I analyze the amount of wood samples resulting from coppicing and the recent years trend based on national and regional inventories data and on the “Report on the state of forests in Tuscany, 2008”. I highlight the difficulty in assessing a relationship between forest planning and protection of natural elements susceptible to deterioration of old forests. I also point out the difficulty of choosing appropriate indicators and investigation scale. Finally I analyze the regional laws in force, highlighting the rules can be critical for the habitat and/or the species of conservation concern.
La questione legata alla sostenibilità ecologica del ceduo è, negli ultimi anni, una delle più dibattute all’interno del mondo scientifico forestale (si veda, ad esempio,
Il presente contributo vorrebbe fornire alcuni spunti di riflessione in merito alla questione con l’intenzione di mantenere un approccio il più possibile costruttivo e pragmatico.
Il contesto territoriale su cui concentrerò gran parte delle mie analisi e valutazioni è quello toscano, ma penso che molte delle problematiche affrontate siano comuni almeno a buona parte dell’area appenninica.
Comincerò pertanto a focalizzare l’attenzione sulla dimensione del problema, nella consapevolezza che dietro a numeri e statistiche si cela spesso una variabilità infinita di casistiche e che, come si dirà più avanti, la scala e l’attendibilità dei dati condizionano di molto le valutazioni che possono essere fatte.
Il governo a ceduo è diffuso in Italia su quasi 3 700 000 ettari (
Sarebbe certamente interessante poter disporre di dati più ancora più aggiornati per valutare gli effetti recentissimi dell’aumento della domanda di biomasse a scopo energetico.
Volendo concentrare l’attenzione sul territorio regionale toscano si attesta che, nonostante il generale e progressivo processo di “invecchiamento” di buona parte dei soprassuoli, una quota ancora molto rilevante è rappresentata da boschi sostanzialmente giovani, se non altro dal punto biologico. Dai dati dell’Inventario Nazionale (
Per quanto riguarda la proprietà privata, il rapporto non fornisce sufficienti informazioni ma la quota di boschi di origine agamica (tra cedui a regime, cedui invecchiati e cedui di oltre 50 anni di età ), dovrebbe verosimilmente collocarsi tra l’80 e il 90% del totale.
Secondo i dati dell’Inventario Forestale della Toscana (
Sempre secondo il suddetto Rapporto, nel 2008 gli interventi di utilizzazione richiesti nella proprietà privata hanno interessato circa 16 700 ettari, pari al circa il 1.7% della superficie forestale privata, evidenziando un aumento del 13.6% rispetto al 2007. Nel corso dei 4 anni considerati (2005-2008) è aumentato sia il numero delle istanze presentate che quello della superficie media sottoposta ad utilizzazione, anche se quest’ultima in misura più limitata. La dimensione media delle superfici interessate è comunque molto diversa a seconda dell’area geografica (più elevata nelle province di Pisa e Grosseto, dove si pone tra i 4 e i 6 ettari, più ridotta sull’Appennino dove si attesta perlopiù tra 1 e 3 ettari).
La tipologia di intervento più frequente nella proprietà privata è il taglio del ceduo semplice (70%). Gli interventi più richiesti sono stati quelli a carico delle specie quercine (circa il 50% del totale, con un aumento del 50% rispetto al 2007, soprattutto nella categoria di bosco “misto a prevalenza di specie quercine”), seguita da castagno e faggio.
