Basilicata, land of forests and forest studies
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 17, Pages 1-16 (2020)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0062-017
Published: Jan 08, 2020 - Copyright © 2020 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
Basilicata, a land of forests and home to a Forest Sciences university program. We talk about the launch, in the eighties, of the higher education program in Forest Sciences at the University of Basilicata, in Southern Italy. Basilicata is a land of beautiful forests that have undergone great manipulation over time. We shortly describe their history in the last two centuries, and talk about some scholars who studied these forests in the postwar period until the early eighties. Afterwards, we recall the early years of Forest Sciences courses at the University of Basilicata. In a separate box, we deal with the possibility to restore the mixed silver fir/beech forest in the mountains of Basilicata: we address the ways in which silver fir natural regeneration can be promoted, where this species is still present; and the reasons and know-how for reintroducing it, where silver fir is no longer present.
Keywords
University, Potenza, Deforestation, Silver fir, Mixed forests, Restoration
Le ragioni di un racconto
Nell’università di solito scriviamo per rendere noti i risultati delle nostre ricerche, più raramente dedichiamo del tempo a descrivere il nostro ambiente accademico e a ripercorrerne la storia, piccola o grande che sia. Da quasi trent’anni siamo docenti di discipline forestali nell’Università della Basilicata a Potenza: l’abbiamo conosciuta nelle sue prime fasi e ne abbiamo vissuto i cambiamenti. Non ci è parsa quindi bizzarra l’idea di trasformare la memoria in uno scritto che, senza la pretesa di ricostruire un cammino scientifico, rievocasse gli esordi dei corsi forestali in Basilicata e il contesto culturale in cui si svilupparono, mettendo a fuoco persone e fatti che potessero suscitare qualche interesse anche oltre il ricordo personale.
Consapevoli del rischio di questo esercizio - essere tacciati di localismo e/o di narrare storielle materiali di scarso interesse - abbiamo inserito il racconto in un contesto minimo, scrivendo di qualche vicenda che ha riguardato in passato i boschi lucani, di qualcuno che li ha studiati prima di noi, e anche di una tematica che riteniamo meritevole di attenzione: quella della ricostituzione del bosco misto con abete bianco nella foresta montana.
Poi, è vero, abbiamo scritto - con tono a tratti scanzonato - di persone e di cose che a molti diranno poco, di colleghi che abbiamo incrociato quasi di sfuggita, e abbiamo perfino ricordato qualche aspetto minutamente organizzativo dei primi tempi. Pensiamo, d’altra parte, che l’avvio della nostra università sia rappresentativo anche di altri esordi accademici in Italia, paese originale per queste cose, e forse qualche collega ritroverà analogie, al di là della diversa geografia. Così come pensiamo che le persone che hanno collaborato nelle prime fasi dell’università - anche per poco tempo, anche senza approdare in seguito a ruoli accademici stabili - siano meritevoli di un ricordo.
Proponiamo questo racconto come un piccolo omaggio: alla nostra università, alle persone che l’hanno fatta nascere, a quelle che vi hanno lavorato prima di noi e ora sono da un’altra parte, ai nostri studenti di ieri e di adesso, a chi ci ha regalato il suo ricordo, ai boschi della Basilicata. Non ce ne vorranno gli attuali colleghi se non parliamo di loro e della situazione odierna: per avere informazioni sulle cose di oggi basta un clic.
Il fremito della terra
Quel fremito che scuote la terra il 23 novembre 1980 segna emblematicamente la nascita dell’Università della Basilicata. L’epigrafe su marmo (Fig. 1) voluta dal Rettore Fonseca in occasione della visita del Presidente Pertini, esposta all’ingresso dell’Aula Magna nella sede di via Nazario Sauro a Potenza, coniuga il dramma con le ragioni per un nuovo inizio e, idealmente, trasforma in stemma lo stigma di quell’evento drammatico, che separò il prima dal dopo per la gente lucana.
Fig. 1 - L’epigrafe posta all’ingresso dell’Aula Magna dell’Università della Basilicata, in via Nazario Sauro a Potenza, che ricorda la proclamazione, da parte del Rettore Fonseca, dell’inizio delle attività accademiche, al cospetto del Presidente Pertini. Da notare la data con il completamento dell’anno in forma additiva, canone classico ripreso in età rinascimentale.
Come spesso avviene in Italia, fu la situazione emergenziale - nei fatti la legge per la ricostruzione post-terremoto n. 219 del 14 maggio 1981 - a determinare l’avvio ufficiale dell’ateneo nell’anno accademico 1982/83. Già nel decennio precedente, tuttavia, durante gli anni ’70, andavano maturando i progetti di personalità politiche illuminate, che posero le basi per la nascita dell’università.
Furono gli anni che videro alla guida dell’amministrazione regionale l’aviglianese Vincenzo Verrastro, la cui azione fu genuinamente orientata allo sviluppo della sua terra: Verrastro desiderava che la Basilicata non fosse più “terra di mezzo”, ma raccordo fra regioni contermini, e che la sua gente non fosse più emarginata, ma avesse garantita una prospettiva di sviluppo economico e integrazione culturale. È in questo clima politico che si sviluppa il progetto dell’ateneo lucano, che vide il coinvolgimento di personalità come quella di Decio Scardaccione, padre della riforma agraria nel meridione, e il supporto di un leader politico della statura di Emilio Colombo.
Il corso di laurea in Scienze Forestali fu previsto fin dall’istituzione dell’ateneo, a riconoscimento della vocazione forestale del territorio e dell’interesse a formare delle professionalità in grado di affrontarne gli aspetti gestionali. La validità della scelta di allora è pienamente confermata dalla situazione odierna, vista la grande importanza che le discipline forestali hanno assunto per la conservazione e la gestione dell’ambiente, nel riconoscimento del cambiamento climatico e del ruolo di mitigazione esercitato dai sistemi forestali. L’avvio dei corsi forestali si inseriva, idealmente, anche nel solco tracciato da studiosi che ai boschi lucani avevano dedicato il loro interesse e fu facilitata da un significativo precedente accademico: su entrambe le cose ci soffermiamo nel seguito.
Ma diamo ordine al racconto. Sia pur per sommi capi, seguiamo i boschi lucani nelle loro vicissitudini storiche a partire dall’ottocento e fino al dopoguerra, e cerchiamo di capire perché sono, per diversi aspetti, significativi e hanno richiamato l’interesse di svariati studiosi. Ma non solo il loro: anche quello di agguerrite imprese di utilizzazione boschiva. Pure questa è una vicenda che merita di essere rievocata.
Terra di boschi e disboscamenti
È terra di bei boschi la Basilicata, meritevoli di cura e di studio, nella consapevolezza che nel corso del tempo sono stati protagonisti di grandi trasformazioni, distruzioni e manipolazioni.
Alla fine degli scorsi anni cinquanta, un giovane assistente alla cattedra di geografia dell’Università di Heidelberg, Franz Tichy, conseguì l’abilitazione alla docenza presentando una dissertazione con titolo che in italiano faceva così: “Le foreste della Basilicata e la deforestazione nel XIX secolo. Processi, cause e conseguenze” ([70]). Fin dai primi anni del secolo era noto che la Basilicata rappresentava uno dei casi più emblematici del disboscamento post-unitario nel mezzogiorno d’Italia ([13]). La tesi di Tichy ne fornisce efficace documentazione e analisi ed è un peccato che del lavoro non sia stata fatta una traduzione in italiano.
Facendo riferimento al periodo 1850-1950, Tichy (tab. 4, pag. 41) stima per la Basilicata una perdita di superficie boscata di circa un terzo, dai 236.322 ha del 1850 ai 160.813 ha del 1950. Ma come andarono le cose? Fu così per tutti i boschi? La loro distruzione avvenne con regolarità nel corso del tempo? È sempre ardito cercare una chiave di lettura semplice per vicende complesse che avvennero su periodi lunghi in variegate situazioni socio-politiche e ambientali, ma grosso modo possiamo raccontare le vicende così come segue.
I boschi di collina e bassa montagna, vicini agli abitati o comunque facilmente accessibili, furono manipolati intensamente, o completamente eliminati per dissodamento, per tutto l’ottocento e anche oltre. La causa fu, in massima parte, il soddisfacimento dei bisogni primari della popolazione: bisogno di legno come fonte di energia e come materiale da lavoro, necessità di spazi per le colture, l’allevamento e il pascolo. Quindi, esigenze diffuse sul territorio, legate a necessità fondamentali per la sopravvivenza delle comunità nel quadro di un’economia in buona parte ancora di sussistenza, sebbene la richiesta di mettere a coltura le terre e di aumentare la produzione cerealicola rispondesse anche alle esigenze alimentari di una popolazione in crescita, come succedeva nella Napoli capitale della prima metà dell’ottocento ([53]).
