multi-obiettivo; essere progetti aperti e flessibili, indirizzati a conseguire equilibri durevoli fra i valori naturali, colturali, storici e socio-economici; considerare il bosco come sistema di cui promuovere la funzionalità e la conservazione dinamica ([37]).

Redatti in linea con questi principi, come progetti aperti e compartecipati, potranno far sì che il concetto di multifunzionalità non venga percepito, sia dai proprietari che dalle imprese boschive, come vincolo e aggravio burocratico, ma come obiettivo per conferire maggior valore all’intera filiera foresta-legno, con benefici in grado di diramarsi ai portatori di interesse ([27]).

Nei piani di gestione dei sistemi forestali semi-naturali dovrebbero trovare concreta applicazione i seguenti indirizzi e metodi: (i) superamento del tradizionale concetto di bosco normale e di “massimizzazione” produttiva, assumendo come obiettivo di piano il sostegno alle diverse funzioni del sistema bosco, da specificare nei metodi e individuare in modo esplicito; (ii) adozione di modalità d’intervento che si addicano alla dinamica dell’ecosistema forestale e alla promozione dei processi auto-organizzativi; (iii) definizione della ripresa su basi esclusivamente colturali. A tal fine, sarà da prevedere una vieppiù accurata descrizione quali-quantitativa delle condizioni bio-ecologiche delle unità colturali (particelle forestali); (iv) esclusione della ripresa al di sotto di provvigioni soglia: 100-150 m3 ha-1 per le fustaie di specie a temperamento eliofilo (pinete); 200-250 m3 ha-1 per le fustaie di specie a temperamento intermedio (es. boschi misti di latifoglie): 300-350 m3 ha-1 per le fustaie di specie a temperamento tollerante la copertura (es. faggete, bosco misto faggio-abete) ([37]), fatti salvi gli interventi colturali; (v) rilevamento a scala di unità colturale o comparto colturale (compresa) dei modelli di combustibile; (vi) predisposizione di un piano delle utilizzazioni forestali che definisca le modalità con cui procedere al taglio del bosco nei diversi comparti colturali e fornisca tutte le informazioni per valutarne gli impatti; (vii) predisposizione di un piano di pascolamento, da prescrivere come prospetto, laddove necessario; (viii) coinvolgimento dei portatori di interesse per garantire un processo decisionale inclusivo.

In una prospettiva adattativa, il piano di gestione forestale dovrà: prevedere un monitoraggio regolare dello stato del sistema forestale, al fine di valutare l’efficacia della gestione applicata. A questo scopo, sarebbe auspicabile che, almeno a livello delle aree consorziate su cui si sviluppa la pianificazione di indirizzo territoriale, venissero previste delle posizioni per figure professionali cui demandare l’attività di monitoraggio; prevedere metodi e strumenti che consentano una efficiente e rapida integrazione o aggiornamento degli elaborati di piano. In relazione a questa necessità si auspica che vengano previste procedure di dematerializzazione degli elaborati di piano con possibilità di rapida modifica, attraverso l’uso di piattaforme software che permettano l’aggiornamento, vigilato dagli uffici preposti, dei contenuti del piano.

La normativa oggi vigente (art. 4 del decreto 20 ottobre 2021) non vincola a dieci anni la validità del piano di gestione aziendale, che potrebbe essere portata fino a un massimo di venti anni. Nell’ipotesi di un ampliamento del periodo di validità si raccomanda che, verso metà percorso, sia prevista una revisione semplificata del piano, analizzando e quantificando i cambiamenti e le differenze sostanziali incorse nel periodo, con l’ausilio dei metodi più efficienti e speditivi di cui possiamo disporre (dati telerilevati, campionamenti mirati, ecc.); in questa occasione si verificheranno gli obiettivi e il cronoprogramma dei tagli (rimodulandoli se necessario), senza modificare l’impianto principale del piano, che sarà aggiornato a scadenza vera e propria.