I cedui invecchiati ricadenti nella proprietà privata sono stati oggetto di richiesta di intervento per circa 5 800 ettari con un aumento molto consistente sul biennio precedente, rispetto al quale l’attività selvicolturale risulta addirittura quadruplicata e costituisce quasi la metà dell’intera categoria taglio del ceduo nell’area privata. Secondo il suddetto Rapporto, l’incremento così marcato delle richieste per i cedui invecchiati è da mettere in relazione sia con la volontà dei proprietari di richiedere il taglio per i cedui che si avvicinano al limite d’età che li sposterebbe nella categoria fustaia (in base all’art. 29 del Regolamento Forestale regionale, i cedui oltre 50 anni, salvo eccezioni, sono assimilati a fustaie), sia con la necessità di aumentare il valore di macchiatico dei soprassuoli che, utilizzati al turno minimo, non potrebbero coprire adeguatamente i costi di intervento. Le specie quercine risultano quelle più coinvolte (quasi il 60%), seguite dal castagno. Significativo è anche il dato sui boschi invecchiati di robinia (488 ettari pari all’8.5%, rispetto ai soli 30 ettari del 2007 e 29 del 2006).
Provando ad eseguire semplici calcoli si può rilevare che con la quota di circa 11 700 ettari di boschi ceduati nel 2008 in Toscana, pari a circa l’1.2% del totale della superficie privata forestale, e applicando tale tasso (assunto, per semplicità , costante anche per gli anni a venire) al turno minimo (18 anni per le specie quercine e altre specie e 24 anni per il faggio), si ottiene che l’area dei cedui a regime (ovvero aventi un età compresa tra 0 e 18/24 anni) andrebbe a coprire il 22-28% dei boschi privati. Nel caso, più realistico, che il turno consuetudinario di utilizzazione non corrisponda a quello minimo ma si attesti attorno ai 24-30 anni per le specie quercine e 32-36 anni per il faggio, si ottiene un’area dei cedui a regime che andrebbe verosimilmente a coprire il 30-45% dei boschi di proprietà privata. E questo, senza considerare incrementi del tasso medio annuale di ceduazione, assai prevedibili almeno per i prossimi anni, nel qual caso l’area dei cedui a regime subirebbe ulteriori notevoli incrementi.
Riguardo all’attendibilità dei dati utilizzati per le statistiche sui prelievi, è comunque utile evidenziare il fatto che tali dati siano considerati da taluni assai sottostimati, soprattutto per quanto concerne il legname da combustibile (
Per il territorio toscano tale verifica non è stata mai fatta.
Chi scrive ha provato ad eseguire un controllo speditivo e a scopo puramente esplorativo (quindi senza la pretesa di ottenere dati scientificamente incontrovertibili ma con il solo obiettivo di “farsi un’idea” più o meno indicativa del fenomeno) attraverso l’utilizzo in ambiente GIS di foto aeree scattate nel 2007 di un’area di circa 4250 ettari, scelta in modo del tutto casuale all’interno di un comprensorio (quello delle Province di Grosseto e Siena) noto per essere stato, fin da epoca storica, sottoposto a frequenti utilizzazioni. In base al
Ebbene, la digitalizzazione delle aree utilizzate negli ultimi 3-4 anni, rilevabili con una certa facilità mediante la semplice osservazione a video dei confini delle tagliate, ha prodotto i seguenti risultati:
superficie totale fotointerpretata = 4.250 ha
superficie interessata da agricoltura e/o pascolo = 540 ha
superficie totale interessata da boschi = 3.700 ha
superficie interessata da utilizzazioni (ceduazioni) recenti (entro 3-4 anni) = 880 ha
rapporto tra superficie utilizzata negli ultimi 3-4 anni e superficie boscata = 24%
numero di tagliate individuate = 78
ampiezza media della tagliata = 11.3 ha
Frequenza del numero delle tagliate per classi di ampiezza:
< 5 ha= 19 (24%)
Tra 5 e 10 ha= 23 (29%)
Tra 10 e 15 ha= 19 (24%)
Tra 15 e 20 ha= 7 (9%)
Oltre 20 ettari= 10 (13%)
Si precisa, inoltre, che non si è voluto prendere in esame eventuali accorpamenti di superfici adiacenti riferite a tagliate distinte eseguite a distanza di meno di 3 anni tra loro.
