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Decrease of the ecological functionality of trees due to fungal diseases

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 85-91 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0254-0020085
Published: Mar 10, 2005 - Copyright © 2005 SISEF

Research Articles

Guest Editors: Matera Meeting (2004)
« Climate change and pollution: effects on the southern Italian forests »
Collection/Special Issue: Elena Paoletti

Abstract

The plantations for wood production in agroforestry are the main supply for the wood industries. In the meanwhile, the rapid growth of these woody trees assures a quick carbon sequestration from the atmosphere and plays an important ecological role as well. The most common woody plants used in Italy for agroforestry plantations are poplar in the whole peninsula, eucalyptus in the South and, sporadically, Douglas fir and pines. Coppice chestnut plantations should also be considered for their rapid growth. Plant pathogens are able to decrease both the quality and the quantity of wood production drawing on the productivity and standard quality. In this paper, leaf pathogens able to reduce wood productivity, rot root and wilt agents able to kill trees are considered together with butt rot and cankers agents, these last ones able to reduce the wood quality. Regarding to poplar, Marssonina, Venturia, Melampsora, brown spots and Discosporium populeum are considered. The reported data about the losses of value merchandise and the decreases of carbon dioxide sequestration show how pathogens, reducing the photosynthetic efficiency, can also play an important ecological role. The aim of this paper is to point out the ecological value of plant diseases, besides their typical economical evaluation.

Keywords

Tree, CO2, Global change, Forest pathology

 

La foresta, nella molteplicità delle sue funzioni, è stata da sempre riconosciuta un patrimonio basilare della vita dell’uomo, ma la salvaguardia ed il razionale sfruttamento di questa solo in tempi assai recenti sono entrati a far parte di quella “nuova frontiera” che la società mondiale va cercando nella sfida esistenziale verso il terzo millennio.

Tra le varie funzioni che le vengono richieste, quella rivolta alla produzione legnosa, con il conseguente carattere colturale intensivo, ha un particolare interesse in quanto, se dal punto di vista economico ha indubbia importanza, pur con qualche controindicazione di tipo ecologico e fitosanitario derivante dalla monospecificità o dalla monoclonalità dei popolamenti, dal punto di vista ambientale ha valenza forse insostituibile nell’assicurare un bilancio positivo del rapporto ossigeno/anidride carbonica per il mantenimento entro limiti ragionevoli dell’effetto serra. Questo avviene in virtù sia dell’efficienza di apparati fogliari sempre in espansione connessi alla giovanilità degli impianti, sia dello stoccaggio a lungo termine del carbonio, dapprima all’interno della pianta poi nei manufatti da essa ottenibili.

Proprio tenendo conto di tali aspetti devono essere indirizzate le scelte strategiche future, essendo noto che nell’atmosfera si sta da tempo registrando un trend positivo nell’accumulo del carbonio, la cui crescita annua varia tra 0.9 e 2.8 ppm ([1]), e che un ulteriore aumento di CO2 nell’aria, se non bilanciato da un qualsivoglia stoccaggio, sul quale la massa legnosa prodotta nelle foresta ha un notevole peso, stravolgerebbe la fitogeografia del pianeta rendendone precaria la vivibilità.

Fin dalle soglie degli anni ’90, ed ancor più in seguito alle suggestioni scaturite dalle conferenze di Rio de Janeiro e di Kyoto, è stata posta rinnovata attenzione alle formazioni boschive per la produzione legnosa, le più qualificate sia ad assicurare la funzione di serbatoio attuale e potenziale della CO2, sia a garantire nel contempo tornaconti economici all’imprenditoria del settore senza la necessità di ricorrere all’impiego di capitali sociali.

Per formazioni boschive di tale tipo sono per lo più privilegiate le Salicacee (pioppi e salici) ed Eucalyptus, rispettivamente negli emisferi boreale ed australe, e Pawlonia, Melinia ecc. tra le latifoglie, nonché vari pini (Pinus radiata, P. taeda, P. eliotii, P. maritima, ecc.), Pseudotsuga, Cedrus, e Larix - nelle loro specie più produttive - tra le conifere ([8]).