Prospettive per la filiera foresta-legno 

La Basilicata è la regione con il minor tasso di prelievo legnoso (definito come rapporto fra la superficie interessata da interventi selvicolturali rispetto alla superficie forestale totale): 0,46% contro una media nazionale dell’1,2% (v. RaFITALIA - ⇒ https:/­/­www.reterurale.it/­flex/­cm/­pages/­ServeBLOB.php/­L/­IT/­IDPagina/­19231).

Si tratta di un dato che mette in evidenza la difficoltà nel gestire in modo efficace una risorsa in grado di erogare importanti servizi ecosistemici. Nello stesso tempo indica come la filiera foresta-legno lucana potrebbe svilupparsi in una realtà produttiva e occupazionale di maggior rilievo rispetto all’attuale, soprattutto se si orientasse a una produzione legnosa indirizzata alla qualità. Sotto questo aspetto, la Basilicata non fa eccezione rispetto al quadro italiano laddove, secondo quanto riportato da RaFITALIA, circa il 60% dell’incremento legnoso dei boschi non è idoneo a produrre materiale di qualità da destinare ad usi industriali.

Si illustrano qui di seguito quelle che appaiono le caratteristiche (e le debolezze) della filiera foresta-legno in Basilicata, presupposto per formulare proposte per la sua valorizzazione.

Caratteristiche ed elementi di debolezza della filiera

Un’indagine recente condotta dal centro di ricerca Politiche e Bioeconomia del CREA, in collaborazione con il Dipartimento Politiche Agricole e Forestali della Regione Basilicata, evidenzia alcune debolezze negli “anelli” che formano la filiera foresta-legno ([59]).

Scarsa motivazione se non disinteresse, o quantomeno interesse saltuario, caratterizzano molti proprietari privati. Anche laddove l’azienda forestale sia provvista di un piano di gestione, per svariati motivi - sfavorevoli congiunture di mercato, carenza di manodopera, ecc. - si osservano spesso difficoltà, sia nella proprietà pubblica che privata, a mettere in pratica quanto programmato; spesso, ad esempio, non vengono rispettati i cronoprogrammi dei prelievi legnosi. Per questi aspetti come per altri, le problematiche specifiche della filiera forestale non sono certo avulse da quelle socio-economiche generali.

L’anello della filiera rappresentato dalle imprese boschive si caratterizza per la presenza di poche ditte specializzate nelle utilizzazioni forestali, dotate di mezzi spesso di vecchia generazione, al pari delle imprese di prima trasformazione del legname. Nel 2016 (ultimo dato disponibile) le imprese con codice ATECO 02 “Silvicoltura ed utilizzo di aree forestali’ erano 145, con 292 addetti (v. RaFITALIA). Di queste, meno del sessanta per cento risultavano iscritte all’albo regionale come imprese che eseguono lavori in ambito forestale e di difesa del territorio, quindi in grado di avere rapporti con enti pubblici ([147]).

Le industrie che fanno capo al settore legno (274 con 750 addetti secondo RaFITALIA), numerose delle quali afferiscono al polo del salotto e dell’arredo, sono largamente estranee sul piano degli approvvigionamenti alla filiera foresta-legno regionale. La mancanza di requisiti di qualità degli assortimenti, l’impossibilità di avere garantite forniture regolari nel tempo, i prezzi di mercato: sono tutti motivi che portano le industrie del settore a privilegiare l’importazione dei prodotti legnosi necessari (legname tondo e segato) o da fuori regione oppure dall’estero. Con i problemi giuridici, ma anche etici, connessi alla possibilità che il legname acquistato provenga da commercio illegale o da una gestione forestale non sostenibile, causa di deforestazione nei paesi d’origine ([139]).

I fabbisogni di legname per l’industria sono distanti dalle produzioni reperibili sul mercato locale per vari motivi: le caratteristiche dei popolamenti, i modi con cui questi sono stati fino ad ora gestiti, le carenze negli strumenti pianificatori, la scarsa motivazione dei proprietari, l’assenza di professionalità in grado di individuare e valorizzare assortimenti locali di pregio. Si aggiunga che come quasi ovunque nel nostro paese - caso dei pioppeti a parte - mancano in Basilicata piantagioni specializzate, appositamente costituite e gestite per la produzione di legname di qualità.