Questi dati, per quanto parziali e bisognosi di una verifica rigorosa della correttezza del metodo anche mediante controlli in campo, mi inducono a riflettere sulla necessità non solo di un maggior controllo del rispetto della normativa vigente (es. estensione delle tagliate) ma anche di una pianificazione degli interventi a scala di paesaggio. Nel caso sopra riportato, anche senza addentrarsi nel rispetto o meno dell’art. 43 del Regolamento Forestale della Regione Toscana (“Determinazione delle superfici territorialmente ammesse annualmente al taglio”, che dovrebbe disciplinare l’estensione massima complessiva delle tagliate a scala di bacino), appare assai rilevante l’estensione complessiva delle aree utilizzate nell’arco di un periodo così breve, anche in considerazione del fatto che le aree risparmiate sono comunque per lo più interessate da boschi cedui, utilizzati in precedenza o potenzialmente utilizzabili negli anni a venire. In contesti di questo tipo ritengo che occorra valutare attentamente il rischio che possano esserci seri problemi di frammentazione degli habitat forestali di maggior pregio conservazionistico e delle specie che da essi dipendono.
Sebbene la bibliografia dedicata al tema della sostenibilità ecologica della ceduazione sia sempre maggiore, si evidenzia una sostanziale incapacità di valutare in modo scientificamente valido gli effetti che tale pratica, in diversi contesti, può produrre sulle componenti naturali. Quello che infatti potrebbe apparire come l’analisi di un intervento avente caratteristiche certe di estensione (area e geometria della tagliata), biomassa asportata (legname prelevato), biomassa rilasciata (numero e dimensione media delle matricine rilasciate) e di tutta un’altra serie di variabili quantificabili (ad es. distribuzione delle matricine, forma della tagliata, pendenza, quota ed esposizione dell’area, ecc.), assume nella realtà un livello di complessità tale da rendere troppo rischioso e aleatorio ogni tentativo di semplificazione.
Vi è innanzitutto un problema di indicatori. In molti casi si è fatto ricorso ad indici di biodiversità , pur coscienti di quanto questo nella pratica si riduca ad essere la misura di una sola minima parte di questa. Sarebbe come pretendere di voler osservare l’oceano dall’oblò di una nave: si avrà sempre una percezione limitata. Nei consueti processi di analisi, adottati comunemente per studi mirati a valutare la qualità ambientale di territori, si riesce a stilare elenchi floristici e faunistici con un sufficiente livello di attendibilità soltanto per alcuni
Un limite dell’utilizzo esclusivo di indici di biodiversità è quello di non tenere in giusta considerazione l’importanza conservazionistica delle specie. Un classico esempio ci viene proprio dalle utilizzazioni forestali dei boschi cedui, il cui numero di specie floristiche rilevabili all’interno di una particella aumenta rapidamente negli anni successivi al taglio per poi ritornare sui livelli precedenti all’intervento. Vi sono però specie rare, forse perché minacciate, che non necessariamente si accompagnano ad una elevata biodiversità (o almeno a quella che riusciamo a misurare noi). L’indice di biodiversità è fortemente influenzato dal numero di specie comuni e generaliste che sono per lo più di scarso valore conservazionistico, solitamente vagili e legate ad ambienti disturbati e poco evoluti.
Generalizzando, si può affermare quindi che la ceduazione tende a favorire l’ingresso di specie di flora anemocora adattata a sfruttare le particolari condizioni micro-ambientali che si instaurano a livello del suolo per i primi anni dopo il taglio (maggior assolazione, maggior escursione termica, minore umidità relativa, maggior dilavamento superficiale, maggior disponibilità di risorse minerali, ecc.). Di contro si ha una riduzione (fino a poter arrivare all’estinzione locale) delle specie legate alle condizioni mesofile che possiedono una capacità di dispersione ridotta, elevato grado di isolamento, ecc. Pertanto, se tra i risultati di uno studio finalizzato a valutare gli effetti della ceduazione si evidenzia quello dell’aumento della biodiversità a seguito del taglio, si corre il rischio di affermare una ovvietà insignificante. Le specie che subentrano sono capaci di muoversi rapidamente in un raggio vastissimo a partire da nuclei isolati, al contrario delle specie nemorali. Nell’ambito di una pianificazione di rete ecologica a scala di paesaggio, questo gruppo di specie non dovrebbe necessitare di ripristino di corridoi ecologici, perché capaci di fdiffondersi, da sempre, per conto proprio.
