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Planting trees in Italy for the health of the planet. Where, how and why

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 16, Pages 59-65 (2019)
doi: https://doi.org/10.3832/efor3260-016
Published: Oct 10, 2019 - Copyright © 2019 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

The Laudato Si’ communities have put forward the proposal to plant 60 million trees in Italy to fight the climate crisis. The role of forests in mitigating climate change is scientifically unequivocal. However, a sound reforestation strategy must be consistent with the country’s environmental, forest and socio-economic context. Italian forests and the 12 billion trees they contain currently absorb 5-10% of the total country emissions; 60 million trees would result in an additional sequestration of 0.05% of the CO2 emitted annually. Furthermore, forested areas in Italy are rapidly increasing on rural and marginal sites. On the contrary, forests are disappearing in lowlands and urban centers. Cities and suburbs are the areas where new forests could play an important role in climate mitigation, contributing to the mitigation of heat waves and air pollution, and increasing the well-being of citizens. To be successful, interventions to mitigate the climate crisis cannot be exhausted within the forest sector. Forestry-related strategies must be diversified, and include reducing deforestation, planting new forests, increasing the efficacy of sustainable and adaptive forest management, and taking advantage of the substitution effects played by wood-based materials. New urban forests, if subject to scientifically based design and planning, are an important part of this strategy.

Keywords

Climate Change Mitigation, Reforestation, Urban Forests, Sustainable and Adaptive Forest Strategies

 

Lo scorso 12 settembre le Comunità Laudato Si’[1] hanno avanzato la proposta di piantare in Italia 60 milioni di alberi, circa uno per ogni abitante, per contrastare la crisi climatica.

L’idea ha trovato un entusiastico consenso nella società civile ed una condivisione, con qualche spunto di riflessione e proposta, anche da parte dei portatori di interesse del settore forestale[2].

È evidente che il lancio di questa iniziativa, come di altre simili, nasce dalla volontà di “fare qualcosa”, di contribuire in un modo possibile e fattivo alla crisi climatica. Il “piantare” un albero diventa quindi il segno, altamente simbolico, di una forte spinta emotiva. L’idea si ricollega ad iniziative simili che hanno avuto molto spazio nei media in questi ultimi mesi, come quelle promosse in Africa sub-sahariana[3], in Cina[4] o in Irlanda[5] e, assai recentemente con una grande iniziativa popolare, in Etiopia[6]. Ma al di là delle comunque importantissime motivazioni di principio, simboliche o emotive, quale può essere la reale efficacia (cioè la capacità di contrastare il cambiamento climatico) di un progetto di questo tipo in un paese come l’Italia?

Foreste, legno e crisi climatica: uno sguardo alla situazione globale 

Il fondamentale ruolo delle foreste nel mitigare e contrastare la crisi climatica è scientificamente inequivocabile ([9]). Secondo gli scenari elaborati dall’IPCC, per limitare il riscaldamento globale a +1.5 °C le emissioni di anidride carbonica dovranno azzerarsi tra il 2050 e il 2060. Da lì in avanti saranno necessarie “emissioni negative”, cioè il riassorbimento di una parte della CO2 precedentemente immessa in atmosfera ([20]). L’unica tecnologia al momento operativa per effettuare questo riassorbimento di CO2 è la fotosintesi. La massima efficacia di processo per mettere in atto la fotosintesi appartiene attualmente alle piante, ad alberi e foreste in particolare: le foglie artificiali sono, ad oggi, in fase sperimentale nonostante la promessa di una efficienza di processo 14 volte superiore alle foglie naturali[7]. A livello globale il comparto foreste (Forestry and Other Land use - FOLU - o Land Use, Land-Use Change, and Forestry - LULCF) assorbe circa 2.4 Pg di carbonio ogni anno, pari al 24% delle emissioni complessive da combustibili fossili ([28] - Fig. 1). Tuttavia, sempre nel settore forestale, le emissioni provocate da deforestazione (trasformazione delle foreste in un altro tipo di uso del suolo, prevalentemente agricolo), degrado delle foreste (utilizzo improprio delle foreste che provoca la perdita di capacità di erogare i servizi ecosistemici richiesti), incendi forestali e altri disturbi, provocano collettivamente circa il 10% di tutte le emissioni di carbonio in atmosfera ([15]). Se consideriamo solo le emissioni lorde (emissioni provocate dall’uomo, prevalentemente dalla deforestazione nelle aree tropicali senza tenere conto del carbonio accumulato in altri biomi forestali) questa quota sale al 30% ([34]).