Per questi motivi le produzioni locali sono sbilanciate su prodotti che non hanno interesse industriale, e la ripresa legnosa trova come principale destinazione la legna da ardere o, dopo processi di lavorazione a modesto valore aggiunto, cippato e pellets ad uso energetico (Fig. 12). La situazione è anche il frutto di scelte politiche che hanno favorito il mercato della bioenergia, visto come strumento per sostenere le imprese e l’occupazione nel settore ([29], [121]). Per inciso, in un mercato dominato da imprese che dichiarano di operare nel solo settore legno-energia capita che i proprietari boschivi, pubblici o privati, siano indotti a vendere al prezzo (basso) della legna da ardere, materiale legnoso che le imprese riescono successivamente a valorizzare per usi più nobili.

Fig. 12 - Cippatrici in azione in una faggeta lucana: la maggior parte del legname ricavato con l’utilizzazione viene destinato alla produzione di bioenergia. Soprattutto nei casi in cui il soprassuolo sia rappresentato da popolamenti derivanti da conversione all’alto fusto, la pratica non appare raccomandabile e sostenibile. Dovrebbe affermarsi l’uso a “cascata” del legno, limitando la destinazione per energia a contesti di reale filiera corta o riservandola ai soli residui delle utilizzazioni, laddove un’accurata valutazione stazionale abbia stabilito che sia pratica ecologicamente sostenibile ([136]). La filiera corta, con uso locale del legno prodotto, potrebbe risultare funzionale alle comunità locali laddove ci siano aziende agricole che utilizzano lotti forestali con mezzi aziendali integrati con attrezzature specifiche, ottimizzando tempi e investimenti aziendali per adeguarsi alle contingenze di mercato, e impiegando manodopera reperita sul posto.

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Questa situazione si è tradotta in utilizzazioni boschive condotte talvolta con modalità non appropriate, nel quadro di una filiera legno-energia che non appare in linea con i principi e le modalità che dovrebbero assicurarne la sostenibilità ([135], [136]). Se estesa, questo tipo di gestione rischia di portare a perdite di professionalità e di competenze fra gli operatori e i tecnici del settore. Ai fini della sostenibilità di questa filiera, non ha poi aiutato la legge 59 del 15 dicembre 2021, con cui la Regione Basilicata ha abrogato uno dei requisiti tecnici minimi previsti per gli impianti di produzione energetica a biomasse contenuto nel PIEAR (Piano di indirizzo energetico ambientale regionale, legge regionale 1 del 2010). In sostanza, è stato abolito il requisito della filiera corta, per cui gli impianti alimentati a biomasse non hanno ora limiti di distanza per il reperimento della materia prima, mentre in precedenza esisteva un limite di distanza posto a settanta chilometri.

Proposte per la valorizzazione della filiera

Valorizzare la filiera significa, nella sostanza, incrementare il valore aggiunto nei suoi diversi stadi. Lo si può fare a diversi livelli e in vari modi, con differenti prospettive temporali. A seguire se ne propongono alcuni.

Al primo gradino della filiera, quello del bosco, un valore aggiunto di medio-lungo periodo verrà generato da una selvicoltura di popolamento volta all’educazione di fusti di qualità o da una selvicoltura d’albero, entrambe in grado di generare un incremento di valore della provvigione legnosa. Nel breve periodo un incremento di valore può derivare dalla qualificazione - da affidare a personale appositamente formato - dei fusti presenti in bosco al fine di individuare assortimenti d’interesse per l’industria. Si tratta, sulla base della nostra esperienza, di una prospettiva realistica in diversi boschi di latifoglie. Se il miglioramento tecnologico delle imprese boschive consentisse di tenere bassi i costi di utilizzazione, ciò potrebbe generare un interessante indotto laddove venga promossa la creazione di impianti di prima trasformazione modernamente attrezzati, o si provveda alla modernizzazione di quelli esistenti. Ulteriore valore sarà generato dalla diffusione, oggi scarsa, delle procedure di certificazione (ad esempio quella della catena di custodia dei prodotti legnosi) che trasmettono al consumatore la percezione della sostenibilità delle produzioni basate sul legno di origine locale, con benefici di mercato.