A tale limite si potrebbe porre rimedio utilizzando indici di rarità (ricchezza di specie rare) o comunque di interesse conservazionistico (ricchezza di specie di interesse conservazionistico), sforzandosi di considerare parametri quanto più oggettivi possibile, anche se talora di difficile applicazione: ad esempio considerando l’ampiezza di areale occupato alle varie scale (continentale, nazionale, regionale, bacino, SIC o area protetta, ecc.), la tendenza nel tempo della distribuzione, l’abbondanza degli effettivi, il livello di vulnerabilità riscontrato a fattori antropici o naturali, ecc. È chiaro però che anche questo indice risente necessariamente del livello di conoscenza generale che sarà più elevato per alcuni
Vi è poi un problema di scala. Infatti se per biodiversità si intende “l’insieme della pluralità delle specie e della complessità delle catene alimentari all’interno di un sistema, alla grande (microcosmo) come alla piccola scala (paesaggio, regione geografica) in cui le specie si muovono e con cui reagiscono” (
Non si può pertanto effettuare una valutazione degli effetti della ceduazione, anche di singole particelle, senza correre il rischio che “disturbi” agenti a scale diverse da quelle analizzate (particella forestale) rendano aleatorie, quando del tutto inattendibili, le conclusioni.
Molti studi sui rapporti tra gestione selvicolturale e componenti naturali sono lacunosi proprio perché entrano in gioco variabili sconosciute o difficilmente misurabili. La presenza/assenza di una specie può essere il risultato di una quantità enorme di fattori che agiscono oggi o che hanno agito in passato.
Il fattore “tempo” poi è fondamentale, se si pensa che i tempi dei sistemi forestali sono molto lunghi per poter apprezzare cambiamenti significativi nell’arco della vita di un ricercatore, figuriamoci di uno studio che abbraccia pochi anni.
Le semplificazioni, che in certi casi siamo costretti a commettere per cercare di analizzare l’influenza di alcune variabili su alcune specie, possono risultare eccessive e inficiare tutto il lavoro. Provo a fare un esempio, tra i tanti possibili, fondato sulla mia esperienza di circa quindici anni di osservazioni, studi e monitoraggi sugli Uccelli. È assai frequente rilevare un indice di ricchezza ornitica significativamente più elevato in aree di margine “bosco/area aperta” piuttosto che in aree interne alla matrice forestale anche quando questa copre ininterrottamente vaste porzioni di territorio (si veda ad es.
La scala di analisi è fondamentale e presuppone la disponibilità di informazioni che al giorno d’oggi siamo ancora lontani dal possedere (ad es., cartografie di dettaglio di uso del suolo/vegetazione, caratteristiche dendrometriche delle aree indagate, dati puntuali su parametri demografici e distributivi delle specie utilizzate come indicatrici, ecc.). In assenza di informazioni come quelle sopraindicate e di lunghi periodi di monitoraggio delle variabili selezionate, appare difficile arrivare a conclusioni soddisfacenti.