Fig. 1 - Componenti del budget globale del carbonio in funzione del tempo (modificato da [15]). Per i dettagli su metodologia, quantificazione dell’incertezza e riferimenti bibliografici si rimanda alla pubblicazione citata.

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La situazione a livello planetario tuttavia non è omogenea: da un lato le foreste tropicali ed equatoriali sono sottoposte ad una forte pressione antropica con deforestazione e degrado, dall’altro lato le foreste temperate e boreali aumentano di superficie e di biomassa. Questo aumento però non riesce a compensare le perdite che si osservano alle latitudini più basse ed il bilancio è quindi complessivamente negativo. Secondo il Global Forest Resources Assessment della FAO la copertura forestale del nostro pianeta è passata dal 31.6% del 1990 al 30.6% del 2015 con un tasso di deforestazione medio annuo di circa 5 milioni di ha ([8]), cioè una superficie pari al Piemonte e alla Lombardia insieme (Fig. 2). Il 60% della deforestazione è dovuto all’espansione dell’uso agricolo e pastorale del territorio (di natura diversa a seconda delle situazioni: monocolture di soia per l’alimentazione animale in America Latina, uso del sistema slash-and-burn in Africa, America Latina e Sud-Est Asiatico, mega-colture di palma da olio e albero della gomma in Indonesia), mentre la parte restante è dovuta all’uso insostenibile di combustibili derivati dal legno soprattutto nelle foreste tropicali xeriche (che comprende la bassissima efficienza di trasformazione del potere calorifico dato da stufe e bracieri tecnologicamente rudimentali), urbanizzazione o estrazione mineraria che gioca un ruolo limitato su scala globale ma potenzialmente molto intenso a scala locale, come da tempo è stato verificato e proposto, senza esito, all’attenzione di media e opinione pubblica ([3]). Il nostro paese peraltro non è esente dall’importazione netta di prodotti direttamente o indirettamente collegabili ai processi di deforestazione, attraverso una serie di comparti, più o meno conosciuti e trasparenti: soia, carne e pellami, olio di palma, legname di pregio e per bioenergia ([36]).

Fig. 2 - (a) Variazione netta di superficie forestale per bioma, 1990-2015; (b) variazione netta annua di superficie forestale per Stato, 1990-2015 ([8])

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A fronte di questi dati ha suscitato un vivace dibattito nella comunità scientifica il lavoro recentemente pubblicato dal gruppo di ricerca coordinato da Tom Crowther del Politecnico di Zurigo ([2]). Questo lavoro, partendo dal presupposto che non solo occorre arrestare la deforestazione ma che sarà necessario aumentare la copertura arborea del pianeta per assorbire il carbonio in eccesso dall’atmosfera, ha stimato che nel mondo esistano 900 milioni di ettari, attualmente non coltivati né abitati, che potrebbero potenzialmente ospitare nuove foreste (un aumento del 25% rispetto alla superficie terrestre attualmente coperta da alberi). Durante la loro crescita, cioè nell’arco di diverse decine di anni, queste foreste potrebbero assorbire 730 miliardi di tonnellate di CO2 cioè un terzo di quanto emesso dall’uomo fino a oggi. Questo studio è stato criticato per diverse ragioni: (a) il valore di CO2 assorbita non tiene conto degli effetti climatici indiretti, come la riduzione dell’albedo alle alte latitudini ([25]), o le ricadute negative del cambiamento climatico sullo stato di salute e la sopravvivenza delle foreste stesse; (b) anche se non è auspicabile, i terreni non ancora coltivati potrebbero doverlo diventare in futuro, per soddisfare la domanda di una popolazione mondiale in continua crescita (la FAO ha da tempo individuato un potenziale di 90 milioni di ettari nell’Africa Sub-sahariana, non esente dal fenomeno di accaparramento delle terre o Land Grabbing); (c) questa strategia richiederebbe decenni per dare i suoi frutti, un tempo in cui dovremmo continuare a ridurre le emissioni per non accumulare un “debito di carbonio” impossibile da smaltire; (d) non vengono considerati gli impatti e dunque il trade-off con la conservazione della biodiversità di ecosistemi naturali e seminaturali aperti che verrebbero fortemente modificati. Quindi il potenziale di mitigazione che si potrebbe ottenere da impianto di nuove foreste deve essere valutato con attenzione ed ha un impatto molto diverso secondo la regione, le attività e l’orizzonte temporale che scegliamo come riferimento ([10]). Occorre aggiungere che, per quanto riguarda il settore foreste, sono già operativi programmi di lotta alla deforestazione e al degrado degli ecosistemi forestali (come il programma REDD+) e esistono raccomandazioni per la gestione forestale sostenibile compatibile con la mitigazione climatica (climate smart-forestry - [37]). Secondo l’IPCC, a breve termine, la riduzione della deforestazione nelle zone tropicali produce effetti di mitigazione e contrasto alla crisi climatica molto più efficaci rispetto all’impianto di nuove foreste ([26]).