Gli attori e le modalità di questi processi di manipolazione e distruzione cambiarono in funzione dei rivolgimenti di regime, dei provvedimenti legislativi, del quadro della proprietà, dei diritti d’uso da parte della comunità, ecc. Tutto cambiava nel tempo tranne il destino del bosco, che procedeva sempre in una direzione, quello della sua progressiva distruzione. E il tasso di manipolazione dei boschi e disboscamento non fu minore nei decenni post-unitari rispetto al periodo della restaurazione borbonica.
Ma facciamo un piccolo passo indietro, iniziamo dal periodo della dominazione francese su Napoli (1806-1815). Fra le varie leggi d’ispirazione rivoluzionaria, che in diversi casi rappresentarono occasioni di progresso economico e sociale, nel 1806 fu emanato il provvedimento di eversione della feudalità con incameramento nel demanio pubblico dei fondi ecclesiastici ed ex-feudali. Per il bosco non fu un bene: queste terre passarono in parte ai Comuni e in parte ai privati, con il risultato che spesso il bosco fu eliminato e i terreni dissodati e messi a coltura.
Il periodo napoleonico non durò a lungo, nel 1816 fu restaurata la monarchia borbonica e molti terreni vennero restituiti alla chiesa e ai vecchi proprietari. La feudalità non fu ripristinata, ma non venne riconosciuto il precedente diritto di pascolo, legnatico e semina, in pratica venne interdetto l’uso del bosco in regime di campo aperto come era diffusa tradizione un po’ in tutto il mezzogiorno. La riduzione degli usi civici non fu sostanzialmente bilanciata dall’assegnazione di terre: la conseguenza fu che continuò il massiccio attacco ai boschi che erano stati oggetto di assegnazione, per soddisfare le necessità di base, per le colture e l’allevamento (vedi [1] per un quadro di carattere generale).
Tichy ([70]) riporta che i dissodamenti approvati in Basilicata per la messa a coltura fra il 1831 e il 1861 ammontarono a circa 10.000 ha. Casi di attacco ai boschi in cui il risultato fu la loro profonda alterazione o completa sostituzione con coltivi e pascoli sono descritti in documenti d’archivio presentati da Nolè et al. ([43]): nel territorio di Laurenzana, nel 1842, l’ex-feudatario chiese l’abbattimento di migliaia di abeti di grosse dimensioni; nel 1858 il sindaco procedette a forti tagli per la necessità di materiale da costruzione dopo il disastroso terremoto del 15 dicembre 1857. Quest’ultimo evento fu ben documentato da una spedizione della Royal Society guidata dal famoso sismologo Robert Mallet.
Breve digressione. Quando si parla di utilizzazioni dei boschi del meridione, si tira frequentemente in ballo la legge emanata dal governo di Francesco I il primo di agosto 1826 ([25]). Fu una delle prime leggi forestali, ed ebbe aspetti contraddittori: da un lato mirava alla classificazione e al censimento dei boschi (anche a fini fiscali, tanto che molti comuni occultarono i propri possedimenti boschivi per evitare l’imposta fondiaria); dall’altro, mentre proteggeva le proprietà reali e nobiliari destinate alla caccia, proibiva in quelle comunali il taglio a scelta; in queste imponeva il taglio raso, con l’avvertenza di rilasciare 60 alberi da seme per ettaro come riserve, vietando il pascolo dopo il taglio per garantire la rinnovazione.
Sicuramente la legge conteneva aspetti nuovi per i tempi, come il concetto, poi ripreso nella legislazione unitaria, che “il diritto di proprietà, cioè l’uso, che dei suoi beni un privato può fare, è, per principio, di pubblica utilità, ossia di ragion pubblica, intrinsecamente soggetto alla condizione di esercitarsi senza nuocere ad altri”, e mirava a porre freno al dissodamento incontrollato dei versanti montani, attuato per estendere la coltivazione dei cereali, che stava causando disastrose alluvioni. Nell’attuazione pratica, negli effetti sui boschi, sul piano colturale, l’attuazione del taglio raso con riserve (il cosiddetto taglio “borbonico”) ebbe spesso effetti negativi. Nella legge le riserve da lasciare al momento del taglio venivano definite “piante per seme o di speranza”, nella realtà le piante rilasciate furono spesso scelte fra quelle meno adatte a far sì che questa speranza potesse essere coltivata, e gli effetti di questi tagli con il rilascio dei “peggiori” ancora si vedono. Soprattutto negativi furono gli effetti per le faggete e i querceti mesofili dei versanti meridionali, che in seguito a questo tipo di trattamento si fecero rarefatti o in alcuni casi sparirono: in ambiente mediterraneo la drastica e repentina interruzione della copertura apre infatti la strada a un forte peggioramento del bilancio idrico stazionale e a forti regressi di fertilità che possono portare a crisi irreversibili delle specie più esigenti (vedi [57] per una discussione sulle faggete campane e lucane). Le conseguenze di questa modalità di trattamento si fecero sentire anche nel periodo unitario; quando, a cavallo fra ottocento e novecento, iniziarono i massicci attacchi ai boschi meridionali più remoti, da parte di agguerrite imprese esterne, e spesso si adottò il taglio “borbonico” in modo indiscriminato.
Per i boschi della Basilicata, e del meridione in genere, la situazione non migliorò nel periodo post-unitario, dopo il 1861, anzi le cose peggiorarono. Fatto decisivo al riguardo fu l’emanazione, durante il governo Depretis, della prima legge forestale unitaria (la n. 3917 del 20 giugno 1877), promossa da Salvatore Maiorana Calatabiano, al tempo ministro per l’Agricoltura, l’Industria e il Commercio. Da ricordare il fatto che la legge fu molto dibattuta: l’allora Direttore del Regio Istituto Forestale di Vallombrosa, Alfonso di Bérenger, fu collocato anticipatamente a riposo per aver espresso la sua contrarietà.
In sintesi, il provvedimento imponeva il vincolo forestale ma solo dal piano dei castagneti in su, liberalizzando l’uso del suolo e le attività economiche nelle altre zone. Qualche anno prima, nel 1867, era stata emanata la legge di confisca dei beni religiosi, che furono incamerati nel demanio e poi in buona parte venduti ai Comuni e ai privati. La concomitanza di questi provvedimenti aprì la strada a vasti disboscamenti, soprattutto nel meridione. De Dominicis ([13]) stima che a livello italiano la distruzione dei boschi fu del 45%, come effetto dello svincolo stabilito dalla legge del 1877, e testualmente scrive “i boschi con il nuovo regno trapassavano ai privati e ai comuni che dei privati dovevano essere peggiori amministratori per evitare il jugulamento dei loro bilanci”. Vanamente l’ex primo ministro Luigi Menabrea aveva raccomandato, soprattutto per l’Italia meridionale, l’esclusione dei boschi dalla vendita demaniale.
Tichy ([70]) riporta che oltre 15.000 ettari di bosco furono disboscati in Basilicata nel periodo 1862-1880, in buona parte per la quotizzazione delle aree demaniali. Secondo i dati dell’Ispettorato forestale di allora, nel 1870 in Basilicata c’erano 196.890 ha di bosco (22.443 ha dello Stato, 106.283 ha dei Comuni, 68.163 ha dei privati), nel 1909 i boschi erano ridotti a 180.000 ha; complessivamente una riduzione di circa 56.000 ha rispetto al 1850 ([13], [70]). Sicuramente alla vendita della proprietà demaniale si accompagnò una trasformazione della struttura sociale, in particolare ebbe luogo una forte ascesa della borghesia terriera ([53]).
A partire dal nuovo secolo, con la legge speciale per la Basilicata n. 140 del 31 marzo 1904, furono messi maggiori vincoli ai boschi, stabilendo norme per la conservazione dei boschi esistenti e per i rimboschimenti. La legge sul demanio forestale del 1910 e la successiva legislazione unitaria, su cui qui non ci diffondiamo, impressero una svolta alla politica forestale italiana sul piano della protezione del bosco e della protezione idrogeologica attraverso il rimboschimento. Tuttavia, in Basilicata come nel meridione in genere, gli effetti di queste nuove politiche tardarono a venire, più che altrove. Ci furono anzi nuove ondate di disboscamento, alcune legate all’aumento della popolazione rurale nel primo dopoguerra, altre alle politiche autarchiche del periodo fascista, come la “battaglia del grano”, che portarono a un notevole ampliamento delle aree coltivate a cereali (solo dal 1927 al 1930, un incremento di 37.000 ha), spesso a scapito del bosco. Fra il 1930 e il 1950, periodo di crescita demografica ed espansione agricola, in Basilicata scomparve fra il 15 e il 20 percento del bosco rimanente ([23], [41]).
