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All the fault of the Bourbons? The case of the 1826 forestry act

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 19, Pages 82-84 (2022)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0047-019
Published: Jul 12, 2022 - Copyright © 2022 SISEF

Editorials

Abstract

We talk about the 1826 forestry act of the former Kingdom of the Two Sicilies, under Francis I of Bourbon. Those who talk about it, speak ill of it. The so-called “clearcut with reserves”, prescribed by the Bourbon’s act, is thought to have caused the distruction of many southern forests. Here we reason about this act, and suggest the Bourbons took several faults that were not their own. For instance, many forest cuts carried out in southern regions after the unification of Italy (under a new forestry regulatory regime) were defined, officially, as “shelterwood cuts”. However, they were nothing but “clearcut with reserves”.

Keywords

Forest, Clearcut, Southern Italy, Naples, Kingdom

 

Della legge forestale del Regno delle due Sicilie, emanata da Francesco I Borbone il 21 di agosto del 1826, chi ne ha sentito parlare, il più delle volte ne ha sentito parlar male. Alla prescrizione del suo famoso art. 35 di “tagliar tutti gli alberi rasente terra, riserbandone solo quindici a moggio...” (il cosiddetto taglio raso con riserve - Fig. 1, Fig. 2), associata al divieto di “tagliar gli alberi a scelta”, è stata attribuita la degenerazione di molti boschi del meridione, con effetti particolarmente negativi per i boschi mesofili (quelli che amano i suoli umidi e freschi) dei versanti montani meridionali, che si fecero rarefatti e in alcuni casi sparirono.

Fig. 1 - Una vecchia “riserva” di faggio nella faggeta di Brienza (Potenza): erano definite “speranze” queste piante, ma spesso erano scelte fra le piante peggiori. Adesso ci appaiono come suggestivi “vecchi” alberi, ricchi di microhabitat e biodiversità (foto: A. Saracino).

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Fig. 2 - Faggeta di Brienza (Potenza): la ceppaia di una vecchia “riserva” di faggio, con emissione di polloni (foto: A. Saracino).

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Innanzitutto, rimandiamo a un paio di documentati lavori ([4], [5]) chi desiderasse informazioni di dettaglio sull’articolata, e per molti versi interessante, legislazione forestale del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie a cavallo fra settecento e ottocento. E poi avvertiamo circa l’idea sottesa a queste nostre righe: cioè che il Borbone si sia preso, in relazione ai negativi effetti di cui sopra, diverse colpe non sue, o perlomeno che il danno non fosse nelle “intenzioni”; o che sia quantomeno sbrigativo interpretare le disposizioni di Francesco I (che poi riprendono, sul piano tecnico-colturale, analoghe disposizioni emanate da Ferdinando I nel 1819) come esclusivo risvolto di una politica miope e restauratrice che, vera per altri aspetti, mirasse a uno sfruttamento indiscriminato del patrimonio forestale del Regno.

Il principio enunciato dalla legge nel suo esordio segnala una diversa direzione, con accenti di modernità. Eccolo: “Il diritto di proprietà, cioè l’uso, che de’ suoi beni ciascun privato può fare, è, per principio, di pubblica utilità, ossia di ragion pubblica, intrinsecamente soggetto alla condizione di esercitarsi senza nuocere ad altri. Determinare con precisione i limiti della condizione anzidetta [...omissis…] è l’opera di saggia e ben ponderata legislazione”. E all’art. 12 si legge “qualunque terra boscosa non potrà esser dissodata, o disboscata”.

È ben noto che durante buona parte del settecento e fino agli inizi dell’ottocento, dal regno di Carlo I fino alla Repubblica Napoletana e poi al periodo di dominazione francese, il Regno di Napoli fu percorso da svariati segni d’interessante riformismo, pur esercitato nelle forme del dispotismo illuminato del tempo: sotto Carlo I vennero date garanzie civili agli ebrei, fu costituito il Museo Archeologico destinato ai reperti di Pompei ed Ercolano, fu istituita, prima in Europa, una cattedra di Economia; Gaetano Filangieri definì, sotto Ferdinando IV, molti dei principi del diritto moderno; a Mauro Pagano, ai tempi della Repubblica Napoletana, si deve la proposta di un importante progetto di organizzazione costituzionale, ecc. ([3]).

Ma, venendo ad aspetti più attinenti a noi e alle foreste, nel 1811, durante la dominazione francese, fu istituita l’Amministrazione Generale “Acque e Foreste”, fatto che suona come testimonianza della percezione del territorio come importante risorsa; e più tardi, già in piena epoca di restaurazione, con la legge del 18 Ottobre 1819, furono fissate le attribuzioni di una Direzione generale dell’Economia Silvana “coordinandole appositamente alla conservazione, ed al miglioramento de’ boschi, e delle selve”, così ancora si esprime il legislatore del 1826.

Appare quindi stridente, rispetto a un quadro che comunque segnala il tentativo di costruzione di una moderna amministrazione ([7]) e all’articolato impianto di una legge che da più d’uno viene considerata come una delle migliori fra quelle pre-unitarie ([6]), la brusca sentenza che riconduce a queste disposizioni la responsabilità quasi esclusiva della storica alterazione delle foreste del meridione.