L’istituzione di un mercato telematico, in grado di portare alla luce le proposte di vendita e di acquisto del materiale legnoso prodotto localmente, si tradurrebbe in benefici per i proprietari e concorrerebbe a ridurre la distanza che separa il settore forestale dal mondo dell’industria. Ci riferiamo alla cosiddetta “borsa del legno”: un sistema di commercializzazione in rete di tutte le tipologie di risorse legnose, dal legname di pregio, alle biomasse, alla legna da ardere. Consentirebbe, senza oneri aggiuntivi per i soggetti della filiera, di mettere insieme domanda e offerta, aiutando a superare i problemi legati alla frammentazione della proprietà boschiva. Un mercato telematico che sia di supporto agli operatori del settore, i quali potrebbero inserire proposte di vendita e di acquisto da concludersi con contratti telematici. Con il vantaggio di una maggiore trasparenza e standardizzazione delle procedure contrattuali.

Per avvicinare il settore del bosco a quello dell’industria, è cruciale il supporto alla ricerca orientata all’innovazione di processo e di prodotto, svolta in stretta collaborazione con la componente industriale della filiera. Ci sono già in questo campo applicazioni in grado di generare, attraverso l’impiego di legno prodotto localmente, valore aggiunto in vari settori industriali. Diversi studi condotti da ricercatori dell’Università della Basilicata in partenariato con l’industria del legno su legname proveniente da foreste lucane, hanno dimostrato ad esempio l’efficacia dei trattamenti igrotermici per il miglioramento delle caratteristiche dei prodotti legnosi, con importanti ricadute sul settore dell’arredo ([169], [73], [96], [170]) oppure per la costituzione di pannelli di particelle coibentanti o per pannelli da tavole ([168]). Promettenti appaiono anche i metodi estrattivi, con applicazioni ad alto valore aggiunto nel settore farmaceutico e nutraceutico ([32], [71]).

Per quanto riguarda il settore della biomassa legnosa utilizzata a fini energetici, si dovrà dare piena applicazione al concetto di filiera corta e all’approccio “a cascata” del legno ([45]), che prevede l’impiego delle biomasse a fini energetici solo quando non ci sono alternative migliori, o che la limiti all’uso dei residui delle utilizzazioni boschive laddove questo sia ecologicamente sostenibile, a seguito di accurate valutazioni ([136]).

Solo se gestito sulla base di questi principi, il settore della bioenergia potrà generare un valore aggiunto sostenibile. In caso di erogazione di incentivi a questo settore, è auspicabile una svolta. Gli incentivi dovrebbero essere maggiormente diretti al supporto degli interventi selvicolturali mirati al miglioramento qualitativo dei popolamenti: si tratta infatti di interventi - dai quali può derivare materiale per la bioenergia ma non solo - che quasi sempre rappresentano operazioni “pre-commerciali”, quindi bisognose di supporto economico. In tale contesto e per questo tipo di utilizzazione, è auspicabile a nostro avviso un supporto anche a favore delle imprese di prima trasformazione che da troppo tempo sono costrette a lavorare con margini di guadagno molto ridotti. Così come è auspicabile un maggiore equilibrio tra l’uso del cippato per l’industria (ad esempio per la fabbricazione dei pannelli) e quello ad uso energetico, limitando quest’ultimo utilizzo a contesti locali di reale filiera corta, entro prescritte distanze.