Attualmente si palesa, da una parte del mondo accademico forestale, la tendenza a giudicare positivamente questo nuovo e recente incremento delle utilizzazioni nel ceduo mettendo in relazione tale fenomeno con la necessità di aumentare a scala di paesaggio l’eterogeneità ambientale (
Sempre
In quest’ottica sembrerebbe pertanto ancora più difficile fare previsioni sugli effetti che il governo a ceduo avrebbe nei confronti delle componenti naturalistiche. Se è vero, ad esempio, che una specie come il picchio rosso mezzano (Dendrocopos medius), un tempo presente in Toscana
Ma cosa succederebbe se si tornasse ai livelli di utilizzazione praticati agli inizi del secolo scorso? Cosa succederebbe se alla pratica della ceduazione si accompagnasse
Personalmente, anche per ridurre la quota di importazione che ritengo assolutamente insostenibile sotto tutti i punti di vista, propenderei per il motto “tagliare di più ma tagliare meglio!”, cercando si di incentivare l’utilizzo a scopo energetico di una risorsa rinnovabile come il legname, ma applicando una selvicoltura più responsabile, libera da certi canoni colturali che credo ormai in buona parte superati e, al tempo stesso, più accorta, in una parola più “professionale”. Per fare questo penso ci sia ancora molto da lavorare. Innanzitutto ritengo sia indispensabile riconoscere al tecnico forestale un ruolo di responsabilità diretta nella gestione di ogni forma di utilizzazione atta a produrre un reddito per il proprietario (tenderei ad escludere, chiaramente, tutte le attività riferibili al semplice autoconsumo). Responsabilità che dovrebbe essere sancita per legge e comportare l’assunzione di obblighi anche legalmente perseguibili nei casi di non corretta esecuzione dei lavori dovuti alla negligenza o alla inosservanza dei regolamenti, così come normalmente si fa per ogni lavoro in cui è riconosciuta la figura di un Direttore dei Lavori. Così facendo si potrebbe riuscire a garantire un livello minimo di qualità delle utilizzazioni forestali, sopperendo almeno in parte anche alla grave lacuna formativa che caratterizza una quota non trascurabile delle ditte che si trovano ad operare in diversi contesti territoriali della Toscana e non solo.
Ritengo inoltre che vi sia un margine, talora ampio, di miglioramento dell’attuale legislazione forestale. Volendo ancora riferirmi, in questa trattazione, al contesto toscano (pur nella convinzione che molte di queste criticità abbiamo valenza nazionale), occorre dare atto che la Legge Forestale Toscana n.39/2000 e il successivo Regolamento (n.48/2003 e succ. mod. e integr.) mettono fine a un lunghissimo periodo di anacronistica regolamentazione della gestione del patrimonio forestale, avendo anche il grandissimo merito di introdurre importanti elementi di conservazione della biodiversità e di riduzione della frammentazione ecologica. Ciò nonostante, fermo restando che molte delle minacce nei confronti della flora e fauna forestale di interesse conservazionistico derivano proprio dal mancato rispetto di tale legislazione, sono ancora diversi gli aspetti critici che sono contenuti nel testo riferibili essenzialmente ai seguenti punti:
Tutela delle specie sporadiche e del legno morto in foresta
Estensione delle tagliate
Turni
Tagli di utilizzazione dei cedui semplici
Taglio dei cedui invecchiati
Boschi in situazione speciale
La legge contiene una lista di specie forestali sporadiche, come aceri, frassini, ciliegio e diverse altre. Si ritiene opportuno valutare l’inserimento dell’ontano nero (
Per quanto riguarda le piante da rilasciare a sviluppo indefinito, si ritiene insufficiente una sola pianta ad ettaro. In un’ottica di matricinatura a gruppi (altamente auspicabile come verrà ribadito anche più avanti), si potrebbe invece pensare al rilascio di “isole di biodiversità ” che comprendano piccoli nuclei ad elevata concentrazione di specie accessorie. In alternativa, il numero di esemplari a sviluppo indefinito dovrebbe essere decisamente più elevato (ad es., tra 5 e 10).
Estensioni di 20 ettari, ammesse per i cedui, potrebbero risultare eccessive, soprattutto in contesti forestali frammentati o in aree caratterizzate da un elevato tasso di utilizzazione boschiva. Anche la determinazione delle superfici territoriali ammesse annualmente al taglio (art. 43), non garantisce un’adeguata limitazione nelle estensioni complessive oggetto di taglio a scala di bacino o sottobacino, essendo il limite massimo teorico annuale calcolato sulla base del turno minimo per tipologia di bosco e forma di governo, come se si ritenesse plausibile che tutta la superficie forestale di un bacino potesse cadere al taglio nell’arco di un solo turno minimo.