Per completare un’analisi globale dobbiamo infine tenere conto del grande serbatoio rappresentato dai suoli forestali in sistemi naturali o artificiali evoluti e maturi, e anche dell’altro modo in cui le foreste contribuiscono a assorbire CO2, producendo il più sicuro “magazzino” di carbonio che abbiamo attualmente a disposizione: il legno. Secondo Johan Rockström, Direttore del PIK (Postdam Institute for Climate Impact Reserch), il legno “è l’unico vero dissipatore biologico di carbonio che abbiamo, in quanto tutte le forme di piantagione di alberi sono un pozzo di carbonio molto insicuro, poiché possiamo perdere improvvisamente tutto il carbonio immagazzinato con gli incendi boschivi e le pullulazioni di insetti. Ma se si investe nello sviluppo della tecnologia per costruzioni a base di legno, è possibile “sequestrare il carbonio per i prossimi 100 anni in ogni edificio”[8]. Secondo Rockström, per raggiungere l’obiettivo zero emissioni entro il 2050, a partire dall’anno 2030 dovremo costruire tutti gli edifici con materiali carbon-neutral (o con impatto negativo). Dovremo quindi produrre cemento e acciaio con processi climaticamente neutri, o utilizzare materiali di sostituzione come il legno, i residui vegetali e la pietra ([29]). Una recente raccolta di 51 studi scientifici ha dimostrato che in tutti i settori il fattori di sostituzione del legno (grammi di emissioni di CO2 evitate per grammo di legno utilizzato in sostituzione di altri materiali) è in media di 1.2 kgC/kgC (Tab. 1 - [16]).

Tab. 1 - Coefficienti di sostituzione medi (kgC/kgC) per categoria merceologica (da [16]).

Categoria merceologica Coefficiente medio
di sostituzione
(kgC / kgC di
prodotto legnoso)
Edilizia strutturale 1.3
Edilizia non strutturali (infissi, serramenti, tetti e pavimenti, ingegneria civile) 1.6
Tessuti 2.8
Altri (prodotti chimici, arredamento, imballaggi) 1-1.5
Media 1.2

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Foreste, legno e crisi climatica: uno sguardo alla situazione italiana 

Le foreste italiane e i 12 miliardi di alberi che contengono assorbono attualmente circa il 10% delle emissioni complessive generate nel Paese ([30] - Tab. 2). Ipotizzando un tasso di sequestro di carbonio per le nuove foreste comparabile a quello massimo conseguito nel periodo 1990-2015 dalle foreste esistenti (39 milioni di tCO2), 60 milioni di alberi risulterebbero in un assorbimento aggiuntivo di circa 200.000 tCO2, vale a dire circa lo 0.5‰ delle emissioni attuali. Al tempo stesso, l’Italia presenta, almeno per quanto riguarda la copertura forestale, una situazione in controtendenza rispetto al trend globale. In Italia la copertura forestale è in aumento da diversi decenni. Dopo aver raggiunto un minimo storico tra il XIX e il XX secolo (12% circa di coefficiente di boscosità) è andata gradualmente aumentando fino a raggiungere quasi il 40% della superficie ([18]). Dal 1990 a oggi i boschi hanno guadagnato oltre un milione di ettari (la superficie della Basilicata), in media 800 m2 di nuove foreste al minuto, con un contemporaneo miglioramento strutturale dei boschi esistenti, che hanno visto incrementare la loro densità e la loro biomassa ([19] - Fig. 3).