Questa, molto in sintesi, la storia del bosco nelle aree collinari e montane più facilmente servite, fino al dopoguerra. In queste zone il mantenimento di una economia a decisa impronta agricola, il forte radicamento della tradizione pastorale e dell’allevamento, le necessità economiche dei Comuni, principali proprietari boschivi, ecc. faranno sì che in Basilicata la pressione sui boschi e l’ambiente naturale rimanga elevata fino a tempi recenti e che alcuni processi (come le ridiffusione del bosco sui terreni abbandonati dall’agricoltura e dal pascolo) si siano verificati in misura minore rispetto ad altre zone interne del nostro paese. Per il persistere di questi aspetti della cultura tradizionale, in cui l’idea del regime di bosco aperto non è ancora del tutto svanita, qualsiasi proposta di gestione forestale e di tutela ambientale non può prescindere da processi di concertazione con le comunità, necessari per evitare manifestazioni di riottosità e protesta come quelle che, occasionalmente, si sono verificate in passato (Fig. 2).
Fig. 2 - Uno degli autori davanti al grande albero di pino loricato bruciato alla Gran Porta del Pollino nell’ottobre del 1993. La foto è dell’estate 1995, quando l’albero crollò. Si trattò di un episodio di vandalismo, da collegare ad atteggiamenti di ribellione e protesta nei confronti del Parco Nazionale da poco istituito ([36]). Oggi tutto è cambiato, migliaia di visitatori, italiani e stranieri, arrivano nel Parco del Pollino con beneficio e soddisfazione di quasi tutti (foto: Antonio Saracino).
Abbastanza diversa fu la storia dei boschi delle zone più aspre della montagna, remote e di assai difficile accesso, dove molte foreste rimasero esenti, fino alla fine dell’ottocento, dalle pesanti distruzioni di cui abbiamo parlato prima. Si tratta di una situazione che riguarda molti boschi del meridione: un buon esempio è fornito da quelli del massiccio del Pollino, fra Basilicata e Calabria.
Preziosa testimonianza della condizione dei boschi sul Pollino nell’ottocento sono le esplorazioni condotte nel 1826 dal botanico napoletano Michele Tenore ([46]), e le successive escursioni compiute verso la fine del secolo da altri naturalisti e viaggiatori ([7], [8], [69]): concordi sono i resoconti, che riferiscono di foreste ancora fitte, selvagge, difficili da percorrere, con alberi colossali e con molte specie (aceri, tigli, tassi, frassini, ecc.) rappresentate da individui di grandi dimensioni.
Non che si trattasse di foreste “vergini”, è bene intendersi. Diverse faggete erano tenute a ceduo per la produzione del carbone: aie carbonili sono riconoscibile ancora un po’ dappertutto e non è difficile imbattersi nei resti delle “carcare”, vecchi forni a legno in muratura usati per la produzione della calce ([39], [71]). Erano comunque boschi con elevata biomassa, plurispecifici, a struttura complessa, nell’insieme poco manipolati.
Agli inizi del nuovo secolo, l’aristocratico inglese Norman Douglas, che nel 1907 compie un lungo viaggio in Basilicata e Calabria e visita le stesse foreste che i botanici napoletani avevano esplorato e descritto 70 anni prima, presagisce tuttavia che qualcosa sta cambiando e avverte: “si affretti chi abbia voglia di godersi questi paesaggi selvosi, prima che scompaiano dalla faccia della terra” ([15]).
Cosa stava cambiando? Un po’ tutto. A cavallo fra XIX e XX secolo ci si trova nel pieno della seconda rivoluzione industriale: nuove fonti di energia e innovazioni tecnologiche, grande aumento della produzione industriale, sviluppo dei sistemi di comunicazione e trasporto, ecc. In Italia si sta procedendo alla costruzione della rete ferroviaria, inizia un periodo di grande richiesta di legname per traverse (Fig. 3). E alcune agguerrite imprese, dotate di adeguata organizzazione e in grado di dispiegare la necessaria tecnologia (ferrovie portatili Decauville, locomotive a vapore, teleferiche, ecc.), si accorgono che i remoti boschi di montagna dell’Italia meridionale possono diventare una miniera d’oro.
Fig. 3 - Deposito di traverse ferroviarie della ditta Palombaro, per molti anni una delle maggiori ditte di utilizzazioni boschive in Italia. Siamo nel piazzale della stazione di Avellino a fine agosto del 1949, le grandi utilizzazioni nei boschi del meridione procedono ancora speditamente. Più del 30% delle traverse ferroviarie venivano poi impregnate con il metodo Rueping che, alternando pressione e vuoto, faceva sì che solo la parete del condotto xilematico, ma non lo spazio interno, venisse impregnato con il creosoto, il cui uso era quindi economizzato ([57] - foto: Archivio Ditta Palombaro).
Sono sempre i boschi del Pollino a fornire un esempio di quanto stava accadendo, ed è poi realmente accaduto, anche in diverse altre zone del meridione. Nel 1910, la società italo-tedesca Rueping, già nota per aver brevettato un redditizio sistema di impregnazione del legname ([57]), fece dei contratti con i Comuni proprietari dei boschi e iniziò lo sfruttamento dei grandi patrimoni forestali della zona. La storia di quelle utilizzazioni, dell’organizzazione dei cantieri, delle modalità di esbosco, del loro impatto sulle condizioni socio-economiche della gente del posto - che vide spesso nel cantiere forestale l’alternativa all’emigrazione - è stata descritta con dovizia di particolari e documentazione fotografica ([39], [58]), e qui non ci torniamo su. Ci limitiamo a mettere in evidenza che questi aspetti vengono oggi opportunamente, e con efficacia, valorizzati nell’ambito di una fruizione turistica attenta alla storia e alle tradizioni colturali ([59]).
In molti casi queste estese utilizzazioni - alla Rueping succedettero poi altre imprese, come la ditta Palombaro - consistettero in forme di taglio a raso di tipo “borbonico”, ma con rilascio delle sole piante scadenti da un punto di vista tecnologico ([17]). Giusto un riferimento: secondo quanto riportato da Pierangeli et al. ([48]) su un’area di circa 2.000 ettari di boschi del Pollino, dal 1904 al 1964 furono tagliate circa 115 mila piante di grandi o grandissime dimensioni (Fig. 4). Azzardiamo una stima grossolana. Assumiamo per questi grandi alberi d1.3 = 1 m e, sulla base della curva ipso-diametrica presentata da Scrinzi et al. ([62]), h = 25 m; applicando l’equazione di cubatura del faggio (fusto e grossi rami) riportata da Tabacchi et al. ([68]), con i dati di utilizzazione di cui sopra si arriva a stimare un prelievo di 9.3 m3 ha-1 anno-1, ampiamente superiore ai valori di incremento corrente riportati, per le faggete, dall’ultimo inventario forestale nazionale ([30]); senza contare che sicuramente oltre a queste piante ne furono asportate di minori dimensioni, che spesso il bosco era gravato da usi civici, ecc. ([17]). Dagli anni ’70 in poi la gestione cambiò indirizzo, e prevalsero interventi più prudenti, e poi strategie di tutela, con l’istituzione del Parco Nazionale.
Fig. 4 - Utilizzazioni di grandi alberi nei boschi di montagna della Basilicata; siamo nel bosco di Francavilla sul Sinni a fine settembre del 1939; l’albero visibile nel pannello superiore è probabilmente un faggio con legno a “cuore bagnato” o durame rosso ([32]): non era un grosso difetto nel caso si facessero traverse ferroviarie, l’impregnazione con il creosoto poteva però essere più difficoltosa (A. Saracino, comunicazione personale - foto: Archivio Ditta Palombaro).
Sicuramente, quindi, anche i boschi più remoti subirono, a partire da inizio novecento, una drastica semplificazione in termini di composizione (rarefazione dell’abete bianco, dell’olmo e del tiglio montano, dei grandi aceri, del frassino maggiore, del tasso, ecc.) e struttura, e una riduzione in termini di consistenza. Da riconoscere, peraltro, il buon grado di resilienza di queste foreste: pur alterate nelle loro caratteristiche, dopo alcuni decenni da quei drastici interventi, nella maggior parte dei casi si rivelano oggi in condizioni di svolgere in modo efficiente le multiple funzioni che si richiedono agli ecosistemi forestali, compresa quella produttiva ([4]).
Studiosi nei boschi della Basilicata
Il panorama che si presenta agli studiosi e ai tecnici forestali che si affacciano in Basilicata a partire dal dopoguerra è quindi quello di boschi certamente assai manipolati ma che presentano anche aspetti peculiari, in cui si intravvedono potenzialità di recupero della naturalità originaria. Oppure di situazioni che richiedono impegno per mettere riparo a stati di dissesto.