Per quanto si riferisce alle specie forestali più rappresentate in Italia e alla loro capacità fissativa ([12]), figurano al primo posto tra le latifoglie le fustaie di pioppo, con oltre 3.5 tonnellate di carbonio per ettaro per anno, seguite dai cedui di castagno con circa 3 tonnellate (Fig. 1). Minore importanza hanno le specie a rapida crescita introdotte in tempi più o meno recenti, quali l’eucalipto tra le latifoglie, che negli anni cinquanta aveva fatto registrare un vero boom negli investimenti meridionali ed insulari, e le formazioni di pino strobo, pino insigne e douglasia tra le conifere, che non figurano nei suddetti dati.

Fig. 1 - Contributo allo stoccaggio di CO2 per specie legnosa in Italia (da [12], rielaborato)

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Pertanto con tale ottica, oltre ai popolamenti a rapida crescita per la produzione legnosa, meritano un’attenzione particolare, spesso non pienamente riconosciuta, anche i cedui per biomassa utilizzabili a scopi non combustibili, quali sono soprattutto quelli di castagno.

Sotto l’aspetto ecologico non vanno sottovalutate infine le formazioni di latifoglie “cosiddette” nobili, che negli anni recenti sono andate ad occupare consistenti spazi agricoli sotto la spinta dei premi previsti dai vari regolamenti CEE (in particolare dal Reg. 2080), ma è ragionevole considerarle in posizione secondaria per la loro più ridotta potenzialità fissativa del carbonio e perché favorite prevalentemente da consistenti sovvenzioni pubbliche.

Circa l’importanza rappresentata dalla pioppicoltura italiana, i cui soprassuoli non hanno mai superato il 2-3% della superficie forestale del Paese, basti analizzarne le produzioni totali relative al quarantennio 1955-1994, ricavate dalle rilevazioni ISTAT ([10]), e confrontarle con quelle di tutte le altre specie legnose, a rapido accrescimento e non. Se si calcola grossolanamente nell’ordine di 820 m3 la CO2 equivalente ad ogni metro cubo di legno prodotto (Inventario Forestale Nazionale - vedi [11]) si può contemporaneamente valutare il carbonio accumulato. Se poi si considera quanto di tale accumulo viene stoccato per tempi lunghi negli assortimenti da lavoro e quanto viene invece reimmesso nell’atmosfera a scadenze brevi come legna da ardere, emerge quale sia la valenza ecologica della produzione pioppicola.

Considerandone gli aspetti fitopatologici, va sottolineato che siffatti valori si riferiscono a masse legnose le quali:

  • da un lato sono al netto degli effetti dannosi derivanti dai fattori avversi che ne hanno ridotto la potenzialità produttiva in termini di biomassa,
  • dall’altro non contemplano la distinzione tra i vari assortimenti ottenuti, i quali, dovendo rispondere a precisi standard qualitativi, sono anch’essi condizionati da cause avverse ad azione patogena capaci di incidere sulle caratteristiche del legno e di conseguenza prevalentemente sul valore unitario del prodotto.

Tra i fattori limitanti implicati figurano pertanto agenti biotici ed abiotici caratterizzati da dannosità diversa, non tanto sotto l’aspetto economico quanto sotto quello ecologico relativo al bilancio C/O, a seconda che agiscano sulla sopravvivenza delle piante e sulla loro capacità fotosintetica, con quasi esclusiva riduzione della biomassa, o che incidano pressoché soltanto sulle caratteristiche tecnologiche senza influenzare sensibilmente gli incrementi legnosi. Basti considerare che attacchi di patogeni fogliari possono provocare riduzioni di incrementi i quali, cumulandosi nel tempo, sono in grado di ridurre la produzione del 20-30% senza effetti qualitativi sul legno prodotto, mentre attacchi di agenti di necrosi corticali localizzate e di carie oppure di insetti lignivori, a parità di produzione della pianta, ne abbattono il valore anche del 60% (dati personali). Per taluni di tali patogeni, di cui è esempio tipico Heterobasidion annosum, si possono lamentare perdite di produzione nei casi in cui esso si comporti da agente di marciumi radicali (su pini e douglasia) o riduzioni di valore merceologico nei casi in cui si comporti da agente cariogeno (su abete rosso).

