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Ageing and senescence in trees: new evidences and new questions

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 316-318 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0327-0002
Published: Dec 19, 2005 - Copyright © 2005 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

Hypotheses and mechanisms related to the age- (or size-) related decline in forest trees are briefly outlined, with reference to recent experimental evidence. It is suggested that a possible interpretation of size-related patterns could rely on the concept of ’optimal structural adjustment’.

Keywords

Tree ageing, Senescence, Hydraulic limitation, Height increment

 

Quali sono i benefici ed i costi per un albero all’aumentare delle dimensioni? Perché gli alberi muoiono? A queste domande non è ancora possibile dare risposte certe ([11]). Molte ricerche sono state condotte a riguardo: alcune hanno approfondito le relazioni tra età/dimensione e aumento di biomassa a scala di popolamento, altre invece a scala di singolo individuo. Ritengo importante tenere ben separate le due scale di analisi perché i processi coinvolti sono diversi: ad esempio, a scala di popolamento è necessario tenere in considerazione la competizione per le risorse, la dinamica di selezione tra gli alberi e la differenziazione in posizione sociale.

Voglio limitare le considerazioni solo a quello che può avvenire a livello di singolo individuo. Dal momento che ogni albero può raggiungere una data altezza massima (che è specie e sito dipendente), ci deve essere una ragione che determina una riduzione dell’incremento in altezza e quindi una stabilizzazione dell’incremento corrente di massa cormometrica nelle piante molto grandi (o molto vecchie). Bond ([2]) riporta che nelle piante vecchie rispetto a quelle giovani si osserva di frequente una diminuzione dell’assimilazione netta, e quindi della capacità della piante di produrre sostanza organica. Più recentemente Koch et al. ([6]), osservando ciò che avviene sulle piante più alte del pianeta (delle sequoie di quasi 113 m), hanno dimostrato che le foglie delle parti più alte della chioma rispetto a quelle poste in basso hanno assimilazione minore e minore discriminazione del carbonio “pesante”. Gli autori ritengono che queste due risposte siano essenzialmente da collegare alla difficoltà della pianta nel trasportare l’acqua contro il gradiente gravitazionale fino alla cima dell’albero; in altre parole l’efficienza complessiva del sistema di trasporto dovrebbe avere un ruolo primario nel determinare la massima dimensione dei singoli individui.

Peraltro, bisogna anche considerare che gli individui più alti sono di norma anche quelli più vecchi per cui potrebbe essere lecito chiedersi se i bassi tassi di assimilazione delle piante grandi siano in qualche modo collegati a processi di “senescenza” meristematica (ossia dipendenti intrinsecamente all’età dell’individuo) oppure siano determinati da fattori estrinseci (come ad esempio una limitazione idraulica dipendente solo dalla dimensione dell’individuo).

A questa semplice, ma importante domanda, hanno voluto rispondere Mencuccini et al. ([10]). Su un campione di 4 specie legnose (frassino maggiore, acero montano, pino silvestre e un clone di pioppo) hanno raccolto dei rametti nella parte alta della chioma da individui di età diversa (da un minimo di 1-39 anni ad un massimo di 32-269 a seconda della specie) e li hanno innestati su piccole piante radicate della stessa specie. In questo modo hanno potuto valutare le risposte (accrescimento relativo, assimilazione netta, conduttanza stomatica e altro) dei rami di piante “vecchie” ma, adesso, di piccole dimensioni rispetto agli omologhi rametti rimasti, invece, sulle piante madri. Sottolineo che questo modo di procedere può indagare solo sugli effetti fisiologici che si osservano a scala di singolo individuo.