In questo capitolo non ci occupiamo delle numerose opere di rimboschimento e sistemazione idraulica messe in atto nel corso del tempo per cercare di porre riparo alle gravi situazioni di dissesto di molti versanti, in seguito ai processi di disboscamento di cui abbiamo parlato prima, e anche di gravi eventi alluvionali. Ricordiamo solo, a tal proposito, le pregevoli opere di sistemazione e rimboschimento dirette da Salvatore Puglisi, a lungo docente dell’Università di Bari, in varie località della Basilicata e in particolare nella valle del Basento.
Ci limitiamo qui a parlare di qualche studioso che si è occupato in modo specifico di selvicoltura nei boschi della Basilicata, in un certo modo anticipando, e in parte accompagnando, quelle che saranno le attività di studio universitarie.
Ha avuto queste caratteristiche l’azione di Lucio Susmel, illustre ecologo e selvicoltore, fondatore della scuola forestale nell’Università di Padova. Fin dagli anni del dopoguerra Susmel si prodigò per una selvicoltura ad approccio naturalistico che mirasse al ripristino delle caratteristiche biologiche e funzionali degli ecosistemi forestali, fortemente alterati da secoli di forte sfruttamento; e non tardò ad estendere il suo interesse scientifico e professionale dai boschi alpini a quelli dell’Appennino meridionale ([64]).
Uno dei lavori più noti di Susmel è quello condotto sulle faggete di Corleto Monforte, sui monti Alburni in provincia di Salerno ([65]). La pubblicazione è stata molto citata e dibattuta. Malgrado le ampie discussioni, non tutti sanno che in questo lavoro Susmel fa ampio riferimento alla faggeta di Muro Lucano in Basilicata, da lui assunta come interessante esempio di bosco naturaliforme a struttura pluristratificata; in particolare, Susmel ha utilizzato la curva di ripartizione degli alberi per classi diametriche (figura 43 in [65]), ricavata nel bosco di Muro Lucano, per corroborare la sua proposta di riordinamento strutturale su basi bio-ecologiche. Altri tempi, dirà il lettore, quando si utilizzavano modelli strutturali per fare proposte colturali. Adesso gli schematismi hanno perso d’interesse nella nostra selvicoltura, ma al di là di questo aspetto, l’idea di Susmel di favorire nella faggeta una struttura diversificata attraverso trattamenti di rinnovazione su piccole superfici, prendendo le distanze dagli schemi classici del trattamento a tagli successivi, ebbe carattere di novità per la selvicoltura italiana. Pur senza esplicito riferimento al lavoro di Susmel a Corleto Monforte, recenti lavori sulle faggete meridionale ([10]) concordano, di fatto, sugli obbiettivi della disomogeneità e della diversificazione strutturale e mettono in luce come questi possano essere raggiunti attraverso la creazione di ripetute e modeste discontinuità di copertura. Interessante anche la nota sul valore della produzione legnosa nella faggeta pluristratificata di Muro Lucano, basata su apprezzamenti fatti dalla ditta Feltrinelli: scrive testualmente Susmel “il legname qui prodotto è superiore per qualità e forma a quello delle faggete viciniori e comprende altresì una frazione più elevata di assortimenti da trancia”.
Altra idea che Susmel perseguì tenacemente in Basilicata fu quella della ricostituzione del bosco misto con abete bianco. A Laurenzana, dove l’abete bianco si consorzia con cerro e faggio, predispose il piano economico dando indicazioni colturali mirate a ricreare le condizioni favorevoli alla rinnovazione naturale e a ripristinare la struttura disetanea, attraverso l’applicazione di tagli saltuari a gruppi, tagli a buche, tagli di sgombero di piante mature sovrastanti zone di rinnovazione affermata, ecc. ([66]); successivamente estese le sue proposte alle faggete della fascia montana ([67]).
In pensione fin dalla metà degli anni ’80, Lucio Susmel incrocia ancora la Basilicata nell’ottobre del 2003, forse per l’ultima volta. Il fatto merita di essere ricordato. L’occasione la offre il IV congresso della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia forestale (SISEF) organizzato a Rifreddo (Potenza), cui il prof. Susmel viene invitato come destinatario di un premio per la sua lunga e prestigiosa carriera scientifica. Val la pena di rievocare l’episodio: in seduta plenaria, aula gremita, il Presidente del Consiglio Regionale ha l’incarico di consegnare il premio, Susmel siede attento in prima fila. Il Presidente, forse ingannato dalla data di nascita riportata sul rituale foglietto promemoria, inizia un’orazione ispirata che prende una piega scivolosa: viene presto a suonare come laudatio in memoriam (mancava solo Chariots of Fire come sottofondo) e tutti si rendono conto che il premiando è stato frettolosamente collocato nel mondo dei più. Momento assai imbarazzante, ma è il vecchio professore che risolve da par suo: si alza, dà piena dimostrazione di vitalità e, con fare disinvolto, ritira il premio. Chapeau! Prof. Susmel: questa volta, per davvero, alla memoria.
A Susmel e alle sue idee va ricondotto il lavoro scientifico e operativo del suo allievo Andrea Famiglietti, docente e tecnico che in Basilicata svolse un’intensa attività (Fig. 5). Rimandando allo scritto di Pierangeli ([47]) per una sua presentazione a tutto campo, qui ricordiamo che Famiglietti fu convinto propugnatore dell’impostazione colturale del suo Maestro e che applicò tali idee nella predisposizione dei piani di assestamento di numerose proprietà comunali in Basilicata, promuovendosi certamente bene sul piano professionale. Come Susmel, fu un sostenitore della ricostituzione del bosco misto con abete bianco, nell’ambito della faggeta montana, e si impegnò anche in concreti interventi di reintroduzione, per certi aspetti un po’ garibaldini ([18]); non si può tuttavia disconoscere l’elemento innovativo e di attualità di questa proposta, che condividiamo e cui dedichiamo un approfondimento (Box 1).
Fig. 5 - Giugno 1994, sopra Terranova di Pollino, durante un’esercitazione didattica. Il prof. Andrea Famiglietti con alcuni docenti di Potenza. Da sinistra nell’ordine: Domenico (Mimmo) Pierangeli, Nicola Moretti, Andrea Famiglietti, Marco Borghetti, Agostino Ferrara, Stefano Quartulli (foto: Antonio Saracino).
Tutto sommato, il contributo più originale e duraturo di Famiglietti ci pare quello scaturito dalla sua lunga collaborazione con un valente botanico svizzero: Emil Schmidt, cui si deve il concetto di cingolo vegetazionale ([61]). Tramite Susmel, conosce Famiglietti e insieme a lui, negli anni ’60 compie un’approfondita valutazione delle fitocenosi lucane, definendone caratteristiche e distribuzioni; il lavoro che ne è scaturito ([16]) continua ad essere un riferimento sul piano scientifico e operativo.
Famiglietti era estroverso e di trascinante simpatia. Emil Schmidt non era da meno, stando ai racconti dei vecchi forestali che lo hanno incontrato. I bagni nei torrenti di montagna, e i banchetti nelle dimore lucane, allietarono spesso le escursioni e le serate dei due colleghi e amici.
La sezione Potenza-Basilicata dell’Istituto di Selvicoltura di Bari
“Caro Marco, purtroppo il terremoto del 23 novembre 1980 ha distrutto la documentazione del lavoro compiuto a Lagopesole con la collaborazione del dott. Margiotta. Quando sono andato a Potenza, il giorno dopo, e ho visto la sede dell’Ispettorato praticamente priva di scale, mi è venuto un colpo. Per fortuna le persone si erano salvate e un forestale, coperto di polvere dalla testa ai piedi, mi è venuto incontro, dicendo: «Professore stia tranquillo, le riviste ed i libri del suo Istituto li abbiamo trasportati in garage»”.