Pertanto in una disamina completa delle malattie che possono infierire sugli impianti industriali per la produzione legnosa, nel breve e medio termine, occorre considerare distintamente l’incidenza di quelle che riducono la capacità produttiva, a cui - come si è detto - è direttamente connesso il minor stoccaggio della CO2, da quelle che ne abbattono il valore commerciale, e che pertanto influiscono negativamente su detto stoccaggio solo parzialmente e/o nei casi di destinazioni orientate ad assortimenti poco durevoli.

Prendendo in esame le superfici delle formazioni delle varie specie legnose a rapido accrescimento, i cui valori sono frutto di informazioni avute prevalentemente dal Centro di Sperimentazione Agricolo e Forestale di Roma, dall’Istituto di Sperimentazione per la Pioppicoltura, dall’Istituto Sperimentale per la Selvicoltura di Arezzo, dall’Istituto per le Piante da Legno e per l’Ambiente di Torino e da alcuni Uffici regionali, pur considerando che esse sono largamente approssimative come lo è la maggior parte delle statistiche forestali, si evince come le latifoglie, rappresentate soprattutto dal pioppo e in minor misura dall’eucalipto ([4]), coprano complessivamente circa 150 000 ettari contro le poche decine di migliaia di ettari delle conifere tutte di introduzione più o meno recente (Tab. 1).

Tab. 1 - Effetti dannosi di patogeni su alcune specie legnose. Sup= superficie in ha; Prod = produzione in m3 ha-1 anno-1; (*): dati ripresi da Bendz-Hellgren & Stenlid ([3]).

Specie Sup. Prod. Patogeni Perdite
Fogliari Corticali Radicali Produzione
(%)
Valore
merceologico
(%)
Pioppo 115 18-25 Marssonina - - 12% -
Melampsora - - 8% -
Venturia - - 1% -
- Discosporium - 3.5% 2%
- Macchie brune - 0.6% 3.5%
- - Rosellinia 1% -
Eucalipto 55 10-20 Cercospora - - 1% -
- - P. cinnamomi 1% -
- - Armillaria 2% -
Castagno 493 9-20 - Cryphonectria - 7% 20%
- - Phytophthora 5% -
Douglasia 15 13-20 Pheocryptopus - - 5% -
Rabdocline - - - -
- - Heterobasidion 3% * 2% *
Pino strobo 2 9-20 - Cronartium - - 1%
- - P. cactorum 3% -
- - Armillaria 2% -
Abete rosso 264 3-8 Chrysomyxa - - 3% -
- - Heterobasidion 1% * 20% *

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Le malattie che si sono dimostrate nel complesso maggiormente incidenti sulla riduzione degli incrementi, e pertanto più dannose in funzione al rapporto ossigeno/anidride carbonica, sono soprattutto fogliari, attribuibili rispettivamente a Marssonina brunnea, Melampsora larici-populina (razze E2 ed E3), Venturia populina per il pioppo e a Phaeocryptopus gaumanni e Rhabdocline pseudotsugae per la douglasia, seguite sia pure a netta distanza da quelle radicali, rispettivamente attribuibili ad Armillaria mellea e Phytophthora cinnamomi per eucalipto, Rosellinia necatrix per il pioppo, Armillaria spp. e Phytophthora cactorum per pino strobo e Heterobasidion annosum per douglasia ed altre conifere ([3]).

Tra quelle che invece influiscono prevalentemente sul valore merceologico dei prodotti legnosi si segnalano le “macchie brune” sul pioppo e, se si considerasse anche il castagno per la sua grande estensione prevalentemente quale ceduo diretto alla produzione di biomassa, i cancri corticali da Cryphonectria parasitica, ivi compreso il suo ceppo ipovirulento.

Per una più completa valutazione dei danni occorre ovviamente non sottacere quelli di origine entomatica, anch’essi con incidenza diversa a seconda che siano indotti da fillofagi o da xilofagi. Per quanto si riferisce al pioppo, malgrado il ripetersi di attacchi di defogliatori, i danni maggiori sono da imputarsi ai lignicoli quali Cryptorrhincus lapathi e Saperda carcharias, i cui danni economici rappresentano oltre l’85% tra quelli causati dagli insetti ma con perdite pressoché esclusivamente merceologiche. Anche per quanto si riferisce all’eucalipto, i danni derivano dallo xilofago Phoracantha semipunctata, che peraltro è spesso associato, con azione predisponente, ai marciumi da Armillaria.

