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Mechanical instability in alpine forest stands: causes and possible remediations

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 166-171 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0288-0002
Published: Jun 08, 2005 - Copyright © 2005 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

The mechanical instability of alpine forests is usually related to critical meteorological events, such as heavy snowfalls and strong winds, causing single trees or groups of trees to fall, particularly in even-aged stands. In the present work, the instability of forest stands in the “dolomiti bellunesi” national park (Eastern Alps) is analysed. In this case, falling of trees is caused by “normal” meteorological events and single trees, as opposed to groups, are affected. At risk are especially large beech trees and high Norway spruce trees naturally widespread in beech stands. The main cause for such mechanical instability is soil shallowness, frequent on steep mountain slopes, which does not allow trees to anchor properly. Silvicultural options to reduced such risk and improve stand stability are suggested.

Keywords

Alps, Forest stands, Mechanical instability, Beech, Norway Spruce

Premessa 

Nell’arco alpino sono stati condotti approfonditi studi - quasi esclusivamente sulle conifere e sulle formazioni coetanee essendo queste le specie e le strutture maggiormente rappresentate - cosicché sono noti da tempo gran parte dei meccanismi che stanno alla base dell’instabilità meccanica delle varie tipologie di popolamenti forestali ([10], [11], [12]). È stata indagata nel dettaglio la dinamica del fenomeno, la quale risulta essere strettamente collegata, oltre che alla densità dei soprassuoli ([3], [14], [15]), a eventi meteorici che possono essere definiti “del tutto particolari” o “eccezionali” quali, in sostanza, le nevicate precoci o tardive e la forte ventosità che, in determinate circostanze, si avvicina a vere e proprie trombe d’aria.

I danni conseguenti agli schianti si presentano spesso di proporzioni assai disastrose in quanto viene interessata dall’evento la quasi totalità delle piante che formano il soprassuolo. Gli alberi, in qualunque stadio di sviluppo si trovino, sotto l’effetto di neve e/o vento vanno incontro a sradicamento oppure a stroncamento, lasciando così l’area interessata dal fenomeno - a volte anche molto estesa - totalmente priva di copertura arborea. Quanto appena esposto vale per la quasi totalità dei popolamenti forestali, sia puri che misti, formati in prevalenza da abeti e pini, con presenza o meno di latifoglie.

Il presente lavoro prende in esame una particolare problematica di instabilità meccanica che si riscontra nei popolamenti forestali all’interno del parco nazionale delle dolomiti bellunesi. La realtà del fenomeno analizzato si differenzia sostanzialmente dalla situazione di norma esistente nell’arco alpino in quanto non è legata ad eventi meteorici particolari e/o eccezionali e anche perché va ad interessare singole piante all’interno dei popolamenti forestali.

L’area di studio 

Il parco nazionale delle dolomiti bellunesi si estende su di un territorio di oltre 31000 ha, ad orografia assai impervia, con quote variabili fra i 400 e i 2.500 m. I complessi boscati esistenti rappresentano le varie tipologie forestali che sono comprese dal piano basale prealpino al limite superiore della vegetazione arborea ([2]). La sequenza delle fasce altitudinali, seguendo lo schema del Pignatti ([13]), è di non facile definizione a causa della complessa orografia e delle condizioni microclimatiche che influenzano notevolmente la copertura vegetale. Di particolare interesse sono: a) la fascia medioeuropea, dal fondovalle sino ai 1.000 (1.200) metri di quota sui versanti a Sud e sino ai 700 (800) metri di quota sui versanti più freschi, caratterizzata da ambienti spesso fortemente trasformati dall’uomo e dalla presenza di boschi di latifoglie, per lo più carpineti e orno-ostrieti, più raramente acero-frassineti, e b) la fascia subatlantica, dai 600-700 sino ai 1.600 (1.700) metri di quota, caratterizzata da ampie formazioni forestali a netta prevalenza di faggio, in purezza o talvolta misto a conifere. Nel complesso le faggete ricoprono una superficie di poco superiore ai 4.700 ettari, rappresentando così circa un terzo delle formazioni boschive presenti all’interno dell’area protetta (Fig. 1).