Così, con amichevole cortesia, ci scrive Ervedo Giordano, per decenni grande protagonista delle scienze forestali italiane. Quando, nel 1975, assunse la direzione dell’Istituto di Selvicoltura dell’Università di Bari, il prof. Giordano stabilì presto un contatto, per le esercitazioni degli studenti, con il dott. Domenico Margiotta, allora Capo dell’Ispettorato Regionale della Basilicata: questi con grande disponibilità si fece carico di ospitarli presso il vivaio di Lagopesole, vicino a Potenza. Ricorda ancora Giordano: “A Lagopesole, presso il vivaio dell’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, si utilizzava la struttura, stanze e cucina, dell’Istituto Tecnico Agrario. I docenti delle varie discipline dormivano in albergo a Potenza, mentre gli ispettori forestali e in particolare il dott. Voinar, funzionario di elevata preparazione scientifica, successivamente trasferito a Milano, curavano le escursioni in diverse località... Oltre all’uso del vivaio, il dott. Margiotta era riuscito a fare completare un fabbricato di due piani, finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno e da anni abbandonato, comprendente aule, laboratori, biblioteca, stanze per gli studenti e i docenti, mensa, magazzini ecc. Non solo, ma in attesa di disporre della biblioteca, aveva provveduto agli abbonamenti alle principali riviste forestali, che avevano trovato sede temporanea presso l’Ispettorato a Potenza, a disposizione di docenti e studenti. Il dott. Margiotta era un uomo di grande generosità, parlava poco ma realizzava molto e io lo ricordo con grande ammirazione. Quando dopo il terremoto ci siamo abbracciati e io gli ho riferito: «A Lagopesole è crollato tutto» mi ha risposto: «Scusami, non posso fermarmi, perché la gente non sa come proteggersi dal freddo, ma non ti preoccupare, ricominceremo di nuovo»”.
Questo rapporto con la Basilicata, nato per le necessità legate alle esercitazioni, si concretizzò poi nella costituzione della Sezione Potenza-Basilicata dell’Istituto di Selvicoltura di Bari che operò, dal 1978 al 1982, anche con l’auspicio di sviluppare in seguito una sede universitaria lucana. Le personalità che operarono in questa direzione furono i già ricordati Senatore Scardaccione e Presidente Verrastro, insieme all’allora Assessore regionale all’agricoltura, Romualdo Coviello. Sul versante barese la proposta fu sostenuta dal Preside di Agraria, prof. Gian Tommaso Scarascia Mugnozza e dal prof. Giordano. La sede della sezione era presso l’Ispettorato Regionale delle Foreste (allora in via del Popolo a Potenza). Il personale era costituito dai professori e ricercatori dell’Istituto di Selvicoltura di Bari e dall’Ispettore forestale dott. Giuseppe Cavaliere, che assunse la responsabilità operativa.
Ricorda il prof. Giuseppe Scarascia Mugnozza, allora giovane ricercatore a Bari, oggi Direttore del Dipartimento per la Innovazione nei Sistemi Biologici, Agroalimentari e Forestali dell’Università della Tuscia a Viterbo: “La Sezione operò per circa 4-5 anni, un periodo abbastanza breve ma intenso e in situazioni che poi divennero molto complicate con il terremoto del 1980. Le attività di ricerca riguardarono le analisi di immagini da aereo e da satellite, in particolare per la verifica dell’accuratezza della prima Carta di Uso del Suolo della Basilicata redatta da ITALECO. A tale scopo fu comprato e utilizzato un bellissimo stereoscopio Old Delft per fotointerpretazione. Gran parte dell’attività della Sezione si svolse presso la foresta demaniale di Lagopesole e presso il vivaio forestale La Cerasa. Nella foresta fu impiantata una delle prime stazioni di rilevamento ecologico in foresta per rilievi sul ciclo idrologico, misure di tipo micrometeorologico con analisi del bilancio energetico e rapporto di Bowen, misure di produttività, ecc. La Sezione di selvicoltura fu molto attiva anche sul versante della formazione e dell’educazione forestale in quanto sede, tutti gli anni, delle esercitazioni estive per gli studenti, provenienti da tutta l’Italia meridionale, del Corso di Scienze Forestali dell’Università di Bari. La sede delle esercitazioni era costituita dall’Istituto Tecnico Agrario di Lagopesole e da qui venivano visitati e studiati i più interessanti comprensori forestali della regione: oltre a Lagopesole e al Vulture, le foreste in Val d’Agri, il Parco del Pollino, la foresta di Policoro, quella di Gallipoli Cognato e i rimboschimenti della Val Basento. In quegli anni era ancora funzionante il bacino idrologico sperimentale realizzato dal prof. Salvatore Puglisi nelle vicinanze di Potenza. Alla fine degli anni ’70 presso il vivaio La Cerasa fu anche realizzato un moderno edificio per ospitare la Sezione e le sue diverse attività sperimentali e di formazione. Purtroppo, appena completato l’edificio subì i danni del terremoto, fu poi ristrutturato secondo le norme anti-sismiche ma non ci fu il tempo di metterlo in attività poiché la Sezione completò il suo ciclo operativo con l’avvio della nuova Università di Basilicata. Le ricerche e le osservazioni condotte presso la Sezione di selvicoltura di Potenza sono state oggetto di una decina di pubblicazioni scientifiche”.
Questo va sicuramente aggiunto al racconto di Giuseppe Scarascia: gli studi di ecofisiologia forestale iniziati nella cerreta e nella stazione sperimentale di Lagopesole (Fig. 6) hanno rappresentato l’avvio di studi, poi grandemente sviluppati da Scarascia e collaboratori presso l’Università della Tuscia, che hanno portato il gruppo a un ruolo di primo piano nel panorama della ricerca internazionale sulle foreste.
Fig. 6 - La stazione sperimentale di Lagopesole, presso il vivaio La Cerasa, utilizzata per studi di ecofisiologia forestale dai ricercatori della sezione Potenza-Basilicata dell’Istituto di Selvicoltura di Bari; nel riquadro in basso a destra la sequoia, com’è oggi, piantata nei primi anni ’80 da Giuseppe Scarascia in prossimità della stazione sperimentale (foto degli autori).
Un’altra personalità accademica era allora attiva nell’Istituto di Selvicoltura di Bari: quella del prof. Raffaello Giannini, selvicoltore e genetista, in seguito fondatore e a lungo direttore dell’Istituto per il Miglioramento genetico delle piante forestali del CNR, nel quale uno degli scriventi lo ha avuto come Maestro. Ci pare quindi opportuno terminare il racconto anche con il suo ricordo, che integra quelli precedenti.
Così scrive il prof. Giannini: “Sono entrato nella Famiglia della Facoltà di Agraria dell’Università di Bari il primo novembre del 1975 come professore straordinario di Selvicoltura speciale ricoprendo subito, per prassi, la carica di Segretario del Consiglio di Facoltà. Fu un impatto molto forte. Nuova sede di lavoro, nuovi colleghi, nuove funzioni. Lo superai in breve grazie all’aiuto degli amici forestali Ervedo Giordano, Salvatore Puglisi, Vittorio Gualdi, Camillo Castellani, Enzo Avanzo, Pasquale D’Errico, già docenti della Facoltà, ma soprattutto alla sapiente e preziosa guida dell’allora Preside, Prof. Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, con il quale ho avuto la fortuna di instaurare un bellissimo rapporto di fiducia, stima ed amicizia. L’essere Segretario del Consiglio di Facoltà comportava un onere non indifferente (i verbali delle sedute si scrivevano su fogli protocollo!), ma nello stesso tempo mi consentiva di conoscere le strategie di sviluppo e i nuovi programmi della Facoltà. Così appresi presto dell’iniziativa che coinvolgeva la Facoltà di Agraria e la Regione Basilicata nell’istituzione di una Sezione dell’Istituto di Selvicoltura presso quella Regione. Con entusiasmo presi parte all’avvio della nuova iniziativa, dedicandomi in modo particolare alla stesura di alcuni programmi di ricerca incentrati su aspetti della gestione colturale dei boschi del piano montano presenti in Lucania, nonché sulla produzione vivaistica e sulla selezione razziale. In particolare mi piace sottolineare le indagini sulla verifica, attraverso aree di saggio permanenti, degli effetti di diversi tipi di trattamento sull’insediamento della rinnovazione naturale nelle faggete, considerando i tagli successivi (taglio di sementazione, nei boschi di Brienza), i tagli a raso su piccole superfici (nei boschi di Viggiano), i tagli a scelta (per singoli alberi e/o a gruppi, nei boschi di Muro Lucano). L’interesse era anche quello di definire alcuni parametri che fossero di utilità per l’individuazione di un corretto equilibrio tra attività pastorale, ampiamente diffusa, e potenzialità produttiva del soprassuolo bosco. Particolare impegno fu poi dedicato agli aspetti descrittivi della dinamica dei boschi misti Fagus-Abies del Monte Pollino e della foresta di Bosco Magnano. Il disastroso terremoto del 1980 è stato evento decisivo sulla continuità di quasi tutte le attività didattiche e scientifiche che facevano riferimento alla Sezione dell’Istituto di selvicoltura. Molti dati erano conservati negli uffici distrutti dal sisma. La produzione del materiale di propagazione (semenzali e trapianti) per l’impianto delle parcelle comparative sulle provenienze (ontano napoletano, faggio, abete bianco), in fase di coltivazione presso il vivaio La Cerasa di Lagopesole, fu sospesa e quindi abbandonata. Così è accaduto per alcune parcelle di abete bianco e ontano realizzate con materiale prodotto in Toscana. La catastrofe non ha però limitato il mio interesse per i boschi della Basilicata, grazie ai rapporti di sincera amicizia con le persone coinvolte nel progetto. Ho continuato a frequentarla: alcuni risultati preliminari sul trattamento delle faggete e dei boschi misti abete-faggio del Pollino sono apparsi su tesi e lavori a stampa. Una nuova parcella comparativa di provenienze di faggio, inserita in un progetto europeo, è oggi presente nel territorio comunale di Pignola e può rappresentare materiale di studio di grande interesse se correlata allo studio degli effetti dei cambiamenti climatici. Ho percorso a lungo i boschi della Valle del Sinni e le pendici del Pollino perché per interpretare il linguaggio della foresta è indispensabile farne parte. Resta profondo il senso di tristezza per la drammatica interruzione di una così efficace iniziativa che possedeva tra l’altro un alto contenuto formativo. Credo che questo fatto sia stato riconosciuto e che abbia contribuito alla realizzazione di un Corso di Laurea in Scienze Forestali presso l’Università della Basilicata”.
