The impact of scientific research, between challenging predictions and unexpected consequences
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 18, Pages 20-21 (2021)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0056-017
Published: Feb 02, 2021 - Copyright © 2021 SISEF
Editorials
Abstract
We highlight, with the support of a couple of scientific stories, the difficulty of forecasting the impact of scientific research when you are struggling with writing a scientific project. However, sooner or later applications and positive impacts might come by themselves, if high-quality projects and scientists are appointed.
Keywords
All’inizio del pomeriggio di un giorno di fine dicembre, sotto effetto D.P.C.M., sul divano della mia casa di reclusione sulla collina, nei pressi della grande quercia che sorveglia la pianura dove scorre il grande fiume, mi accingo a scrivere il capitolo sugli impatti prevedibili per un nuovo progetto di ricerca, come da compito assegnatomi, forse per la mia condizione di senior scientist, dai colleghi più giovani.
Con le dita sulla tastiera e i pensieri attorcigliati, piuttosto di malavoglia mi impongo di leggere, come di norma faccio solo per un montaggio Ikea, le istruzioni sui criteri di valutazione di questo capitolo. Affronto quindi la pagina in cui ci si dilunga faticosamente sulle “sfide che la ricerca affronta sotto il profilo dell’incidenza sull’innovazione tecnologica, sulle applicazioni industriali, sulla crescita economica ovvero sulla soluzione di problemi sociali, sulla protezione dell’eredità culturale o dell’ambiente, anche con approcci interdisciplinari”, ecc.
È comprensibile, sarete solidali, che davanti al compito così profilato ogni tanto i pensieri divaghino. Così mi torna in mente di quella volta - era forse il giugno del 1989 - in cui, l’uno davanti a una birra e l’altro a un bitter all’arancia, l’amico e maestro Paul G. Jarvis, grande interprete della relazione fra foresta e atmosfera, mi raccontava qualcosa di William (Bill) Swinbank, che lui aveva avuto occasione di conoscere in quel d’Australia negli anni ’60, e che gli ecofisiologi ben conoscono.
Nell’estate del 1940, questo il racconto di Jarvis, Bill Swinbak stava nell’ufficio per le previsioni meteorologiche della Royal Air Force. Fra un dispaccio meteo e l’altro per gli stormi di giovani piloti che bruciavano i giorni/uomo - così si leggerebbe in un odierno modulo di progetto - alla cloche dei loro Spitfires nei cieli della Manica, iniziò ad appassionarsi allo studio del trasporto turbolento nella bassa atmosfera. Finita la guerra, si trasferì in Australia e lì sviluppò e pubblicò la sua teoria sul trasporto verticale di energia e materia nello strato limite, che da allora viene applicata per la misura degli scambi fra vegetazione e atmosfera.
Pur dotato di molta materia grigia e talento, Swinbank non era però una sibilla e non ebbe quindi la ventura di vaticinare gli impatti della sua ricerca. Non poteva prevedere, d’altronde, che ci sarebbero voluti trent’anni, più o meno, perché fosse disponibile la tecnologia in grado di dare pieno senso applicativo alla sua teoria; che circa trent’anni dopo si sarebbe imposto all’attenzione del mondo il tema del cambiamento climatico e gli uomini avrebbero iniziato a chiamare “antropocene” il loro tempo terreno; che il ruolo delle foreste nella mitigazione dell’effetto serra sarebbe stato pienamente riconosciuto grazie alle misure di assorbimento dell’anidride carbonica rese possibili dalla sua teoria; che agli alberi sarebbe stata attribuita una funzione salvifica, con l’ambizioso progetto di piantarne migliaia di milioni in giro per il mondo e l’idea di recuperare un minimo di sorti per gli anni a venire, quanto magnifiche e progressive non è dato invero di sapere, ecc.
Tutti questi accidenti delle umane sorti Swinbank non poté prevederli, e forse il suo spirito ne ebbe pure beneficio. Per completezza, Jarvis mi raccontò di come Swinbank ebbe onori in Australia e in seguito andò in Colorado, dove morì, non si sa se serenamente o meno, ma forse sì perché Trump era ancora inattivo, questo però lo aggiungo io.