Tab. 2 - Emissioni e assorbimenti di gas serra (Gg CO2 eq) in Italia (da [30]).

Categoria 1990 1995 2000 2005 2010 2015 2016 2017
Energia 452 233 439 358 459 095 479 675 418 615 352 832 350 284 345 852
Industria 40 472 38 368 39 178 47 152 36 748 32 576 32 556 32 827
Agricoltura 34 739 34 701 33 946 31 893 30 012 30 065 31 000 30 780
Rifiuti 17 302 19 993 21 887 21 880 20 399 18 571 18 278 18 249
Totale (senza LULUCF) 517 746 532 419 554 106 580 600 505 773 434 044 432 119 427 708
Totale (con LULUCF) 514 462 510 500 537 877 552 223 471 099 394 436 395 561 409 329
% sequestro LULUCF 0.6% 4.1% 2.9% 4.9% 6.9% 9.1% 8.5% 4.3%

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Fig. 3 - Superfici forestali stimate dai tre inventari forestali nazionali in Italia (1985, 2005 e 2015). L’incremento annuo della superficie totale (bosco e altre terre boscate) è pari allo 0.3% e allo 0.2% rispettivamente nei periodi 1985-2005 e 2005-2015. L’incremento annuo della superficie “bosco” è stato 77.906 nel periodo 1985-2005 e 52.856 ettari nel periodo 2005-2015 ([22]).

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Se analizziamo il consumo di legno vediamo però nella situazione italiana una grande contraddizione: infatti l’espansione delle foreste è avvenuta contemporaneamente ad una riduzione dell’utilizzo della risorsa rinnovabile legnosa, con una graduale ma costante diminuzione dei prelievi (Fig. 4). È ormai risaputo che, pur tenendo presente l’ampio margine di incertezza che caratterizza le informazioni disponibili sui prelievi nei boschi italiani, attualmente nel nostro paese si utilizza circa un quarto dell’incremento annuo: su oltre 4 metri cubi di legname ad ettaro che si accumulano ogni anno in foresta per i processi di accrescimento, solo uno viene utilizzato per la produzione di diversi assortimenti legnosi (ma soprattutto per legna da ardere - [22]). Il tasso di prelievo nelle foreste italiane è il più basso dell’Europa continentale (e il più basso in assoluto in Europa dopo Cipro), dove la media è superiore al 50% ([5]).

Fig. 4 - Serie storica dei prelievi di legna da ardere e legno da industria (migliaia di m3) nel periodo 1999-2015 ([22]).

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Dobbiamo tenere conto del fatto che il settore foreste-legno ([22]) ha in Italia un ruolo molto importante dal punto di vista economico e sociale pesando per quasi il 4% del PIL e alimentando circa 300-400.000 posti di lavoro (variabili a seconda di come si calcola l’indotto). Questo settore è uno di quelli che in negli ultimi anni ha visto aumentare le proprie quote di mercato e di esportazione, ma è alimentato per l’80% da legname di importazione. La maggior parte di queste importazioni avvengono da foreste gestite in modo sostenibile ma, ancora oggi, si stima che almeno il 20% del legno che entra in Italia sia di origine illegale (provenienza non tracciata), cioè ottenuto determinando probabile degrado degli ecosistemi di provenienza ([11]). Un’altra conseguenza negativa è legata all’emissione di CO2 a causa del trasporto del materiale su lunga distanza. Se a queste considerazioni che riguardano il settore legno aggiungiamo anche le importazioni di prodotti a rischio di deforestazione nel settore agro-alimentare, si deve dire che il nostro paese complessivamente contribuisce in modo significativo alla deforestazione del nostro pianeta. Stime preliminari assegnano all’Italia un’impronta di deforestazione di 36.000 ettari l’anno (pari alla superficie della provincia di Prato) solo per l’importazione di soia, carne e olio di palma ([14]).