Anche in questo caso, una doverosa aggiunta: le ricerche di genetica forestale promosse dal prof. Giannini avranno grande seguito e porteranno l’Istituto del CNR da lui fondato (ora confluito nell’Istituto di Bioscienze e Biorisorse, diretto da un altro genetista forestale di valore, Giovanni Giuseppe Vendramin) a un ruolo di alto prestigio internazionale.
Possiamo senz’altro dire che la Sezione di Selvicoltura Potenza-Basilicata, in cui lavorarono fianco a fianco personalità scientifiche di primo livello, fu un precedente significativo per la nascita dei corsi di Scienze Forestali presso l’ateneo lucano. E che da Lagopesole, terra di Federico II, presero avvio importanti storie scientifiche.
I primi anni dei corsi forestali a Potenza
Adesso facciamo un po’ di cronaca locale, lo avevamo annunciato. Quando, nel giugno del 1986, il primo docente di ruolo, Orazio la Marca, di scuola fiorentina, mise piede a Potenza, nella sede di via Nazario Sauro trovò una stanza con la targhetta “Istituto di Selvicoltura”, e poco più.
Ma lasciamo alle sue parole la rievocazione di quel periodo: “Ho partecipato a un concorso per prof. ordinario bandito nell’agosto 1984. Ricordo che ero in vacanza e soltanto per caso ne lessi su un quotidiano. Quando ho consultato la Gazzetta Ufficiale (all’epoca i concorsi erano banditi dal Ministero) ho visto che c’erano 11 posti a concorso nel settore dell’Assestamento, della Selvicoltura e della Tecnologia del legno e Utilizzazioni forestali. La commissione dichiarò idonei soltanto 9 candidati, due posti non furono coperti. Ho preso servizio come professore straordinario a Potenza il 6 giugno 1986, mi accompagnò l’allora dott. Nicola Moretti. Il primo impatto fu abbastanza traumatico: ero l’unico docente strutturato dell’allora Istituto di Selvicoltura cui afferivano le aree dell’Assestamento, della Tecnologia del legno e delle Utilizzazioni forestali. Tutti gli altri Istituti della Facoltà avevano locali, attrezzature e personale. L’Istituto di Selvicoltura aveva una stanza, una scrivania, un armadio e due sedie. I docenti che avevano tenuto gli insegnamenti erano tutti a contratto e provenivano per lo più dall’Amministrazione forestale e dall’Università di Bari. Ricordo che l’allora dottoressa Tartarino, ritengo inquadrata come ricercatrice a Bari, aveva tenuto per contratto l’insegnamento di Dendrometria. Nonostante io avessi vinto la Cattedra di Dendrometria, ritenni opportuno che completasse il corso con qualche esercitazione che facemmo nella Foresta di Fossacupa, vicino a Potenza. Per prima cosa l’Istituto di Selvicoltura prese a noleggio una macchina da scrivere! I personal computer già esistevano, ma non c’erano le risorse per l’acquisto. Quando arrivò da pagare una fattura per l’acquisto di una cella climatica sui fondi dell’Istituto si capì che i fondi assegnati venivano spesi per acquisti da parte di altri Istituti. Naturalmente le somme furono restituite. A novembre del 1986 proposi al Consiglio di Facoltà di conferire gli incarichi di insegnamento per lo più a giovani laureati che si erano distinti per qualche ricerca o per esperienze nella professione forestale. Non fui esente da pesanti critiche da parte dei colleghi che parteggiavano per mantenere lo status quo ante. Ricordo che per quell’anno e per gli anni successivi (all’epoca non erano ancora attivi tutti gli anni del Corso di laurea) proposi al Consiglio di Facoltà di conferire incarichi di insegnamento a Agostino Ferrara, Piermaria Corona, Giovanni Sanesi, Federico Maetzke, Rocco Manzari, Vittorio Leone, Remo Bertani, Michele Lopinto, Marco Borghetti, Lucio Bortolotti, Stefano Quartulli, unico fra questi che fosse docente strutturato presso l’Università di Bari [N.d.A.: verso il prof. Quartulli uno degli autori ha nutrito sentimenti di amicizia e affetto: ricorda con rimpianto le fruttuose collaborazioni, le giornate passate insieme, in bosco, in laboratorio, a zonzo qua e là]. In un secondo momento venne conferito un incarico di insegnamento al prof. Andrea Famiglietti, ordinario presso l’Università di Padova. Il dott. Moretti fece parte del personale che lavorava in Istituto e venne retribuito per lo più con i proventi di consulenze e di prestazioni in conto terzi e con contratti su fondi di ricerca. Subito dopo la laurea venne a Potenza anche il dott. Antonio Saracino che si stabilì a Potenza e diede un sostanzioso contributo alla crescita dell’Istituto. Un altro collaboratore fu Michele Pisante quando ancora era studente iscritto al Corso di laurea in Scienze forestali. Tutti venivano retribuiti con notule su fondi di ricerca e su fondi derivanti da prestazioni in conto terzi. Dopo aver coperto gli insegnamenti, in qualità di Direttore dell’Istituto (ma ero anche assistente, contabile e bidello), grazie a una dotazione straordinaria di cui avevano goduto anche gli altri Istituti, mi sono dedicato all’acquisto di attrezzature e ho rivendicato con forza l’assegnazione di personale docente, ricercatore e tecnico. Non essendo possibile avere assegnati locali da sottrarre ad altri Istituti, fu sacrificata un’aula che, suddivisa con pareti attrezzate, costituì la base dell’allora Istituto di selvicoltura. Un’ulteriore acquisizione fu il laboratorio di tecnologia del legno, con annesse attrezzature, erroneamente assegnato all’Istituto di costruzioni. Nel frattempo ero stato nominato Presidente del Corso di Laurea in Scienze Forestali. Tra le dotazioni didattiche fu progettato un arboreto su di un terreno concesso dalla Regione Basilicata nel demanio regionale di Gallipoli Cognato. In quello stesso periodo fu redatto un regolamento per la realizzazione di un centro didattico nei pressi di Lagopesole. Qui esisteva una struttura antisismica che nei progetti dell’epoca avrebbe dovuto ospitare un centro del CNR richiesto dai colleghi dell’università di Bari. Si trattava di una struttura inutilizzata, che aveva perfettamente resistito al terremoto. Fu redatto un progetto per impiantare parcelle sperimentali sul modello esistente a Vallombrosa e di quanto avevo visto a Nancy in Francia. Il Consiglio di Facoltà non approvò questa iniziativa, ne fui personalmente amareggiato. Capii che numerosi colleghi erano gelosi dell’efficienza di questo giovane istituto, dell’entusiasmo e dell’impegno che i giovani docenti manifestavano nel loro lavoro, nell’apprezzamento da parte degli studenti che sempre più facevano riferimento all’Istituto di selvicoltura. Già dal mio primo anno di insegnamento a Potenza ottenni che le esercitazioni didattiche, in conformità con l’ordinamento didattico del nostro corso di laurea, avessero luogo per poter considerare conclusi gli insegnamenti. Fu una battaglia piuttosto dura in quanto si voleva accreditare la tesi che nella fase di assestamento del corso di laurea se ne potesse fare a meno. Ricordo un’assemblea degli studenti piuttosto agitata nel corso della quale fu ribadita l’obbligatorietà delle esercitazioni pratiche, per la stessa validità dei corsi. La Regione se ne fece carico e, quando il funzionario che partecipò alle prime esercitazioni nelle foreste di Camaldoli e di Vallombrosa si rese conto della loro utilità, fece una relazione decisamente positiva. Per gli anni successivi non ci furono problemi per finanziare le esercitazioni. Dopo poco tempo dalla mia presa di servizio fu espletato un concorso da ricercatore di cui risultò vincitore il dott. Domenico Pierangeli. Dopo estenuanti insistenze per ottenere un amministrativo, fu assegnato all’Istituto di selvicoltura il geom. Domenico Mastromatteo, rivelatosi ottimo collaboratore amministrativo e factotum per l’Istituto di selvicoltura, il quale vinse poi un concorso per tecnico ed entrò a far parte dell’organico dell’Istituto. Durante la mia permanenza a Potenza fu espletato un concorso per professore associato. Tra i vincitori ci fu il prof. Vittorio Leone che prese servizio a Potenza nel 1987” [N.d.A.: del Prof. Leone, illustre socio-ecologo degli incendi boschivi e selvicoltore, tuttora in piena attività, entrambi gli autori ricordano la profondità di pensiero e la competenza scientifica. Fra i tanti ricordi: gli occhi che si illuminavano quando si aveva notizia di qualche consistente incendio di boschi: «presto, andiamo, si possono raccogliere dati interessantissimi»; lo spiccato senso dell’orientamento, che gli provocò qualche difficoltà a reperire la strada e tornare al pulmann, al termine di una esercitazione didattica al Bosco Magnano, lungo il sentiero del Torrente Peschiera, attrezzato per non-vedenti e iper-segnalato].
