Taking care of the Italian forests, we will talk about it at the next SISEF congress
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 19, Pages 49-51 (2022)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0048-019
Published: May 17, 2022 - Copyright © 2022 SISEF
Editorials
Abstract
Italian forests have expanded considerably in recent decades and accumulated much woody biomass. It opens up new horizons in silviculture and forest management. Recently, we heard some calls for an increase in harvests in Italian forests. However, there are some cautions to be considered. In many cases (large areas in the centre-south of the Italian peninsula, for example), Italian forests start from conditions in which the woody biomass stock was very low due to over-exploitation, which lasted many centuries. This makes the path towards ecosystem functionality and safety long and uncertain. The climate crisis also advises against considering the current dynamics of growth and carbon uptake as granted. We recognize that the Italian furniture industry needs wood and that currently almost 80% of this wood is imported from abroad, involving environmental and ethical issues. However, for various reasons (composition, structure, cultivation methods, etc.), the type of wood asked for by furniture manufacturers is scarcely present in Italian forests, and it is unlikely that this will change in the next few years. Therefore, the forecasted increase in harvesting to replace the wood that industries import today from abroad is by no means sure it will be effective. In general, it is necessary to avoid the most simple solutions, which in Italy are often coppice cutting and coppice wood for energy purposes. The recovery from a condition of past degradation and the accumulation of biomass in Italian forests is an opportunity and opens up a vast horizon for innovative forest management and silviculture. Provided we know how to orient ourselves within this horizon and implement a true culture and care of the forest (extensive closeR-to-nature silviculture towards continuity in forest cover, above all), in full respect of the “rights” of the forest, the safeguarding of which guarantees the major benefits that the forest provides to the society.
Keywords
Italy, Forest, Wood, Harvest, Coppice, High-forest, Silviculture
La selvicoltura, quella meritevole di questo nome, è attività per i periodi di pace. In un’economia di guerra, i boschi vengono tagliati in modo indifferenziato, non si fa selvicoltura. È storia nota, di cui c’è documentazione fin dai tempi degli antichi greci, e tracce varie anche da prima. L’epoca in cui visse Aristotele segnò uno dei picchi della filosofia e dell’arte dell’antica Grecia e dell’intera civiltà occidentale, ma non fu così per i boschi. All’alba di quel celebrato quarto secolo, gran parte dei monti dell’Attica era disboscata. A Creta e a Rodi il legname necessario per gli arsenali navali arrivava dal Ponto e dalla Cilicia. Come rischiò poi di essere nella Sassonia di Hans Carl Von Carlowitz, alla fine del diciassettesimo secolo, così accadde nella Grecia di quel tempo: le miniere d’argento non poterono più essere utilizzate per la mancanza di combustibile. I monti della Grecia che ai tempi di Omero fornivano copioso legname ed erano rivestiti di verdi pascoli, erano ormai denudati e isteriliti.
Quali furono le cause? Ce le facciamo dire da Adolfo Di Bérenger che, nel suo trattato di Selvicoltura del 1887, e nella sua prosa piuttosto faticosa, così si esprime: “La cagione di siffatto disertamento si attribuisce: d’una parte alla pessima amministrazione finanziaria durante il governo democratico, e specialmente al sistema degli appalti e all’infedeltà degli impiegati pubblici, sotto i quali si ceduavano e devastavano le selve demaniali (perché ceduare una selva d’alto fusto e disertarla vale quasi lo stesso); dall’altro al barbaro sistema di guerreggiare dei Greci. Conciosiaché, quantunque questi fossero devoti ad una mitologia fondata sull’idea dell’internamento dell’anima immortale nella natura arborea, e quindi attissima ad ispirare il più alto rispetto pelle foreste: tuttavia, il dendrotomein, ossia lo stroncamento degli alberi sul territorio nemico, era di massima generale (come nel medio evo in Italia), tanto che le storie delle loro sempiterne contese e guerre asiatiche ridondavano d’esempi di devastazioni boschive, non meno scellerate di quelle perpetrate dalle legioni romane, da Giulio Cesare a Giuliano l’Apostata (il devastatore delle selve persiane), ed anzi fino a Teodosio il Grande, ecc.”.
Da allora sono state frequenti, nel corso della storia, le occasioni in cui il bosco è stato devastato per necessità belliche. Sui nostri monti, nelle nostre foreste, i segni degli acquartieramenti militari e del passaggio degli eserciti sono ancora visibili.
Si è fatta questa premessa perché la Strategia Forestale Nazionale, da poco licenziata, è stata disegnata per un’economia di pace: come un grande programma da realizzare, nei suoi aspetti più rilevanti, nel medio-lungo periodo, durante il quale si possa dar corso a progetti adattativi, da rivalutare nei risultati e da ridefinire negli obiettivi, se necessario. Progetti che siano affrancati da forti pressioni esterne. Tanto per esser chiari: dalla necessità di tagliare i boschi in modo indifferenziato per produrre quell’energia che ci potrebbe mancare.