Fig. 1 - Ingresso dell’abete rosso nella faggeta (foto Archivio C.F.S., CTA - PNDB)

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Il substrato geologico principale è costituito da rocce di origine sedimentaria, in particolare dalle dolomie triassiche. Sui versanti in forte pendenza si sono sviluppati suoli abbastanza primitivi e di scarsa profondità, ricchi di scheletro e spesso con roccia affiorante, soggetti a ruscellamento e a forti oscillazioni di contenuto idrico ([1]). Le caratteristiche dei suoli sono state condizionate negativamente, nel corso dei secoli, dall’intenso sfruttamento a ceduo delle formazioni forestali, che ha aperto spesso la strada a fenomeni erosivi ([17]). All’impoverimento dei suoli hanno anche contribuito i ricorrenti incendi, spesso di catastrofiche proporzioni, di cui si ha notizia già in epoca antecedente alla dominazione veneziana ([16]).

I popolamenti forestali nel passato 

In epoca passata, gran parte dei popolamenti di faggio facenti parte del parco nazionale delle dolomiti bellunesi sono stati sottoposti a una forte pressione antropica ([4]). Notizie del disboscamento delle pendici di molte montagne, nelle parti più basse, si hanno già a partire dall’epoca medioevale, ma lo sfruttamento sistematico dei boschi iniziò sotto il dominio della Repubblica di Venezia. Nel ’700, l’aumento demografico e la forte richiesta di legna da ardere e di carbone per uso industriale comportarono il disboscamento anche di molte delle pendici più elevate ([16]). Lo sfruttamento a ceduo dei popolamenti di faggio è proseguito anche durante il diciannovesimo secolo, come testimoniato dalle numerose aie carbonili, tuttora visibili all’interno dei complessi boscati ([17]). Negli ultimi decenni, in tutta l’area, in un primo momento per l’allungamento dei turni e in seguito per l’abbandono delle zone montane dovuto a ragioni economico-sociali, i tagli sono stati fortemente ridotti sino, in molti casi, a cessare totalmente. Nel corso degli anni, pertanto, soprassuoli boschivi che si presentavano notevolmente degradati e fortemente impoveriti, hanno ripreso vigore aumentando la loro massa legnosa e il bosco ha iniziato lentamente a rimarginare le ferite causate dall’intenso sfruttamento del passato. Da qualche anno, su estese superfici, sono iniziati interventi di conversione all’altofusto dei soprassuoli di faggio ([17]), con la conseguenza di un aumento considerevole delle dimensioni diametriche delle piante (Fig. 2).

Fig. 2 - Particolare di ceppaia di faggio (Fagus sylvatica L.) sradicata: da notare la scarsa profondità del terreno che non consente un saldo ancoraggio a piante di elevate dimensioni (foto Archivio C.F.S., CTA - PNDB)

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I problemi d’instabilità meccanica 

In relazione a questa problematica, si possono descrivere due situazioni ben distinte che rappresentano, pur con le ovvie forme di transizione, delle “situazioni tipo”. La prima situazione si riconduce a quanto avviene all’interno di formazioni pure di faggio, che un tempo erano governate a ceduo. Con una certa frequenza, anche se con incidenza variabile da caso a caso, singole piante cadono a terra sotto la spinta del vento o sotto il peso della neve; da osservazioni dirette risulta che si tratta quasi sempre delle piante di maggiori dimensioni, senza peraltro che si osservi una soglia diametrica critica. Le piante cadono al suolo, prevalentemente nei mesi estivi, in concomitanza di giornate ventose e soprattutto dopo eventi piovosi, che hanno il duplice effetto di appesantire la chioma e di rendere meno tenace il terreno. Nei mesi autunnali gli schianti si manifestano invece con minore intensità e sono causati dalle prime nevicate della stagione, che trovano il faggio con la chioma ancora vestita. La seconda situazione è riconducibile alla presenza di abete rosso all’interno della faggeta, conseguenza di una diffusione naturale della conifera. In questo caso le piante di abete rosso che subiscono danni sono quelle la cui altezza supera di qualche metro il piano di chioma della faggeta ed è il vento a causarne lo sradicamento, facilitato in questo dalla superficialità dell’apparato radicale della conifera ([5]). Si è constatato che le piante di abete rosso cadono al suolo soprattutto nei mesi invernali e all’inizio della primavera, quando la faggeta è completamente priva di foglie e l’azione del vento trova minori ostacoli. Anche in questo caso l’entità del fenomeno varia notevolmente, da casi in cui si osservano decine di piante atterrate per ettaro a casi in cui il fenomeno riguarda poche piante (Fig. 3).

Fig. 3 - Pianta di abete rosso sradicata in faggeta (Foto Archivio C.F.S., CTA - PNDB).