Aggiungiamo solo poche cose al racconto di la Marca. La facoltà di Agraria si era effettivamente avviata a partire dall’anno accademico 1983/84, grazie a un comitato ordinatore formato dai proff. Orlando Montemurro, Carmine Noviello e Gian Tommaso Scarascia Mugnozza; dopo il biennio di corsi di base, nell’anno accademico 1985/86 c’era la necessità di iniziare gli insegnamenti specificatamente forestali, ma a Potenza non c’era ancora nessuno di ruolo.
Ci fu quindi il bisogno di ricorrere a docenti a contratto che, provenendo da altre sedi, dall’ambiente ministeriale o da quello professionale, approdarono a Potenza e offrirono agli studenti il sapere che possedevano. Pare giusto ricordare almeno i primi, furono: Patrizia Tartarino per l’insegnamento di Dendrometria, Donato Forenza per quello di Protezione dagli Incendi Boschivi, Michele Lopinto per quello di Selvicoltura generale, Rocco Manzari per quello di Legislazione forestale e Alfredo Curto per quello di Tecnologia del Legno ed Utilizzazioni Forestali. Certamente aiutò alla generale soddisfazione il fatto che questi contratti di insegnamento fossero ben pagati. Questo non è stato detto: se poche erano le attrezzature iniziali, la dotazione finanziaria messa a disposizione dei nascenti istituti non era per niente male, soprattutto se confrontata con quella di oggi.
Negli anni successivi la platea dei docenti si allargò ad altri nomi, quelli che la Marca elenca, giustamente fiero di aver adottato una scelta di coraggiosa apertura dell’ambiente accademico. Diversi di questi erano allora giovani ricercatori, attivi e bene inseriti nell’ambiente scientifico nazionale, che portarono in Basilicata il loro entusiasmo e il loro, si dice così, know-how. Quando, all’ora del caffè, ci capita di parlare con chi a quel tempo fu studente - e che ora è diventato collega - affiora memoria della piacevole vivacità intellettuale di quel periodo: siamo consapevoli che il nostro ricordo ha il pregio/difetto di diventare ipertrofico e auto-benevolente, ma un fondo di verità c’è.
Uno di questi docenti di allora è ancora con noi, e con noi ha diviso ogni giorno, serate comprese, di questi quasi trent’anni: “Due ricordi, su tutti, di quei primissimi anni: la neve, tanta neve sulla strada per Potenza!” ci racconta Agostino Ferrara, “tanto che Piermaria Corona, con spirito da Compagnoni agli ultimi passi sul K2, l’ultimo chilometro dovette sedersi sul portabagagli aperto della 190 (dannata la sua trazione dietro), ma poi a lezione arrivammo in tempo; e poi, quel 5 maggio del 1990, quando ci fu quell’altro potente fremito, 5.8 mica poco..., tutto cominciò a tremare con un rumore assordante, gli intonaci piovevano dal soffitto, i banchi e le scrivanie andavano da ogni parte: tutti volevano correre giù per le scale ma noi li trattenemmo sotto il trave portante, in attesa che tutto finisse....e si che lo ricordo molto bene!” (Fig. 7).
Fig. 7 - Uno dei primi allenamenti didattici nella foresta di Fossacupa (Potenza). Dietro, in piedi, uno vicino all’altro, i due “mister”: a sinistra Piermaria Corona, oggi direttore del Centro di ricerca “Foreste e Legno” del CREA, aria leggermente allampanata “ma quanta strada da Fiera di Primiero...”; a destra Agostino Ferrara, da sempre all’Università della Basilicata, aria sorniona “mo je faccio carotare un cerro...”. A quei tempi entrambi lavoravano alla S.A.F., dell’Ente Nazionale Cellulosa e Carta (foto: Agostino Ferrara).
Quel che la Marca non cita, nel suo racconto, è un evento che va ascritto a suo merito. Nell’ottobre del 1988 organizzò a Potenza un convegno sul tema “Prospettive di valorizzazione delle cerrete dell’Italia centro-meridionale” che ebbe relatori di primo piano e un vasto uditorio [Uno degli autori ricorda che, per i necessari preparativi congressuali, si trovò consegnato per diversi giorni in caserma (pardon, in Istituto) e non riuscì a svolgere il suo consueto ruolo da protagonista in occasione della processione di San Michele di fine settembre; in compenso portò in processione per la cerreta di Montepiano il prof. Dusan Klepaz che lo intrattenne per tutto il tempo sullo spessore della corteccia delle querce: il coautore gli fa notare che anche per questo compito occorreva una certa predisposizione religiosa]. In un certo senso, il convegno sulle cerrete suggellò i primi anni dei corsi forestali a Potenza. A novembre 1989, La Marca se ne tornò a Firenze. In questo modo andavano le cose nell’accademia italiana: dopo il triennio di straordinariato nella lontana sede qualcuno, nell’università di origine, si prendeva a cuore la procedura per il ritorno all’alma mater. Nei primi anni ’90, anche grazie all’onestà intellettuale dell’allora preside di facoltà prof. Francesco Basso, furono banditi nuovi posti di ruolo per le discipline squisitamente forestali e, in qualche tempo, la situazione si stabilizzò.
Così anche questo nostro corso di laurea di Potenza, vivace ma un po’ scamiciato, si andò normalizzando: come facevano, sulla lavagna, i boschi virtuali dell’assestamento forestale.
Alla fine, un dubbio ci passa per la testa
In questo lungo periodo trascorso in Basilicata abbiamo fatto le cose che fanno, chi più chi meno, i docenti universitari: insegnamento, ricerca, progetti, ecc. Al di là degli indici bibliometrici, scopriremo più in là se qualche nostro risultato scientifico sarà meritevole di ricordo; se non sarà così pazienza, abbiamo scoperto qualcosa di noi stessi, ed è già molto.
Oltre alle attività accademiche e di ricerca, ci è capitato di dare una mano alla gestione delle risorse forestali e dell’ambiente. Abbiamo collaborato a diversi progetti applicativi, alcuni dei quali di un certo rilievo: la Carta Forestale Regionale, la tutela dei siti Natura 2000, la gestione sostenibile dei patrimoni forestali demaniali e delle foreste del Parco Nazionale del Pollino, ecc. Ebbene, nel corso di queste attività, durante questi anni, ci siamo accorti che qualcosa cambiava, e non in peggio. Non solo nelle cose: oggi i boschi della Basilicata sono molto aumentati rispetto ai valori degli anni ’50, più del 70% dei Comuni della Basilicata si sono dotati di un piano di assestamento forestale, spesso si osservano azioni pregevoli e concertate di gestione e tutela ambientale, ecc. Ma soprattutto nelle persone: sempre più frequentemente abbiamo occasione di trovare in ruoli operativi, e anche di responsabilità, nostri laureati, persone che con noi si sono formate; in quasi tutti i casi abbiamo avuto l’occasione di apprezzarne la professionalità. Quando portiamo in esercitazione gli studenti di oggi, spesso chi ci accompagna come tecnico è un nostro studente di ieri.
Tutto questo ci regala la piacevole sensazione, come docenti, di un lavoro compiuto, e non è poco. La cosa, tuttavia, non sempre è quantificabile, non sempre si traduce in un indicatore S.M.A.R.T. Così come queste piacevoli sensazioni non sono di grande aiuto per conformarsi a quelle dinamiche Red Queen che vengono talvolta prospettate alle istituzioni accademiche, o che le stesse si autoimpongono.