Sul divano della casa sulla collina procedo nel compito e a metà pomeriggio sono alle prese con la parte finale del capitolo, che riguarda la comunicazione dei risultati del progetto: “in che modo il progetto propone azioni di disseminazione dei relativi risultati? Quale impatto potrà proiettare sulla comunità scientifica e sulla società alla luce degli obiettivi definiti dal programma quadro di ricerca ed innovazione dell’UE?”, ecc.
E qui è facile svagarsi di nuovo, sarete ancora solidali. All’inizio mi vengono in mente i numerosi seminatori di Van Gogh, ma poi si mette a fuoco soprattutto il ricordo di quella riunione COST, in quel di Salonicco, era forse il 1996, quando il Prof. Dr. Ernst Steudle - gli accademici tedeschi bisogna indicarli con i loro titoli - illustre fisiologo del trasporto xilematico, con cui non avevo familiarità ma cui avevo attaccato un bel bottone e che stava sopportando le mie domande, iniziò a parlarmi di Herr Jorg Schönherr - gli accademici tedeschi si chiamano così fra di loro - il quale fra i suoi alambicchi all’Institut für Botanik und Mikrobiologie dell’Università di Monaco di Baviera aveva fatto ricerche importanti sui cambiamenti di fase della cuticola fogliare ad elevate temperature, e sui loro effetti sulla traspirazione fogliare. Argomento molto importante anche per gli alberi, asseriva Steudle compunto, ma ammetto che allora non avevo afferrato bene il punto. Fatto sta che il Dr. Jorg Schönherr aveva pubblicato studi pionieristici sull’argomento.
Ci metto poco a decifrare le intersezioni mentali per cui si era attivato in me questo ricordo. Da poco tempo era uscito su Science un bell’articolo sulla mortalità degli alberi durante ondate congiunte di siccità e di calore, in cui si documentava come la disfunzione del trasporto idraulico esplodesse a stomi ben chiusi e in cui si proponeva che la causa del collasso fosse da identificarsi in buona parte nell’alterata traspirazione per i cambiamenti di fase della cuticola, in condizioni di alte temperature. Vado a vedere la bibliografia: nessuna traccia dei lavori di Schönherr, l’argomento viene sostenuto appoggiandosi a una review di diversi anni dopo, in cui i lavori originali venivano citati. A questo punto mi viene un’altra curiosità. Avevo letto, pochi giorni prima, un bel lavoro di un brillante ecofisiologo transalpino, pubblicato su bioRχiv, in cui era descritto un interessante modello, presentato con una solida trattazione formale, sul crollo della conducibilità idraulica a temperature elevate. Anche qui si invocava come fattore critico il cambiamento di fase nella struttura della cuticola fogliare. Evidentemente l’ispirazione era venuta dai lavori del Dr. Jorg Schönherr, mi dico. Vado a vedere in bibliografia, ma anche in questo caso nessun riferimento diretto, tuttavia pochi dubbi che le conoscenze di base venissero da lì.
Quindi, rifletto, il talentuoso Dr. Schönherr aveva fatto innovative ricerche sulla fisiologia della cuticola fogliare, ma non poteva certo prevedere che le ondate di calore del global warming avrebbero in seguito dato solido senso ecologico a quegli effetti da alte temperature che lui sperimentava, con notevole ingegno, nel suo laboratorio: conseguenze inaspettate? Serendipity che fa più cool? E per quanto riguarda la disseminazione dei risultati verso i suoi pari, poteva serpeggiare qualche delusione: i bravi colleghi usavano riferimenti indiretti, con buona pace del suo h-index.
Il pomeriggio scorre e devo quindi rassegnarmi ad archiviare le storie di questi uomini di scienza, per ultimare lo scritto sui prevedibili impatti delle ricerche del nuovo progetto. Giunto alfine in fondo al capitolo, diligentemente redatto secondo i canoni prescritti, riscuoto l’apprezzamento, almeno apparente, dei più giovani colleghi: con i quali dissimulo le divagazioni nel tempo che fu, mentre condivido gli auspici e i pronostici per le ricerche nel tempo che verrà.
Con il senso di soddisfazione che ogni lavoro svolto procura, nel tardo pomeriggio, sul divano della casa sulla collina, è quasi inevitabile che il sonno abbia per un poco la meglio. E nel breve sopore che mi prende, da diligente aruspice, un lieve solco si forma sul mio viso, come una specie di sorriso.