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From leaf to ecosystem: does the scale of analysis change the response to CO2 increase?

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 1, Pages 13-15 (2004)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0200-0001
Published: Oct 12, 2004 - Copyright © 2004 SISEF

Commentaries & Perspectives

Premessa 

Negli ultimi 250 anni la CO2 atmosferica è aumentata del 32%, passando da 280 a 370 μmol mol-1, e metà di questo aumento è avvenuto negli ultimi 40 anni. Per il 2100, a seconda delle assunzioni sulla crescita economica, i progressi tecnologici ed il sequestro del carbonio attraverso i processi biologici, si prevede un livello di CO2 compreso tra 540 e 970 μmol mol-1 ([3]). Con questo scenario, è evidente il grandissimo interesse degli scienziati - soprattutto fisiologi vegetali ed ecologi - nel prevedere le risposte delle piante e degli ecosistemi all’aumento della CO2 atmosferica e alle modificazioni climatiche (temperatura e regimi pluviometrici) ad esso associate. Per quanto riguarda la CO2, un’ampia review appena uscita sulla rivista New Phytologist ([9]) analizza in dettaglio i risultati ottenuti con i sistemi “FACE” (Free-Air-CO2-Enrichment). Questa tecnologia rappresenta al momento la migliore soluzione per manipolare, in condizioni naturali, la concentrazione della CO2 atmosferica a livello di ecosistema.

Dalla cuvette ai sistemi FACE 

Sebbene la risposta positiva della fotosintesi alla CO2 sia nota da tempo, ed in certi casi sia anche stata sfruttata (ad es. nelle serre), solo negli ultimi 30 anni si è iniziato ad analizzarne in modo approfondito i fondamenti fisiologici. Fin dalle misure effettuate con cuvette su singole foglie apparve chiaro che un aumento di CO2 aumentava i tassi di fotosintesi e diminuiva la conduttanza stomatica, con l’effetto complessivo di aumentare l’efficienza d’uso dell’acqua. Il problema era capire come questa risposta interagisse con altri fattori limitanti (soprattutto azoto ed acqua) e, soprattutto, se si potesse confermare anche a livello di intera pianta o di ecosistema. Dalle prime osservazioni sperimentali su semenzali in ambiente controllato vennero formulate ipotesi - ad esempio che la risposta degli ecosistemi all’aumento di CO2 sia maggiore laddove l’acqua è limitante ed i nutrienti abbondanti ([14]) - che stimolarono una vastissima ricerca sperimentale. Grazie al progressivo interesse sull’argomento ed ai significativi miglioramenti strumentali, all’inizio degli anni ’90 si arrivò - con le “open top chambers” - a testare la risposta all’aumento di CO2 su interi alberi nel loro ambiente naturale. Questi studi, pur rappresentando un decisivo passo in avanti rispetto alle precedenti ricerche su semenzali in ambiente controllato (vedi [12], [5], [7]), soffrivano però ancora di alcuni importanti limitazioni. Tra queste, il fatto che gli alberi esaminati erano di solito nella fase di crescita esponenziale, e che le “camere” nelle quali crescevano alteravano in modo significativo il microclima. Insomma, estrapolare ad un intero popolamento i risultati di questi studi era difficile, e divenne sempre più chiaro che un approccio a livello di ecosistema era indispensabile per effettuare realistiche previsioni sulla risposta degli ecosistemi ai cambiamenti climatici ([4]). Gli ulteriori progressi scientifici e tecnologici permisero di arrivare, alla fine degli anni ’90 ([2], [6]), ai primi sistemi FACE capaci di fornire - in modo sufficientemente continuo ed uniforme e con minimi disturbi al microclima ed al suolo - CO2 elevata (intorno ai 550 μmol mol-1) a porzioni relativamente grandi (aree di 20-30 m di diametro) di ecosistemi erbacei e forestali intatti.

Attualmente, in tutto il mondo, ci sono 24 sistemi FACE operanti su ecosistemi naturali (la maggior parte è in Europa). La review di Nowak et al. ([9]), di cui di seguito si riportano sinteticamente i risultati, analizza i dati di 16 di questi siti (dei quali 5 sono foreste temperate). L’obiettivo è di verificare se i risultati dei sistemi FACE confermano le precedenti ipotesi sulla risposta degli ecosistemi all’aumento di CO2. In particolare, determinando i rapporti E/A, cioè tra la risposta a CO2 elevata (E, pari a circa 550 μmol mol-1) e quella a CO2 ambiente (A, 370 μmol mol-1), sono stati analizzati gli effetti della CO2 sull’assimilazione e la produttività primaria, nonché l’influenza dell’azoto e dell’acqua e le differenze di risposta tra i gruppi funzionali.