Se però analizziamo la situazione italiana più dettagliatamente vediamo che, come abbiamo visto per il pianeta, anche in Italia l’espansione della foresta non è avvenuta in modo uniforme su tutto il territorio ma si è concentrata nelle zone collinari e montane delle aree interne del paese, cioè in quei territori divenuti economicamente marginali per l’agricoltura. Nelle zone di pianura e, soprattutto, nei grandi centri urbani e nelle loro periferie le foreste sono invece diminuite soprattutto a causa del consumo di suolo ([24]). Potrebbe sembrare paradossale, ma proprio le città e le periferie sono gli ambiti nei quali la presenza di alberi e di boschi potrebbe svolgere il ruolo di mitigazione climatica in modo più efficace, contribuendo in modo significativo alla riduzione della temperatura (nelle città la temperatura media è mediamente di 2 °C più elevata delle zone circostanti) grazie all’ombreggiamento e all’azione rinfrescante dell’evapotraspirazione ([27]). In parallelo, la presenza di alberi e boschi in città contribuisce in modo sostanziale alla riduzione dell’inquinamento atmosferico sia in ambienti rurali che urbani. Il WHO[9] indica l’inquinamento atmosferico come fattore di rischio critico per le malattie non trasmissibili (NCD). Nove persone su dieci nel mondo respirano aria inquinata ([35]), l’inquinamento causa circa un quarto (24%) di tutti i decessi in età adulta a causa di malattie cardiache, 25% dei decessi da ictus, 43% dei decessi da malattia polmonare ostruttiva cronica e 29% dei decessi da cancro ai polmoni. Nel settore della mitigazione dell’inquinamento, così come per la facilitazione dell’attività fisica e la riduzione della depressione, di patologie mentali e determinate da insorgenza da stress, alberi e foreste sono sempre più considerate dei veri e propri “Dottori Verdi” ([6]). Le periferie sono poi sono poi interessate da un problema che, a livello globale e nel nostro paese, è sul lungo periodo forse ancora più grave della deforestazione: il consumo di suolo ([24]). Il consumo di suolo è dovuto all’occupazione di una superficie originariamente naturale, seminaturale o agricola con una copertura artificiale permanente e spesso impermeabile. In Italia l’avanzata di asfalto e cemento ha interessato nel 2017 (ultimi dati disponibili) 54 chilometri quadrati di territorio, ovvero, in media, circa 15 ettari al giorno. Una velocità di trasformazione di poco meno di 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, con un trend in costante crescita nonostante i segnali di allarme, le dichiarazioni di intenti e le proposte di legge a livello regionale e nazionale. La gravità, anche in relazione alla crisi climatica, di questa trasformazione sta nel fatto che mentre la deforestazione (da foresta a terreno agricolo) è un processo reversibile (come dimostrato dall’espansione naturale della foresta in Italia), in caso di ricoprimento artificiale (opere di urbanizzazione, strade, impermeabilizzazione del suolo, ecc.) il ripristino dello stato ambientale preesistente è molto difficile e estremamente costoso, quando non impossibile.

Una proposta per l’Italia 

Innanzitutto va ricordato che le foreste non possono essere l’unica soluzione del problema climatico. La stessa IPCC nel report recentemente pubblicato sull’uso sostenibile del suolo ci ricorda che il primo provvedimento per combattere la crisi climatica consiste nel “ridurre immediatamente le emissioni di carbonio proveniente da depositi fossili” in quanto “le foreste sono anch’esse minacciate dal cambiamento climatico e quindi, se non si osserva una riduzione di queste emissioni, tutti i progressi registrati dalle mitigazioni di carattere forestale sono inefficaci o vani. Investire nel settore forestale e nell’uso sostenibile del suolo può dare risultati solo se è parte di una strategia complessiva” ([13]). Le misure forestali, che hanno un limitato impatto sulla vita delle persone, non devono quindi diventare una scusa per non attuare altri provvedimenti che, inevitabilmente, hanno come conseguenza la modifica dei nostri attuali stili di vita e dei modelli di produzione, commercio e consumo.

Per quanto riguarda le foreste, e più in generale la vegetazione, gli interventi che possono essere attuati per mitigare e contrastare la crisi climatica sono quindi diversi: lotta alla deforestazione, impianto di nuove foreste, modifica delle modalità di gestione forestale ed agro-forestale. Accanto a questi interventi è necessario aumentare l’uso del legno sostituendo i prodotti che derivano da combustibili fossili o la cui produzione richiede una importante emissione di CO2 in atmosfera tenendo conto sia dell’efficacia del legno come sink di carbonio sia dell’utilità del legno come materiale di sostituzione. Il legno deve naturalmente essere ottenuto attraverso una gestione sostenibile (l’Unione Europea parla di “uso a cascata” dei prodotti legnosi e combatte l’importazione di legno “illegale”) che raccoglie dal bosco solo una parte degli “interessi” maturati, mantenendo invariato o aumentando il “capitale” legnoso e garantendo l’erogazione di tutti i gli altri servizi ecosistemici. Le foreste del pianeta (mantenendo l’attuale livello di tutela nei confronti di tutte le funzioni ecosistemiche) possono contribuire alle azioni di mitigazione, incluso l’aumento di produzione di legno, ma è necessaria una maggiore diffusione della gestione sostenibile, pianificata e, se possibile, certificata.

