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New evidences on soil contribution to global warming

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 12-13 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0266-0002
Published: Mar 10, 2005 - Copyright © 2005 SISEF

Commentaries & Perspectives

 

Un recente studio pubblicato su Nature (Knorr W, Prentice IC, House JI, Holland EA, 2005. Long-term sensitivity of soil carbon turnover to warming, vol. 433: 298-301) riguardante l’ipotesi di un effetto di lungo periodo della temperatura sul tempo di residenza del carbonio organico (C) del suolo, arricchisce la nostra conoscenza sulle dinamiche di decomposizione della sostanza organica ed apre, allo stesso tempo, una interessante prospettiva sul contributo del suolo al riscaldamento globale.

L’attuale stato delle conoscenze sulla risposta del suolo al global warming si basa sulla stretta dipendenza della decomposizione della sostanza organica dalla temperatura e si incentra nella previsione che aumenti di temperatura anche di modesta entità possano significativamente aumentare la quantità di carbonio emessa dal suolo, in ragione soprattutto delle ingenti quantità coinvolte, innescando in questo modo feedback positivi con il climate change. È stato calcolato, ad esempio, che un aumento annuo di 0.03 °C della temperatura media planetaria è in grado di aumentare l’emissione di C dal suolo di 60 PgC nell’orizzonte temporale 1990-2050, una quantità di C equivalente a un aumento, nello stesso periodo, del 19% nell’uso dei combustibili fossili.

Alcuni esperimenti di riscaldamento artificiale (si veda l’analisi degli esperimenti di incubazione riportata in Giardina CP & Ryan MG, Evidence that decomposition rates of organic carbon do not vary with temperature - Nature 404: 858-861, 2000) hanno dimostrato, tuttavia, che l’aumento dell’emissione di CO2 dal suolo dovuto alla temperatura è destinato ad esaurirsi nel breve periodo a causa dei processi di acclimatazione biologica delle comunità microbiche, lasciando aperta la possibilità che l’effetto di stimolazione sul C organico possa essere solo transiente e che la risposta del suolo al riscaldamento globale possa essere stata sovrastimata.

Utilizzando un modello che descrive il C organico del suolo mediante tre pools che si decompongono con differenti turnover secondo la cinetica di Arrhenius, Knorr et al. costruiscono una teoria coerente che riconcilia risultati contrastanti e contribuisce a chiarire il meccanismo di risposta alla temperatura del C organico del suolo. Secondo questo approccio, innanzitutto, le previsioni di breve periodo derivate dagli esperimenti di incubazione risultano confermate: assumendo il suolo in equilibrio alla temperatura media annuale in cui si trova naturalmente, l’aumento artificiale di temperatura determina nel breve periodo (mese-anno) una rapida decomposizione della frazione labile del C organico e una trascurabile perdita della frazione non-labile con ritorno del suolo allo stadio iniziale di equilibrio.

Considerando però una scala temporale più lunga, è lecito ipotizzare solo una risposta trascurabile del C organico alla temperatura? Knorr et al. ci forniscono elementi per riesaminare questa ipotesi. Infatti, analizzando i risultati di 13 esperimenti di incubazione a diversa temperatura e su suoli di tipo diverso, essi ricavano una chiara tendenza all’aumento dell’energia di attivazione con il tempo di turnover della frazione del C organico, suggerendo quindi che le frazioni meno labili del C possano presentare una maggiore sensibilità alle variazioni di temperatura rispetto alle frazioni più labili. Considerando che le frazioni meno labili del C rappresentano in genere fino al 90-95% del C organico del suolo, questo significa che esiste un’inaspettata sensibilità di lungo termine del C del suolo alla temperatura. In altri termini, in una condizione perdurante di riscaldamento quale quella prevista dal global change, la perdita di C dal suolo potrebbe risultare superiore a quella attualmente prevista dai modelli climatici e i suoli potrebbero contribuire più di quanto si supponga oggi all’emissione di CO2 in atmosfera, nella scala temporale delle centinaia di anni.

Il modello di Knorr et al. deve essere certamente testato su altri datasets e le critiche riguardanti il carattere di scarsa rappresentatività degli esperimenti di incubazione, dovute alla semplificazione dei processi che controllano l’emissione di CO2 dal suolo, rimangono comunque aperte. Tuttavia, il contributo è interessante e dà rilievo ad una necessità ampiamente segnalata dalla comunità scientifica, legata alla esigenza che il suolo superi la condizione attuale di black box nel panorama degli studi sul global change. Necessità che si scontra, d’altra parte, con le difficoltà che caratterizzano lo studio del suolo e del C in esso contenuto, siano esse intrinseche (eterogeneità delle frazioni costituenti la sostanza organica, elevata variabilità spaziale orizzontale e verticale, ordini di grandezza degli stock di C nettamente superiori a quelli delle loro variazioni di breve termine) o dovute all’effetto del clima e dell’uso del suolo.

Oggi il C contenuto nei suoli rientra nei pools delle attività LULUCF (Land Use, Land Use Change and Forestry) conteggiabili a detrazione sui bilanci nazionali delle emissioni di gas ad effetto serra dei paesi firmatari del protocollo di Kyoto. In mancanza di dati sperimentali a causa delle difficoltà ricordate, il calcolo dello scambio di C tra suolo e atmosfera viene spesso effettuato sulla base di assunzioni. Nel caso, per esempio, della scelta della profondità di riferimento da considerare per il calcolo delle variazione di carbonio nel suolo dovuto ai cambiamento di uso del suolo, l’IPCC raccomanda (Good Practice Guidance for Land Use, Land Use Change and Forestry - IGES 2003) di riferirsi almeno allo strato 0-30 cm basandosi sul ragionevole assunto che in quello strato vi sia il massimo contenuto di C organico labile, caratterizzato da un basso tempo di turnover e quindi suscettibile di variazione nel breve termine. Evidentemente questo approccio rimane valido sulla scala temporale di misura dello stock change previsto dai meccanismi di rendicontazione del Protocollo di Kyoto (5 anni) ma, nell’ottica di una politica di conservazione e valorizzazione del C nel suolo di lungo termine, la possibilità di considerare anche le frazioni meno labili del C dovrà essere tenuta in debita considerazione.

 
 
 

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