Considerando la già detta elevata potenzialità produttiva del pioppo e la sua massima concentrazione, pari ad 80 000 ha, nella vasta area planiziale del settentrione d’Italia, che conta oltre 4 milioni di ettari ([7]) altamente antropizzata con i suoi circa 16 milioni di abitanti e caratterizzata da sacche di calma atmosferica, dove l’emissione e la stagnazione di anidride carbonica (oltre che degli IFA) esige un consistente riciclaggio ad opera delle attività agroforestali, è opportuno esaminare il ruolo delle malattie e del loro incidere nel corso degli anni sulle perdite della massa legnosa attesa e pertanto sulla mancata fissazione del carbonio (Fig. 2).

Fig. 2 - Perdite della massa legnosa attesa in termini di mancata fissazione del carbonio per le piantagioni di pioppo in Italia.

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Tale disamina “ecologica”, che mette tra l’altro in immediata evidenza la netta, negativa fluttuazione degli impianti pioppicoli per cause non patologiche, registrata nella prima metà degli anni 70 in funzione del mercato, sarebbe quanto mai riduttiva se non si tenesse conto della contrazione delle alberate extraurbane ai bordi delle colture agricole e delle vie di comunicazione verificatasi negli anni ·80. Queste, prima dei generalizzati abbattimenti, nella sola Lombardia contavano oltre 11 milioni di piante e in tutta la pianura settentrionale raggiungevano i 25 milioni, con una asportazione annuale che, in termini di anidride carbonica fissata, corrispondono a circa 820 milioni di metri cubi. Tale contrazione di massa legnosa vegetante fuori bosco ha interessato soprattutto i filari di pioppo e di platano, a fronte di esigenze connesse alla meccanizzazione e alla viabilità e solo in minor misura per deperimento di piante stramature, nonché per cause patologiche dovute a fattori biotici (grafiosi dell’olmo, cancro colorato del platano) o a stress abiotici quali quelli per gli abbassamenti di falda verificatesi nella seconda metà degli anni ’80.

Per quanto si riferisce ai condizionamenti patologici sulle formazioni pioppicole per scopi industriali, la mancata produzione, che fino alla metà degli anni ’60 era contenuta entro limiti accettabili, è andata acuendosi con la comparsa della Marssonina (1963) la quale, a causa di condizioni epidemiologiche favorevoli (clima e sensibilità clonale), ha infierito su tanti dei cloni maggiormente diffusi, riducendosi successivamente per la eliminazione di quelli maggiormente sensibili e per l’attuazione di interventi fitoiatrici diretti.

Con gli anni ’80 un ulteriore aggravamento della situazione fitosanitaria si ebbe in seguito ai già accennati stress idrici dovuti ad abbassamenti di falda, particolarmente deleteri nella pioppicoltura di golena ([5], [6], [2]), che hanno contribuito pesantemente ad esaltare gli attacchi di funghi da debolezza ed i marciumi radicali. In una tale situazione si venne a sovrapporre la recrudescenza della defogliazione primaverile che, a partire dal 1985, si dimostrò aggressiva su tante selezioni utilizzate per la loro resistenza a Marssonina.

A creare un ulteriore stato di crisi produttiva si aggiunse alla fine degli anni ’80 un “tourbillon” di nuove razze di Melampsora (la più devastante delle quali è al momento la razza E3), che hanno potuto aggredire un po’ tutte le popolazioni pioppicole, andando ad esaltare l’azione combinata di Marssonina e Venturia. è così che l’ultimo scorcio di millennio si presenta con produzioni reali, e relativi tornaconti economici, inferiori del 20% rispetto a quelle attese. A tale contrazione produttiva corrispondono equivalenti perdite nella fissazione della CO2, che in valori assoluti sono dell’ordine di 100 milioni di m3 all’anno con tendenza a superare i 150.