La risposta dell’ecosistema all’aumento di CO2  

Per analizzare quanto la scala di analisi modifichi la risposta all’aumento di CO2, partiamo dal processo che è alla base della crescita: l’assimilazione. Di fronte ad un aumento di CO2 di circa il 50%, nel breve periodo (minuti-giorni) il rapporto E/A per l’assimilazione delle specie arboree è di circa 1.50 (cioè, l’assimilazione aumenta in modo direttamente proporzionale alla CO2). La prima domanda da porsi è se questa risposta si mantiene anche nel lungo periodo. I risultati dopo 2-7 anni (a seconda del sito FACE esaminato) indicano un rapporto E/A di 1.38 per le specie arboree e di 1.26 per tutte le specie esaminate (range 1 - 1.60). La discrepanza tra dati di breve e di lungo periodo è nella maggior parte dei casi riconducibile ad un’acclimatazione dell’apparato fotosintetico (“down-regulation”, [11]), cioè ad un calo nel tempo delle capacità fotosintetiche massime (Vcmax), quasi sempre associato ad una diminuzione di azoto fogliare. Ma non in tutte le specie, e non in tutte le condizioni, questo fenomeno è risultato significativo. Le specie arboree, ad esempio, mostrano in genere una minore down-regulation di quelle erbacee. Inoltre, il forte legame tra fotosintesi ed azoto fogliare fa sì che l’effetto positivo di elevate CO2 sia enfatizzato dalla fertilizzazione (o, in ambienti naturali, dalle deposizioni azotate) e che la down-regulation risulti evidente soprattutto in condizioni di scarsità di nutrienti - supportando quindi l’ipotesi di Strain & Bazzaz ([14]). Da risultati dei sistemi FACE, invece, non emergono elementi a favore dell’ipotesi che la risposta alla CO2 sia maggiore in ambienti siccitosi ([14]), ed anzi per gli ecosistemi forestali sembra emergere un andamento opposto. Una seconda domanda è se questo aumento di assimilazione, che in parte si mantiene nel lungo periodo, si traduce in un aumento di produttività. Il rapporto E/A per la produttività primaria netta è risultato massimo per gli ecosistemi forestali (1.20) e minimo per le praterie (1.07) con una media di 1.12. È interessante inoltre notare come nel tempo questo rapporto si mantiene circa costante per le foreste mentre tende ad 1 per le praterie, e che nella maggior parte degli ecosistemi l’incremento maggiore si è osservato per la componente ipogea.

Nel complesso, confrontando i risultati delle ricerche degli ultimi 20 anni - da quelle sui semenzali in ambiente controllato, alle open top chambers fino ai sistemi FACE - emerge che gran parte delle prime osservazioni risultano confermate almeno dal punto di vista qualitativo ([7], [9]). Dal punto di vista quantitativo invece, pur con forti variazioni tra specie ed ecosistemi, l’effetto positivo dell’aumento di CO2 sulla crescita tende a ridursi mano a mano che l’analisi si sposta verso scale spaziali e temporali più ampie.

Quale futuro per le ricerche su ecosistemi e cambiamenti climatici? 

I cambiamenti climatici in atto rappresentano modificazioni complesse ed in certi casi difficilmente prevedibili dei principali fattori che regolano i processi biologici. Se l’obiettivo è di prevedere la risposta degli ecosistemi ai cambiamenti in atto, risulta evidente che analizzare l’effetto della CO2 non è sufficiente. Molti studi sono stati o sono attualmente condotti anche su altri fattori, quali la temperatura (si veda la review di [10]) o l’acqua (ad es., il Progetto Europeo MIND, che ha un sito sperimentale anche a Tolfa, VT). Ciascuno di questi studi fornisce informazioni fondamentali per la comprensione del funzionamento degli ecosistemi considerati, ma restano comunque delle informazioni parziali. Da uno dei pochissimi studi multifattoriali - effettuato su ecosistemi di prateria ([13]) - emerge ad esempio che l’interazione tra CO2, temperatura, acqua ed azoto genera effetti difficilmente prevedibili sulla base delle risposte ai singoli fattori. Esperimenti come questi - purtroppo molto costosi e di difficile realizzazione - possono essere molto utili anche per sviluppare e testare modelli capaci di integrare tra loro le conoscenze dei singoli processi emerse dalle ricerche su singoli fattori ([8]).

Nel complesso, dall’analisi della più recente letteratura sull’argomento, sembra possibile affermare che i problemi multifattoriali sollevati dai cambiamenti climatici potranno trovare adeguate risposte solo se affrontati da una combinazione tra ricerca multifattoriale a livello di ecosistema - probabilmente concentrata su pochi grandi esperimenti ([1]) - e analisi modellistica.

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