I boschi cedui puri o misti a dominanza di castagno, robinia, ontano, salice, nocciolo, pioppo, sono ceduabili, in base al regolamento, con turni di 8 anni. Anche se nella pratica il turno perseguito è normalmente più lungo, di fatto si legittima una gestione che non tiene in giusta considerazione né i valori ambientali che caratterizzano alcune di queste formazioni, né il reale pericolo di diffusione della robinia, specie aliena e invasiva.
Le formazioni a dominanza di ontano, e in particolare quelle di dimensioni sufficienti da essere assimilati all’habitat di interesse regionale e comunitario (prioritario) “
Il crescente interesse nei confronti della vegetazione di alveo come serbatoio di biomasse rappresenta, a mio avviso, una forte criticità per gli habitat ripariali e per le specie di flora e fauna ad essi legati, a seguito di interventi intensivi e/o effettuati in contesti di alto valore ambientale, motivati in ragione di sicurezza idraulica ma quasi sempre senza il supporto di adeguate basi conoscitive e pianificatorie.
Si ritiene che l’indicazione di numeri minimi, frequenze di età e distribuzione delle matricine siano criteri che possano essere ampliati e in parte rivisti. Il solo numero delle matricine non basta a definire una adeguata copertura del suolo e, tanto meno, la disponibilità di biomassa per le componenti biologiche. Ciò che invece dovrebbe interessare è la dimensione media delle matricine lasciate. Il rilascio di una percentuale (anche cospicua) delle matricine di vecchio turno non consente di tutelare in futuro gli individui selezionati che potranno essere liberamente tagliati al turno successivo (ad es., dopo 36 anni per un querceto, età che si ritiene del tutto insufficiente a garantire un adeguato sviluppo di chioma e una conseguente produzione di seme). Da un punto di vista strettamente forestale, la funzione delle matricine deve essere quella di rinnovare il patrimonio genetico del soprassuolo dove prevalgono nettamente esemplari rinnovati per via agamica; da un punto di vista ecologico sarebbe auspicabile che le matricine assolvessero alla funzione di tutela della biodiversità forestale, fino a sperare che possano divenire veri e propri “alberi habitat”. Pertanto, anche alla luce delle recenti sperimentazioni (si veda ad es. i noti progetti SUMMACOP e RECOFORME) e del crescente interesse di molta parte dei tecnici del settore e del mondo accademico forestale, si ritiene estremamente utile indirizzare la norma relativa al rilascio delle matricine secondo criteri fondati soprattutto sulla qualità , piuttosto che sulla quantità , peraltro da molti (e da chi scrive) ritenuta eccessiva.
In particolare si ritiene che sia da preferire una matricinatura per gruppi, finalizzata eventualmente anche a creare delle aree di rilascio indefinito (“isole di biodiversità ”) di dimensione complessivamente modesta (alcune centinaia di metri quadrati ad ettaro), individuata da un tecnico, secondo logiche di conservazione dei nuclei più importanti di specie accessorie o di esemplari di grande dimensione già presenti nella particella. Nella restante particella si potrebbe eseguire il taglio raso senza rilascio delle matricine (magari preservando obbligatoriamente un numero minino di esemplari qualora questi avessero un diametro superiore a una certa soglia prestabilita). Dovrebbero poi essere risparmiate al taglio le fasce (sarebbe sufficiente anche solo 10 metri di lato) adiacenti a corsi d’acqua e fossi. Una simile procedura porterebbe anche indubbi vantaggi di semplificazione dei lavori di utilizzazione ed esbosco, con minor danno per le piante rilasciate.
Relativamente alle piante morte in piedi, nei casi in cui non sia accertato un pericolo per la diffusione di fitopatologie, anziché procedere alla loro totale asportazione, si ritiene oltremodo necessario il mantenimento in ragione di 3-5 piante ad ettaro.