Giusto per raffronto, si guardi allo stringato (poche decine di righe) e rozzo editto emanato il 24 Ottobre 1780 da Pietro Leopoldo, Granduca di Toscana, con cui sbrigativamente si subordinavano i boschi all’interesse della “Magona del Ferro” (l’industria siderurgica) e si permetteva ai “possessori di tagliare i loro boschi e qualunque sorte di piante di loro pertinenza, anche dentro al miglio dalla cima degli Appennini senza chiederne alcuna licenza”. Quando invece la legge di Francesco I si articola in 186 articoli suddivisi in 9 titoli, dalle disposizioni generali sulla proprietà a quelle tecniche, dalla vigilanza sui boschi ai diritti d’uso, dalla difesa dagli incendi (sic!) alle pene per i disboscamenti e i dissodamenti, ecc.

Ancora: Ludovico Piccioli, che dal 1915 al 1937 sarà professore di Selvicoltura e Tecnologia del legno presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Firenze, paragonando la legge borbonica del 1826 alla prima legge forestale unitaria (quella promossa dall’allora ministro per l’Agricoltura, Salvatore Maiorana Calatabiano) così si esprime: “la provvida legge del 1826, più savia e ponderata e di molti cubiti superiore a quella del 20 giugno del 1877”. ([6]).

Verrebbe da dire che maggiore è lo zelo, peggiore è il risultato, o che meno in una legge si scrive, meglio è. Ma, per l’appunto, sarebbe una provocazione: proviamo ad andare un po’ oltre, nella nostra libera interpretazione.

Sicuramente la legge del 1826 mira, primariamente, alla ridefinizione del quadro delle proprietà dopo il periodo rivoluzionario e dell’eversione feudale, così come punta al censimento della proprietà forestale, a evidenti fini fiscali (che poi ci siano riusciti è altro discorso). Sul piano colturale introduce il famoso taglio raso (con qualche “pianta di speranza” da riservare), imprimendo una decisa svolta rispetto al “taglio a scelta” che veniva praticato in precedenza ([4]).

Durante il settecento, a parte le esigenze connesse all’uso del bosco per il “legno da fuoco” da destinare alle esigenze delle comunità, gran parte dello sfruttamento dei boschi del meridione era legato alle necessità di approvvigionamento dell’arsenale napoletano, con i boschi di quercia al centro del mirino ([1]). Non è in relazione a un obbiettivo squisitamente tecnico che però riesce facile interpretare la svolta verso il taglio raso, e neppure ci sembra facile attribuirla a fattori esclusivamente economici, che sicuramente ebbero una parte nella vicenda.

Un po’ celiando e un po’ no, ci avventuriamo in un’interpretazione in cui “lo spirito spiega il reale”. Siamo nel periodo in cui nascono molte Accademie scientifiche, quella forestale di Tharandt viene fondata da Heinrich Cotta nel 1811, nel 1826 nascerà la scuola forestale di Nancy. Da queste scuole deriveranno i grandi insegnamenti, e anche gli schematismi, della selvicoltura classica. Al di là dei regimi politici che si sovvertono l’un l’altro, le élites napoletane sono aperte allo spirito e alla cultura europea: il desiderio di rendere razionale, oggettivo, ripetibile, l’uso di una importante risorsa come quella rappresentata dal bosco potrebbe avere avuto un ruolo nella decisione di allontanarsi dal suo uso “estemporaneo”, come poteva essere considerato quello del taglio a scelta. Che la storia, e l’ecologia, abbiano poi decretato che sia stato uno sbaglio, questa è un’altra faccenda.

Ma è più probabile, e semplice da pensare, come è stato scritto, che i Borboni, siano ricorsi a un precedente famoso, di un loro glorioso parente, e abbiano sostanzialmente replicato nella loro legge il codice forestale francese del 1669, emanato per iniziativa di Jean-Baptiste Colbert, la ben nota “Ordonnance de Louis XIV, rois de France et de Navarre, sur le Fait des Eaux e des Forêts”.

Usciamo da queste libere interpretazioni, e ritorniamo alla realtà. Dicevamo all’inizio che il Borbone si è preso molte colpe non sue. Di questo siamo convinti. Il taglio raso con riserve è stato applicato anche quando del Borbone non c’era più traccia, è transitato bel bello nel periodo unitario, del tutto funzionale allo sfruttamento dei boschi meridionali perpetrati dalle grandi imprese di utilizzazioni boschive che si precipitarono sui boschi del meridione fino a tutti gli anni ‘40 dello scorso secolo. E, ci viene da dire, e siamo in buona compagnia, che numerosi dei tagli che venivano definiti, sulle carte, come “tagli successivi”, altro non erano che tagli raso con riserve ([2]).

References

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Gualdi V, Tartarino P (2006b). Alcune riflessioni sulla gestione su basi assestamentali della foresta mediterranea europea. Le fonti delle procedure assestamentali presenti nella legislazione forestale prodotta dal Regno delle due Sicilie nel XIX secolo. L’Italia Forestale e Montana 61 (6): 477-488.
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