Le foreste ricoprono oggi più di un terzo del nostro territorio nazionale (anche se in parte non piccola si tratta di boschi di neo formazione su ex-coltivi o ex-pascoli), e i nostri boschi mostrano un buon tasso di incremento legnoso, dopo tanti secoli di sovra-sfruttamento: incremento che è, all’incirca, tre volte maggiore del prelievo che viene fatto con le utilizzazioni boschive. Per cui si sta accumulando, nei nostri boschi, molto legno.
Da qui derivano inviti ad estendere, alla gestione forestale, termini e strumenti che fino ad ora erano tipici dell’agricoltura: quelli dell’intensificazione sostenibile. Tanto che, si scrive in un documento AISSA (Associazione Italiana delle Società Scientifiche Agrarie): “condizioni realistiche sotto il profilo tecnico-finanziario potrebbero ragionevolmente garantire, nel lungo periodo, un aumento del livello di utilizzazione legnosa dai boschi italiani fino al 50% in più rispetto ad oggi”.
Sotto lo stretto profilo tecnico-finanziario, potrebbe essere possibile. Poi ci sono altre angolazioni da cui si può traguardare, altri punti di vista da considerare, altre dimensioni che la selvicoltura italiana, così virtuosa nei suoi fondamenti ecologici e nel suo carattere sostanzialmente estensivo, ha da tempo acquisito. Che suggeriscono delle cautele.
Una delle quali è determinata dalla storia dei nostri boschi. In molti casi (ampie aree interne e del centro sud-sud della penisola, ad esempio) i boschi accumulano biomassa muovendosi da dotazioni di partenza che rendono ancora lungo e incerto il percorso verso un livello di funzionalità e sicurezza dell’ecosistema. In questi casi l’accumulo in atto suscita più l’idea del risparmio virtuoso che quella della biasimevole immobilizzazione di biomassa legnosa e della necessità di doverne incrementare il prelievo. In questi tempi è poi difficile trascurare la prospettiva imposta dalla crisi climatica, che dissuade dal ritenere come garantite dinamiche di crescita e accumulo di carbonio che scontate invece non sono. Come risulta da svariate ricerche scientifiche che mettono in luce i rischi, per le nostre foreste, legati al cambiamento del clima.
Ci sono, è vero, distretti forestali dove la gestione è stata virtuosa e prudente, dove c’è stato e c’è accumulo di biomassa e dove non si intravedono grosse limitazioni climatico-ambientali. Qui la cura del bosco può ragionevolmente prevedere, nel quadro di una selvicoltura che assecondi i processi naturali, un aumento del prelievo legnoso rispetto al passato.
Ma questa è cosa diversa dal prospettare un aumento di prelievo indifferenziato, ad angolo giro sembrerebbe. Anche sapendo che in selvicoltura (quella degna di questo nome) non si può recuperare in un sol colpo, o in brevi periodi, il tempo perduto, nel caso di boschi da tempo non gestiti o sottoposti a trattamenti estemporanei. E consapevoli che la gestione virtuosa non può restare confinata ai boschi che a vario titolo sono assoggettati a formale tutela o assumono caratteristiche di così alto pregio da essere orgogliosamente mostrati in catalogo, come nel caso dei boschi vetusti.
“L’Italia è uno tra i principali Paesi produttori ed esportatori di mobili a livello mondiale, importa dall’estero quasi l’80% del suo fabbisogno di legna e legname. Dunque, il risparmio nell’utilizzo delle foreste in Italia, oltre ad avere costi economici e anche ecologici, legati al trasporto della materia prima verso il nostro Paese, comporta, direttamente, anche un danno ambientale a scala globale, con ineludibili criticità sotto il profilo etico”, si legge sempre nel documento AISSA.
Concetto più che giusto. Siamo stati fra i primi ad affrontare, una dozzina di anni fa, sul piano teorico e quantitativo, il tema dell’effetto negativo, a scala globale, di politiche di troppo stretta conservazione delle foreste nelle zone temperate del mondo sviluppato, a scapito di quanto avviene in zone meno favorite. Conosciamo bene il punto.
La nostra industria del mobile, di grande qualità e capacità di penetrazione del mercato, ha bisogno di legname. Tuttavia, per svariate ragioni che gli addetti ai lavori ben conoscono (composizione specifica, struttura, modalità colturali, ecc.) non è affatto detto che questa richiesta corrisponda al tipo di legno che si sta accumulando nei nostri boschi. Quindi il prospettato aumento di prelievo non è scontato che finisca a quelle industrie che oggi si approvvigionano oltre confine, e la distorsione etica, che deploriamo, non verrebbe un granché addrizzata. Nel futuro, se si farà un certo tipo di selvicoltura, potrà essere così, ma nel breve periodo è improbabile.
Ai fini di un uso nobile, climaticamente intelligente, dell’accresciuto prelievo legnoso, come si prospetta, un aiuto potrebbe arrivare dal ventaglio, che anche da noi si allarga, di altri prodotti del legno: materiali legnosi per la bio-edilizia, imballaggi innovativi, bio-plastiche, ecc. E tra pochi anni la ricerca (per questi aspetti in gran parte demandata all’industria) svilupperà altri innovativi prodotti.