I risultati sono chiari: tutti i rametti di piante “vecchie” innestati dimostrano accrescimenti molto superiori rispetto ai corrispondenti sulle piante madri. Non vi sono effetti legati all’età della pianta madre in nessuno dei parametri fisiologici dei rametti innestati in nessuna specie, ossia l’età della pianta madre non determina variazioni sulla performance di rametti che vengono da questa prelevati e fatti vegetare indipendentemente. In sostanza, sembra plausibile rifiutare l’ipotesi della senescenza meristematica nelle piante anche se, come gli autori sottolineano alla fine dell’abstract, alberi di età maggiore rispetto a quelli campionati potrebbero dimostrare sintomi di senescenza. Per cercare risolvere anche questo dubbio posto degli autori è possibile discutere quanto viene riportato in lavori sul medesimo argomento. In particolare, non possono essere dimenticati i lavori di Connor & Lanner ([3]) e Lanner & Connor ([9]) che hanno cercato di valutare possibili sintomi di senescenza nelle piante più vecchie del pianeta ossia in esemplari di Pinus longaeva di 4713 anni (!) rispetto a piante “giovani” della stessa specie (di circa 200 anni). Sono stati analizzati molti parametri che in genere si associano alla senescenza come vitalità pollinica, germinabilità dei semi, peso dei semi e anche altri come struttura dello xilema e del floema, lunghezza dei getti annuali. In nessuno di questi parametri si sono potute osservare delle variazioni determinate dall’età degli individui. Lanner & Connor ([9]) concludono, quindi, che il concetto di senescenza dei meristemi apicali o cambiali non si può applicare nel caso della specie indagata perché nessun tipo di degenerazione funzionale è stata osservata.

In sostanza, se possiamo ritenere le osservazioni su Pinus longaeva generalizzabili e in linea con quanto osservato da Mencuccini et al. ([10]) potremmo rispondere alla domanda iniziale (perché gli alberi muoiono) con la segente risposta: “Probabilmente non muoiono perchè sono vecchi!”.

I lavori sul Pinus longaeva sono estremamente importanti anche perché si contrappongono idealmente a quelle osservazioni di “breve periodo” del forestale-selvicoltore (1-2 secoli) che hanno fatto evolvere il concetto di age “related decline (o, invece, size-related decline come suggerito da [10]) sposato da Bond ([2]) e da molti altri. Questo approccio sostanzialmente sostiene che gli alberi, dopo alcuni decenni di vita, cadano irrimediabilmente in uno status di stress progressivo (ossia sempre più grave) che ha degli effetti deleteri sul tasso di assimilazione, quindi sulla produttività ed in ultima analisi sulla sopravvivenza dell’individuo.

Non sembrano essere compatibili con questa ipotesi né le osservazioni di Connor & Lanner ([3]) né i recenti lavori di Körner ([7]) e Körner et al. ([8]) che riportano come l’assimilazione per se non sembra essere fattore limitante la crescita degli alberi adulti dato che nessun effetto si riscontra sull’accrescimento in condizioni di alta CO2. Un’ipotesi che, invece, mi pare compatibile con i sopracitati dati sperimentali potrebbe essere delineata in base ad alcune delle conseguenze che derivano dal modello di West et al. ([13]), verificato empiricamente da Anfodillo et al. ([1]), e da alcuni lavori collegati ([4], [5]). Al concetto di size - related decline (ossia stress progressivo in funzione della dimensione) verrebbe sostituito un concetto che potrei definire di optimal adjustment ossia di permanenza in uno status fisiologico ottimale durante la crescita che viene realizzato con modificazioni strutturali del sistema di conduzione (rastremazione degli elementi di conduzione) atte a mantenere una conduttanza specifica fogliare praticamente costante. Gli alberi, man mano che aumentano le proprie dimensioni, manterrebbero una struttura di trasporto dell’acqua sempre ottimale (quando sono in fase giovanile di crescita molto attiva) o al limite dell’ottimalità (quando hanno raggiunto l’altezza massima). In questo stato limite, che in natura è oscillante a seconda delle condizioni d’ambiente (concetto analogo a quello della numerosità di una popolazione animale arrivata alla capacità portante), la conduttanza specifica fogliare potrebbe anche diminuire leggermente (e così la fotosintesi) in accordo a quanto osservato in piante alte ([6]) rispetto a quelle piccole ([12]). Una volta raggiunta la loro dimensione massima gli alberi potrebbero mantenere questo status sub-ottimale virtualmente per un tempo infinito (come ci potrebbe suggerire il Pinus longaeva) senza, quindi, essere soggetti ad un progressivo declino. Similmente, le piante arrivate alla loro altezza massima (al limite dell’ottimizzazione del sistema di trasporto) non hanno alcun beneficio se “fertilizzate” in CO2 dato che non è la mancanza di carbonio che limita l’optimal adjustment. Questo induce a domandarsi cosa conduca la pianta al limite nella possibilità di mantenere un sistema di trasporto ottimizzato (ossia cosa determini l’altezza massima degli individui). Evidentemente, ci sono altre domande a cui dobbiamo ancora rispondere.

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