Tra gli interventi di mitigazione a breve periodo la lotta alla deforestazione tropicale ed equatoriale, nonché alla prevenzione dei disturbi nella taiga boreale, è lo strumento più urgente ed efficace. L’impianto di nuove foreste, invece, è una misura efficace in una prospettiva di medio-lungo periodo, in alcune parti del mondo più che in altre, cioè nei Paesi interessati da una maggiore deforestazione in passato e nelle aree libere competizione con terreni attualmente o potenzialmente utilizzati da colture. Progetti come il citato Green Legacy o l’attuazione del programma ONU One trillion trees hanno una importanza fondamentale in paesi come l’Etiopia, un paese che ha una copertura forestale dell’11% e che ha perso, tra il 1990 ed il 2010, quasi tre milioni di ettari di foresta pari a circa il 20% delle sue foreste, rispetto a progetti che prevedono il rimboschimento nella fascia temperata e boreale dove, come abbiamo già visto, le foreste sono in espansione da oltre un secolo.

Tuttavia, anche nella fascia temperata ci sono settori del territorio dove l’impianto di nuove foreste può svolgere un ruolo importante: le zone urbane e peri-urbane dove vive il 54% della popolazione mondiale, dove si consuma consumano il 70% dell’energia globale e l’80% del cibo e dove vengono emessi il 75% degli inquinanti e dei gas serra ([33], [12], [7]). Le nuove foreste urbane, così come il recupero funzionale e la gestione ottimizzata della vegetazione esistente (forestale e non), possono avere un ruolo fondamentale nella mitigazione degli estremi climatici e, fatto altrettanto importante, possono contribuire a contrastare il consumo di suolo (ad esempio destinando al bosco zone interstiziali, aree che potenzialmente potrebbero essere edificate o utilizzate dall’industria) che, sul medio e lungo periodo, costituisce un problema gravissimo per la lotta alla crisi climatica. Questa è già peraltro la proposta ufficiale del Comitato Nazionale per il Verde Pubblico, pubblicata nel 2018 ([1]).

Dobbiamo anche considerare che non è sufficiente “piantare”: occorre scegliere le specie adeguate, se possibile autoctone, resistenti al clima ed all’inquinamento e adattabili ai trend futuri di modificazione ambientale, resistenti al vento ed agli altri disturbi naturali ([23]) che si intensificheranno nei prossimi decenni proprio a causa della crisi climatica ([31]); occorre avere disponibilità di postime nei vivai delle specie e delle provenienze adatte (attualmente non ne abbiamo a sufficienza per soddisfare questo tipo di iniziative). Gli alberi di impianto artificiale, che nascono, crescono e muoiono come tutti gli esseri viventi, devono poi essere gestiti sostituendo gli alberi morti, controllando l’emergere di malattie, eliminando gli alberi instabili, che possono essere anche un rischio per gli abitanti nelle zone urbane o peri-urbane, e fornendo tutte le cure colturali necessarie a costituire dei popolamenti resistenti e resilienti. In definitiva occorre una grande conoscenza di progettazione delle nuove foreste, integrata ad una attenta ed efficace pianificazione territoriale, ambientale e del paesaggio e ad una gestione intelligente, nelle prospettive di filiera, e al contempo pienamente sostenibile. Il ruolo della progettazione di qualità, patrimonio delle scienze forestali, di nuovi alberi e nuove foreste e della gestione della vegetazione esistente (che deve coinvolgere tecnici, decisori, ricercatori, portatori di interesse e, naturalmente, proprietari dei terreni) non è quindi un optional più o meno eludibile ma una vera e propria “conditio sine qua non” per poter effettivamente piantare gli alberi nel modo corretto e nei luoghi giusti. Se questi elementi non sono tenuti in considerazione (come suggerisce la recente Strategia Nazionale per il Verde Pubblico), gli alberi non solo non svolgono il ruolo richiesto, ma possono diventare un costo e un problema.