Da ultimo, ma certo non per importanza: l’annoso sforzo - che nel corso del tempo ha conosciuto interessanti sviluppi grazie a varie iniziative nel quadro dei progetti PSR/FEASR - di dar vita a forme di aggregazione imprenditoriale (consorzi forestali, cooperative, cluster, reti d’impresa, ecc.) dei vari attori che operano nel settore forestale conserva pienamente la sua validità come mezzo per creare processi di filiera efficienti, con maggior valore aggiunto nei diversi anelli produttivi. Così come si dovrebbe dar seguito ai virtuosi progetti di formazione professionale per gli operatori forestali (Progetto For.Italy, Formazione Forestale per l’Italia - ⇒ https:/­/­www.politicheagricole.it/­flex/­cm/­pages/­ServeBLOB.php/­L/­IT/­IDPagina/­17844).

Sono, quelli sopra elencati, obiettivi tutti coerenti con la missione dell’appena istituito “Cluster Italia Foresta Legno” (⇒ https:/­/­www.italiaforestalegno.it/­): quella di restituire valore alle filiere economiche nazionali attraverso l’incentivazione dell’utilizzo del legno italiano, la promozione della ricerca, della formazione e dell’innovazione di settore e la condivisione delle migliori pratiche per lo sviluppo dei territori forestali.

Sintesi conclusiva 

La gestione forestale in Basilicata è tuttora ancorata a schemi convenzionali: utilizzazioni nei boschi cedui e interventi di diradamento scarsamente selettivi nelle fustaie o nei popolamenti transitori derivanti da pregressi tagli di avviamento all’alto fusto. I risultati di questo tipo di gestione sono andati poco oltre la produzione di legna da ardere o, recentemente, di cippato destinato a una poco convincente filiera legno-energia. La selvicoltura, nel senso compiuto della disciplina, è stata finora poco praticata, sia nella proprietà pubblica che ancor di meno in quella privata. I boschi sono stati spesso visti come “oggetti” da sfruttare - oltre che come occasione di lavoro assistito - più che come sistemi da preservare e sostenere per il loro valore intrinseco e per i molteplici benefici che possono generare per la collettività.

Si possono, quindi, fare passi avanti nella gestione dei boschi lucani. Le proposte colturali e gestionali definite in questo lavoro, in vista del Piano Forestale che la Regione Basilicata si appresta a varare, fanno propri i principi e i metodi della gestione su basi naturali di tipo adattativo da attuare a sostegno della resilienza e della funzionalità dei sistemi forestali. Calibrate sulle principali fisionomie forestali della Basilicata, queste proposte sono state ordinate in base a una serie di obiettivi ritenuti prioritari, che di seguito riepiloghiamo.

  • Promozione della biodiversità. La biodiversità favorisce la resilienza della foresta, quindi il mantenimento dei servizi ecosistemici. Il target delle proposte colturali è stato individuato nelle faggete e nei querceti mesofili e meso-termofili. Sono state proposte innovazioni in relazione a: regolazione della competizione ai fini della diversificazione strutturale e della valorizzazione della provvigione; promozione della rinnovazione naturale al fine della diversità compositiva; agevolazione della diversità funzionale per aumentare la resilienza della comunità; tree retention per incrementare la biodiversità.
  • Rinaturalizzazione. La rinaturalizzazione delle formazioni di origine artificiale mira ad avere boschi diversificati, resilienti al cambiamento climatico. Il target è quello dei popolamenti artificiali derivanti da rimboschimento. Casi rilevanti sono anche quelli delle pinete mediterranee del litorale ionico e dai castagneti da frutto abbandonati, o assoggettati a forme saltuarie di coltivazione. Sono stati delineati i metodi per rinaturalizzare “naturalmente”, valutate soluzioni intermedie negli approcci verso la rinaturalizzazione; sono stati proposti nuovi orientamenti per la gestione delle pinete costiere.
  • Mitigazione dello stress climatico. Le ondate di siccità e calore legate al cambiamento del clima stanno colpendo i querceti termofili della fascia sub-montana, che rappresentano il principale target delle proposte qui presentate. Si è scritto della regolazione della competizione al fine di alleviare lo stress idrico, della razionalizzazione del pascolo per migliorare le condizioni del suolo, del controllo del sottobosco per ridurre l’evapotraspirazione e il deficit idrico stazionale.
  • Prevenzione degli incendi boschivi. La selvicoltura di prevenzione è uno dei mezzi più efficaci per la lotta agli incendi boschivi. In Basilicata l’attenzione maggiore va riservata alle formazioni della fascia basale e submontana, che diventano il target principale di questo obiettivo. La proposta è quella di integrare la selvicoltura di prevenzione nella pianificazione forestale a livello aziendale. A scala territoriale, si auspica l’implementazione del concetto di fire smart territory: un territorio a mosaico, in cui la distribuzione frammentata del combustibile legnoso limita la dimensione dell’incendio, ne rallenta la diffusione e lo rende più facile da fronteggiare.
  • Prospettive per i cedui. Dai cedui di faggio a quelli quercini - che rappresentano la metà dei boschi cedui - da quelli di castagno a quelli di leccio, i cedui della Basilicata sono prevalentemente “oltre-turno”, vale a dire cedui in cui i polloni hanno superato l’età stabilita per il taglio, in base alle norme vigenti. Caso per caso, sono state discusse le varie modalità con cui oggi, di fronte alla crisi climatica, questi sistemi possono essere gestiti in modo sostenibile, preservando la funzionalità del bosco.