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Le cause dell’instabilità meccanica 

In passato, quando la faggeta era governata a ceduo, non sussistevano problemi di instabilità meccanica. I polloni raggiungevano un’altezza modesta e le ceppaie dovevano supportare una massa dendrometrica molto inferiore a quella di piante che possono superare i 50 cm di diametro e l’altezza di decine di metri. L’apparato radicale della ceppaia poteva quindi garantire, a differenza di quanto si verifica ora, un solido ancoraggio al terreno.

Per quanto riguarda l’abete rosso, la sua presenza all’interno dei popolamenti di faggio era molto esigua, sia per la forte concorrenza dei polloni di faggio (anche oggi l’abete rosso risulta più frequente nelle stazioni più povere, dove la faggeta è rada), sia perché veniva eliminata dall’uomo, in quanto specie meno adatta a fornire legna da ardere e carbone.

L’instabilità meccanica pare quindi collegata alle maggiori dimensioni raggiunte dalle piante che, soprattutto su suoli poco profondi, ricchi di scheletro e in forte pendenza, non vengono ad essere ancorate efficacemente al suolo. Peraltro, le diversità nel grado di invecchiamento del soprassuolo, nella fertilità stazionale e nelle modalità gestionali determinano una diversa incidenza del fenomeno da zona a zona (Fig. 4).

Fig. 4 - Anche il larice, che possiede un apparato radicale profondo, è interessato da problemi di instabilità a causa della scarsa profondità del suolo. (Foto Archivio C.F.S., CTA - PNDB)

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Possibili rimedi 

Gli interventi selvicolturali proposti per ridurre si discostano sostanzialmente da quelli previsti di norma nei complessi boscati dell’arco alpino dove, in casi di instabilità meccanica, si interviene mirando essenzialmente a regolare la densità del soprassuolo con l’esecuzione di opportuni tagli intercalari, per ridurre il valore del coefficiente di forma delle piante così da renderle più resistenti alle sollecitazioni meccaniche operate dal peso della neve e dalla spinta del vento ([10], [6], [14], [11], [7], [12]).

Nella situazione illustrata nel presente lavoro, gli interventi selvicolturali da attuare riguardano una pluralità di operazioni che vanno ad interessare da un lato il soprassuolo e dall’altro il terreno. Certamente non si può pensare, sia a causa delle disposizioni normative sia a causa di controindicazioni sul piano economico, a un generale ritorno del governo a ceduo. Laddove invece non sia stata ancora effettuato l’avviamento all’alto fusto, certamente pare opportuno, soprattutto nelle condizioni ambientali (suoli poco profondi, erosi e degradati dalle ripetute ceduazioni) che rendono elevato il rischio di instabilità meccanica, il temporaneo mantenimento del ceduo. È questa un’ipotesi che, all’interno del parco delle dolomiti bellunesi, sta riscuotendo l’attenzione dei tecnici forestali (Andrich 2005). Sicuramente pare invece opportuno, nei popolamenti avviati all’alto fusto, effettuare adeguati interventi selvicolturali sul piano dominante, per evitare che vengano superate quelle soglie dimensionali che acuiscono il rischio di instabilità, promuovendo per tempo i processi di rinnovazione naturale. Così come andranno prelevati per tempo, nelle situazioni ambientali a rischio (suoli sottili), gli individui di abete rosso che sono esposti a rischi di sradicamento a causa delle grandi dimensioni raggiunte. Si propongono quindi modalità di utilizzazione che mirino, indipendentemente dalle condizioni di raggiunta maturità o meno del popolamento, ad eliminare il soprassuolo divenuto instabile ed a garantire al meglio le condizioni favorevoli per l’affermazione della rinnovazione naturale.

Si dovrà inoltre cercare inoltre di agire sulla fertilità stazionale e la profondità del suolo, che in ogni caso rappresentano il fattore critico (per esperienza diretta, in situazioni dove il terreno è profondo, povero di scheletro e roccia affiorante, anche piante di elevate dimensioni non evidenziano problemi di stabilità). Nel concreto, il processo di miglioramento della fertilità stazionale può essere promosso, su tempi medio-lunghi, mediante il rilascio di legno morto, anche di notevoli dimensioni, e il conseguente accumulo di necromassa ([19], [8], [9], [18]).

Ringraziamenti 

Un ringraziamento particolare al Dottor Daniel Whitemore per il contributo gentilmente offerto per la stesura del riassunto in lingua inglese ed al Dottor Franco Mason per gli interessanti scambi di notizie sul ruolo della necromassa legnosa nei popolamenti forestali.

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