In Italia, ancora più che in altre parti del mondo, a causa della nostra insostenibile dipendenza dalle importazioni per il settore forestale, e anche per il settore agrario, le politiche di mitigazione non possono prescindere dall’aumento della produzione, attraverso quella che viene definita “intensificazione sostenibile” ([32]). Qualunque politica di mitigazione realizzata in Italia è inefficace se nello stesso tempo non riduciamo, attraverso una più responsabile gestione delle foreste e del terreno agricolo ([17]), la nostra “esportazione di deforestazione” che, avvenendo in paesi lontani, spesso non viene recepita come nostra responsabilità. Entrambe queste strategie potranno essere perseguite a partire dalla nuova Strategia Forestale Nazionale, prevista dal D. Lgs. 34/2018 “Testo Unico sulle Foreste e Filiere Forestali” e in approvazione a fine 2019.

Non bisogna dimenticare infine che le foreste non sono solo depositi di carbonio, ma ecosistemi complessi che forniscono numerosi servizi ecosistemici ([21]), e che ragionare solo in termini di tonnellate di carbonio o di copertura forestale può essere fuorviante ([4]). Infine, sia quando parliamo di nuove foreste, sia come quando parliamo della gestione delle attuali foreste o di intensificazione sostenibile, non dobbiamo dimenticare che qualunque azione intrapresa non deve diminuire l’altissimo livello di tutela che hanno attualmente le foreste italiane ([19]) e che è necessario chiedere un livello di tutela adeguato anche ai paesi dai quali attualmente importiamo prodotti forestali ed agricoli.

È per questi motivi che la SISEF ha aderito all’appello delle Comunità Laudato Si’. Con la consapevolezza di svolgere un ruolo di elevata responsabilità sociale, la SISEF ha ritenuto importante aggiungere alle motivazioni ideali alcune informazioni e spunti di riflessione basati su evidenze scientifiche, affinché questo progetto sia efficace e affinché si valorizzi a 360° il ruolo di mitigazione e di lotta alla crisi climatica che può essere svolto dalle foreste italiane e, nello stesso tempo, si valorizzino gli altri servizi ecosistemici che in un paese densamente popolato come l’Italia sono altrettanto importanti. Ma anche con la consapevolezza di aver costruito negli ultimi anni, pazientemente anche se quasi in silenzio, i presupposti perché iniziative come quella delle Comunità Laudato Sì potessero concretizzarsi, avere senso ed acquisire un valore aggiunto in integrazione con realtà quotidiane, programmi in fase di realizzazione, nuove proposte di progetto.

Per questo SISEF ha sviluppato ulteriormente l’integrazione e le alleanze strategiche non solo in campo nazionale (ad esempio con progetti in collaborazione con Stefano Boeri Architetti e Politecnico di Milano), ma anche internazionale (ad esempio con progetti in collaborazione con FAO, Royal Botanic Kew Gardens, Arbor Day Foundation, C40, UN-Habitat, Cities4Forests, Urban Forest Research Center in Cina) quali il grande progetto della Great Green Wall of Cities che si propone di realizzare nei pressi di 90 città dall’Africa alla Asia Centrale o al loro interno, 500.000 ettari di nuove foreste urbane e 300.000 ettari di foreste naturali da mantenere e ripristinare entro il 2030. Ma non solo: l’aspirazione è di estendere anche in altri continenti, in particolare in quello europeo, la capacità delle grandi città di creare nei prossimi anni ampie zone di alberi e foreste attorno e all’interno del loro tessuto urbano. Così SISEF, insieme a Stefano Boeri Architetti, FAO e altri partner in Italia, propone, anche in risposta positiva, concreta e fattibile all’idea dei 60 milioni di alberi delle Comunità Laudato Sì, di iniziare a realizzare una Grande Foresta Urbana d’Italia[10] che colleghi le realtà urbane italiane, grandi e piccole, in una immensa infrastruttura verde fra e per le città. Un’immensa infrastruttura verde che sia connessa idealmente, fisicamente e funzionalmente, con la più grande infrastruttura verde del nostro paese: le Foreste d’Italia.

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