Ma quanto del prospettato accresciuto prelievo oggi è realistico che prenda questa direzione? Nessuna strategia lo può abbacare. Le filiere virtuose non si formano sulla carta, ma per un incontro, talvolta fortuito e imprevedibile, fra intelligenze imprenditoriali, produttive e di mercato. Per diversi di questi usi (ad esempio per la bio-edilizia) si cercano poi materiali leggeri, durevoli ma strutturalmente efficaci. Quali delle nostre specie hanno queste potenzialità?
E allora? Tutto promettente in prospettiva, ma non presentiamo per facilmente e prontamente spendibile una possibilità che ancora non abbiamo nel portafogli. Non tiriamo “per la fibra” il legno. Non esiste, in questa visuale, il legno; esistono “i legni”, e prodotti derivati con peculiarità e usi specifici diversi. Non usiamo il legno, e i suoi possibili e innovativi molti usi, come bandierina per accettarne di più semplici e immediati, ma problematici sul piano della sostenibilità ambientale, come quello a scopi bioenergetici. È vero, ci sono modi per aumentare anche questa sostenibilità, ma nel breve periodo è difficile che diventino largamente implementati. Mentre non è difficile, nell’immediato, che molto dell’auspicato aumentato prelievo prenda questa direzione, a scapito dell’idea di economia circolare in cui il residuo legnoso da usare per energia rappresenta, in una sbandierata ottica di utilizzo a cascata, solo l’ultima frontiera di utilizzo.
Perché è facile che si prenda questa direzione? Perché il prodotto c’è, come c’è sempre stato: la legna del ceduo, facilmente e prontamente disponibile. In larga parte, l’Italia è ancora il paese del ceduo. Cedui che in molti casi sono molto al di là del turno consuetudinario (e come tali sarebbero da accompagnare con sapienza colturale fuori dal trattamento a ceduo tradizionale), ma che come cedui vengono ancora governati. Sentiamo, talvolta, dire che i cedui non devono essere ceduati, ma devono essere comunque gestiti. Un eufemismo, a esser sinceri: buona parte di questa “gestione” ci pare ancora un semplice taglio raso del ceduo, anche su ampie superfici.
E poco vale, a nostro parere, invocare la compatibilità (o la necessità) del taglio del ceduo con il paesaggio tradizionale, i suoi valori tutelati, ecc. Gli ecologi forestali e i selvicoltori sono stati solitamente restii nell’assecondare posizioni di “fissismo” sul piano naturalistico, privilegiando una visione evoluzionistica della natura. Bene hanno fatto, e fanno. Sarebbe bene, però, non adottare posizioni di “fissismo” anche sul piano paesaggistico, soprattutto se sono strumentali ad altri obbiettivi e, in alcuni casi, ad attività speculative.
Speculazioni che poi non stanno in piedi da sole. Ad esempio, il mercato del cippato di legno (che pure vivacizza alcune zone economicamente marginali) sta in piedi grazie ai sussidi. Non sarebbe opportuno destinare quote di questi sussidi al miglioramento dei cedui fuori turno convertendoli verso fustaie utili in prospettiva per l’industria del mobile? Invece, ci capita di analizzare piani di assestamento forestale in cui si guarda al bosco più come a un deposito di legno che ad un sistema biologico complesso; ci capita di vedere piani di gestione in cui le linee operative si riassumono in “cippato e crediti (cartacei) di carbonio”. E non si tratta, in vari casi, solo di “chiacchere e distintivo”.
Che per tutti questi aspetti ci siano ampi margini di miglioramento, è certo. Si scriveva, non molto tempo addietro, che i boschi italiani hanno bisogno di una selvicoltura d’alto profilo, facendo esplicito riferimento alla selvicoltura di fustaia. La quale, purtroppo, è confinata a pochi distretti forestali. Ed è un rammarico. Perché laddove viene applicata, la nostra selvicoltura di fustaia è portata ad esempio, grazie al suo carattere estensivo e all’attenzione che presta alla diversificazione strutturale e compositiva della foresta. Ponendosi all’avanguardia in Europa per questi aspetti, ritenuti cruciali per avere foreste più resistenti al clima futuro.
Il recupero, in termini di superfici e di accrescimento, rispetto a un passato difficile, e l’accumulo di biomassa nei boschi italiani rappresentano un’occasione importante, aprono vasti orizzonti gestionali. A patto di sapersi orientare, in questi nuovi orizzonti, con scienza e coscienza, senza lasciarsi attrarre da semplicistiche scorciatoie. A patto di saper trasformare le molte conoscenze scientifiche e tecniche di cui disponiamo in un’attività convincente e autorevole sul piano della cura e della cultura del bosco. Nel pieno rispetto dei suoi “diritti”, la cui salvaguardia garantisce i benefici che il bosco offre alla società.
In un’economia di pace. La quale, purtroppo, oggi non è più così garantita.