Ampio spazio è stato dato ai principi della gestione forestale adattativa, al rilevamento e alla valutazione dei servizi ecosistemici a livello di pianificazione territoriale, ai principi che dovranno informare il piano di gestione forestale a scala aziendale.

Si sono considerate da ultimo le caratteristiche della filiera foresta-legno in Basilicata, le cui debolezze sono anche riconducibili ai prodotti legnosi di scarsa qualità e quindi di modesto interesse per l’industria, che oggi sono ritratti dai boschi lucani. L’applicazione di una selvicoltura “a regola d’arte” ([17]), che promuova, nella garanzia della funzionalità e della biodiversità del bosco, la produzione di assortimenti legnosi di pregio e la loro valorizzazione - attraverso l’istituzione di una borsa telematica del legno che li renda individuabili e accessibili per l’industria - sono modi per creare valore aggiunto nell’ambito della filiera. Così come valore aggiunto sarà prodotto dalla ricerca orientata all’innovazione di processo e di prodotto, che va adeguatamente sostenuta. Sul tema della biomassa legnosa a fini energetici, appare urgente dare applicazione al concetto di filiera corta e all’approccio “a cascata” nell’uso del legno, che ne prevede l’impiego a fini energetici solo quando non ci sono alternative migliori.

Ringraziamenti 

Il lavoro è stato svolto nel quadro di una convenzione fra il Centro Politiche e Bio-economia del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia agraria (CREA-PB) e la Scuola di Scienze Agrarie, Forestali, Alimentari e Ambientali dell’Università della Basilicata (SAFE-UNIBAS), dal titolo “Convenzione di ricerca operativa per lo svolgimento di attività nell’ambito dei progetti: Programmazione e pianificazione forestale della Regione Basilicata (PRO.FO.REP); Redazione del Piano Forestale d’Indirizzo Territoriale (PFIT) nell’area Parco del Pollino”. Esprimiamo un sentito ringraziamento alla dr.ssa Giusi Costantini (CREA-PB), con la quale abbiamo lungamente e proficuamente condiviso attraverso gli anni la passione e i progetti riguardanti la gestione dei boschi della Basilicata. Così come abbiamo il dovere di riconoscere le preziose e regolari interlocuzioni con la Direzione Generale per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali della Regione Basilicata, nelle persone della dr.ssa Emilia Piemontese, e dei dottori Salvatore Digilio, Mario Nolè e Piernicola Viggiano. Per il passato, è ancora vivo in noi il ricordo della competenza e della passione con le quali il dottor Antonio Racana ha contribuito allo sviluppo della pianificazione forestale regionale. Infine, siamo grati, per il continuo e prezioso supporto, ad Antonio Lapolla, valente tecnico dell’Università della Basilicata.

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