La maggiore semplicità dell’
La normativa consente alle Province e alle Comunità Montane di individuare i Boschi in situazioni speciali per motivi di carattere idrogeologico, ambientale o paesaggistico.
Purtroppo per il momento in Toscana tale opportunità offerta dalla normativa non è stata ancora sfruttata adeguatamente dagli enti competenti.
Si ritiene utile comprendere negli elenchi dei “boschi in situazione speciale” molte delle formazioni di maggior pregio vegetazionale e faunistico che risiedono al di fuori delle aree protette, come ad esempio le formazioni relitte o eterotopiche (ad es., faggete abissali), le ontanete e i saliceti ben conservati dei medi e alti corsi fluviali, oltre ad alcuni habitat forestali di interesse regionale e/o comunitario come ad esempio:
(9180*) Boschi misti di latifoglie mesofile dei macereti e dei valloni su substrato calcareo,
(5230*) Boschi umidi a dominanza di
(9340) Boschi mesofili a dominanza di
(9160) Querceti di farnia o rovere subatlantici e dell’Europa Centrale del
(91B0) Frassineti non alluvionali a
(91E0*) Boschi palustri e ripariali a ontano;
(91F0) Boschi planiziari ripariali a farnia, carpino, ontano e frassino meridionale.
Nella consapevolezza che occorra fare ancora molta strada per arrivare ad un livello soddisfacente di conoscenza dei rapporti tra gestione selvicolturale e componenti naturalistiche, il principio precauzionale dovrebbe indurci ad assumere un atteggiamento più cauto prima di avvallare gli attuali criteri gestionali dei boschi cedui.
E ciò anche perché ritengo insensato sostenere attualmente validi i modelli gestionali già adottati nei decenni passati solo perché la loro applicazione ha comunque permesso a buona parte
La sensazione è che, nonostante il (o, forse, a causa del) sempre maggiore livello delle conoscenze naturalistiche avvenuto in Italia negli ultimi trent’anni, si sia formato un sorta di “muro contro muro” che vede da una parte i sostenitori (afferenti a una certa quota del mondo accademico forestale e del settore economico forestale in genere) di una gestione del ceduo che potremmo definire “classica” secondo schemi geometrici di rilascio di matricine e che auspica a una massimizzazione dei benefici socio-economici e, secondariamente, al mantenimento di uno
Per tutti questi motivi ritengo davvero necessario che il mondo scientifico si affretti a trovare delle sintesi condivise tra le diverse correnti di pensiero, affinché si arrivi a definire dei criteri più oggettivi di sostenibilità ecologica di questa forma indispensabile di utilizzazione boschiva che è il ceduo. Ciò credo si possa raggiungere soltanto aumentando lo sforzo nella ricerca di modelli adeguati a massimizzare entrambi i benefici (ecologici e socio-economici) secondo un approccio scientifico che consenta di mettere a frutto le conoscenze acquisite in campo naturalistico. A questo riguardo preme rimarcare la sempre più pressante urgenza di colmare le gravi lacune conoscitive relative ai quei
In quest’ottica credo sarebbe davvero assai utile che il suddetto “Rapporto sullo stato delle foreste in Toscana” contenesse anche indicatori naturalistici (ad es., indici demografici e distributivi di popolazioni faunistiche forestali come il
Desidero ringraziare il Dott. Claudio Ottavini, con tutto il gruppo della Commissione “Selvicoltura” dell’Ordine degli Agronomi e Forestali di Firenze, per i preziosi spunti di riflessione sull’argomento. Un sentito ringraziamento anche agli anonimi revisori della rivista Forest@, per gli utilissimi consigli forniti durante la revisione del manoscritto.
Il Giglioli nel suo “
Quanta parte non lo sappiano - Il tasso di perdita di biodiversità nel mondo è in costante aumento. L’Indice del Pianeta Vivente (