Per gli altri 20 000 ettari della pioppicoltura centro-meridionale, le perdite indotte da tali malattie risultano minori, sia per l’esistenza di condizioni epidemiologiche meno favorevoli a Marssonina, Venturia e Melampsora larici-populina, sia per la loro scarsa incidenza sulla mancata produzione delle formazioni pioppicole, generalmente caratterizzate da più limitata potenzialità rispetto a quelle del Nord Italia.

Per quanto concerne le altre specie a rapido accrescimento, nell’ultimo quarantennio gli interessi sono scemati anche in relazione alla loro origine esotica, la quale nel tempo ha messo in luce diversi problemi di adattabilità ambientale: vedi ad esempio la fragilità alle nevicate del pino strobo nelle zone pedemontane in cui tale precipitazione solida è più consistente, oppure gli stress stazionali in cui sono incorsi alcuni popolamenti di pino insigne nel meridione, attribuibili in parte a carenze micorriziche.

Sempre in ragione della sua origine esotica, la contrazione spaziale dell’eucalipto è in parte da mettere in relazione al pressoché indiscriminato ostracismo sostenuto dai gruppi ambientalisti. Eppure per talune aree geografiche siciliane e sarde si sarebbe auspicata maggiore indulgenza, data la sua capacità di coprire di verde lande inospitali per la vegetazione mediterranea.

La generale meno diffusa coltura di douglasia e di pino insigne e la loro concentrazione in nuclei arborei spesso distanti tra di loro fa ottimisticamente prevedere che non si debbano temere manifestazioni epidemiche rispettivamente di Phaeocryptopus gaumanni e Rhabdocline pseudotsugae e di Dothistroma pini.

Solo i marciumi radicali potrebbero avvantaggiarsi degli stress vegetativi per le sempre più scarse cure colturali, che nel caso dell’eucalipto vengono evidenziati anche dagli attacchi di Phoracantha.

L’importanza delle suddette fitopatie impone alcune considerazioni sulla necessità di strategie di difesa efficaci, i cui interventi possono essere a lungo e a breve termine, ricorrendo a pratiche prettamente fitoiatriche quando trattasi di epidemie condizionanti le colture a più alto reddito.

Tra i primi si ricordano quelli che fanno ricorso al miglioramento genetico ed alla attività di selezione. Essi contemplano la resistenza ai patogeni ad alta specificità, come lo sono gli agenti delle malattie fogliari segnalati in precedenza, ed in maniera meno incisiva la tolleranza agli effetti dei parassiti opportunistici che sfruttano eventuali stati di debolezza delle piante.

Il miglioramento genetico, malgrado i numerosi positivi esempi indiscutibili, ha dimostrato, in alcuni esasperati indirizzi verso la resistenza assoluta, la propria aleatorietà offrendosi inerme alla comparsa di genotipi di patogeni sempre più specializzati ed aggressivi. Ne sono esempio preoccupante le Melampsorae del pioppo con il proliferare di varie loro razze ed anche di ibridi interspecifici, nonché, almeno in altri Paesi, Rhabdocline pseudotsugae con le sue sottospecie.

Tra gli interventi fitoiatrici fino ad ora attuati in bosco figurano quelli atti a ridurre gli effetti dannosi dei patogeni fogliari: sul pioppo in Europa (soprattutto contro Marssonina e ultimamente Melampsora), sul pino insigne in Australasia (Dothistroma) e, meno estesamente, sempre sui pini in Europa (Lophodermium). L’attuabilità dipende dalla produttività dell’ospite e dall’efficienza dei trattamenti antiparassitari, in numero limitato nel corso dell’anno (ad es., Marssonina) e/o del turno (ad es., Dothistroma).

Siffatta strategia di lotta contro patogeni radicali e corticali ha posto e pone tuttora vari problemi, specialmente per quanto si riferisce ai momenti di loro maggiore vulnerabilità e alla localizzazione dell’intervento. Merita tuttavia ricordare l’efficienza della lotta contro il cancro corticale del castagno con l’introduzione di ceppi ipovirulenti di C. parasitica. Prospettive incoraggianti si hanno anche in pioppicoltura con proposte di lotta diretta contro Discosporium populeum, essendo stati recentemente appurati i periodi di vulnerabilità del patogeno, per lungo tempo sconosciuti in quanto precedono di circa un anno la comparsa della malattia ([9]).

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