Intendiamoci bene, qualsiasi trionfalismo è fuori luogo: molti, troppi, laureati forestali faticano a trovare un lavoro coerente con la loro formazione, soprattutto se lo cercano alle porte di casa, le iscrizioni degli studenti hanno avuto andamenti alterni, ecc. Però, così come capita a Sally ([52]), ogni tanto un dubbio ci passa per la testa: forse anche noi e la nostra università, forse per qualcosa, forse qualche volta, siamo stati smart, almeno un poco. “Forse ma, forse ma sì”.
Ringraziamenti
Ringraziamo sentitamente e con amicizia: Ervedo Giordano, Giuseppe Scarascia Mugnozza, Raffaello Giannini e Orazio La Marca, per averci regalato i loro ricordi; Antonio Saracino, che ha segnalato un particolare della letteratura forestale che ignoravamo, riconsegnato una bella e gradita fotografia, ne ha messo a disposizione delle altre e, soprattutto, ha fatto interessanti considerazioni sul manoscritto; il collega e amico di sempre Agostino Ferrara, che ha tirato fuori due ricordi formidabili, stile Amaro Montenegro; Annemarie Bastrup-Birk, che ci ha indicato dei riferimenti bibliografici per il box sull’abete bianco, e ci ha fatto parlare della Basilicata; Mario Salerno, guida ufficiale del Parco Nazionale del Pollino, che con il suo drone ha fatto una foto molto bella degli abeti di Terranova; Gino Todaro: molto amichevolmente ci ha fatto da tramite con Mario Salerno; Angelo Nolè e Tiziana Gentilesca: hanno fatto, ormai molti anni fa, la loro tesi di laurea nelle abetine di Laurenzana e di Ruoti, e ci hanno fornito le loro foto; Mimmo Pierangeli, che è l’unico che può citare a memoria nome cognome stato civile indirizzo genealogia e prole dei primi cinque laureati forestali a Potenza, ed è l’unico che ha meritoriamente riutilizzato il vivaio La Cerasa; Francesco Ripullone: è il prezioso collega di oggi che a quei tempi era lo studente di ieri; il carissimo Antonio Lapolla che, oltre a girare monti valli e piani con Andrea Piotti alla ricerca delle popolazioni più relitte di alberi forestali, e a impegnarsi nei campionamenti più ardimentosi, è riuscito nel prodigio di mantenere funzionante il Pajero Mitsubishi passo corto acquistato ai tempi di la Marca: fa molto “buona società di campagna in dignitosa decadenza”, e per questo continua a piacerci, anche perché non potremmo ricomprarlo. Grazie a chi leggerà questo articolo un po’ strampalato e lo apprezzerà, soprattutto se sono lettori che nulla hanno a che fare con l’Università della Basilicata. Ancora, siamo debitori ai nostri viaggi; allietati da una breve pausa per pizza e caffè nei pressi di Lagopesole - con veduta evocativa sul castello di Federico II - ci portano ogni settimana ad attraversare il confine dell’Ofanto, fra la terra di Basilicata e quella di Puglia, per arrivare poi in Capitanata, dove le nostre strade si dividono: le conversazioni fatte durante il percorso hanno fornito l’idea per questo racconto. Infine, grazie alle Frecce, di vario colore, che ci hanno permesso di scrivere con tranquillità questo divertissement, durante il nostro latitudinale anisocrono pendolarismo.
Box 1 - La ricostituzione dei boschi misti con abete bianco in Basilicata, rinnovazione naturale, reintroduzione per via artificiale: ragioni e metodi
(coautore: Andrea Piotti - CNR-IBBR/UOS Firenze, Sesto Fiorentino)
Abete bianco: storia evolutiva recente e presenza in Basilicata
Esistono chiare evidenze a favore della presenza di almeno tre aree rifugio di abete bianco in Appennino durante l’ultima glaciazione: nell’Appennino settentrionale, tra i Monti della Laga e il Gran Sasso, e tra il massiccio del Pollino e l’Aspromonte ([40], [49], [55]). La ricostruzione della storia evolutiva recente ha rilevanza sia per le strategie di conservazione della specie che per la definizione degli adattamenti al cambiamento climatico in un’area biogeografica soggetta a repentine modificazioni ambientali.
La popolazione che vegeta sulle pendici orientali del massiccio del Pollino rappresenta il nucleo di abete bianco più esteso del sud Italia ([60]) ed è la popolazione appenninica con la più alta diversità genetica, a livelli paragonabili a quelli delle più estese popolazioni balcaniche ([49]). Tali dati evidenziano sia la rilevanza conservazionistica delle popolazioni lucane di abete bianco, sia l’urgenza di azioni per preservare il loro elevato potenziale adattativo: un patrimonio genetico che potrebbe rivelarsi molto utile per l’adattamento al cambiamento climatico nei decenni a venire.
La presenza dell’abete bianco nei boschi della Basilicata è oggi ridotta, probabilmente come conseguenza delle attività antropiche del passato. L’abete partecipa a comunità forestali a prevalenza di faggio e cerro in località fra loro disgiunte: (i) Pollino, pendici orientali, in Comune di Terranova di Pollino, oltre i 1000 m di quota; numerosi esemplari di abete bianco svettano nel piano dominante della faggeta (Fig. 8), qualche abete sale al limite degli alberi (Fig. 9); (ii) Bosco Rubbio, in Comune di Francavilla sul Sinni, oltre i 1000 di quota: si tratta un significativo relitto dell’associazione faggio-abete che rivestiva le pendici del massiccio del Pollino; (iii) Bosco Vaccarizzo, in Comune di Carbone, tra 900 e 1200 metri di quota: le intense utilizzazioni del passato, hanno provocato l’eliminazione degli abeti di maggiori dimensioni; (iv) Abetina di Laurenzana, nei Comuni di Laurenzana e Viggiano: l’abetina occupa una fascia di transizione tra cerreta e faggeta, oltre i 1000 m di quota, diversi alberi di abete superano i 40 metri; (v) Abetina di Ruoti, in Comune di Ruoti, fra 900 e 1000 m di quota (Fig. 10): l’abete, consociato al cerro, si presenta con numerosi esemplari di grandi dimensioni ([20], [5], [31], [54], [44]).
Fig. 8 - L’abete bianco svetta sopra la faggeta di Terranova di Pollino, ripresa da drone del 29 dicembre 2019. Si tratta della popolazione di abete bianco a maggior variabilità genetica in Basilicata ([49]); queste piante di abete bianco sarebbero le candidate a fornire il germoplasma in un progetto di ridiffusione dell’abete per via artificiale (foto: Mario Salerno).
Fig. 9 - È salito fino a 2000 m di quota, sulla Serra di Crispo, questo abete, e tiene compagnia al pino loricato: controlleremo il suo destino (foto: Antonio Saracino).
Fig. 10 - Grande esemplare di abete bianco nell’abetina di Ruoti, qui l’abete si consorzia con il cerro. Uno zelante maresciallo forestale tempo addietro aveva introdotto in zona piante di abete greco (“una faccia una razza” avrà pensato). Sebbene la sovrapposizione degli areali sia minima e non siano descritti processi d’introgressione, Abies × borisii-regis viene considerato come ibrido recente fra Abies alba e Abies cephalonica ([2], [33]). Quindi, come misura di tutela della popolazione di abete bianco, è corretto considerare l’eliminazione delle piante di abete greco introdotte, in caso contrario in futuro avremo qualche Abies × borisii-regis anche a Ruoti: niente di drammatico, basta esserne consapevoli (foto: Tiziana Gentilesca).
Il bosco misto con abete bianco, ragioni per la sua ricostituzione
Nella regione mediterranea i boschi della fascia sub-montana e montana sono esposti agli effetti dei cambiamenti climatici, in particolare all’intensificazione dei fenomeni siccitosi. Le formazioni più colpite sono i querceti ([22]), ma in alcuni casi sono vulnerabili anche i boschi di faggio ([57]) che, oltre che dalla siccità, possono essere colpiti da gelate tardive ([44]). Da ricerche condotte in centro Europa, nella penisola balcanica e nella regione mediterranea si ricavano queste indicazioni: le mescolanze aiutano nella risposta ai fattori del cambiamento climatico; le interazioni fra le specie possono essere positive per il bilancio idrico della pianta, spesso l’abete bianco reagisce in modo migliore alla siccità rispetto alle specie consociate, come abete rosso e faggio ([34], [72], [9], [51], [73], [38]). In Basilicata, la ricostituzione del bosco misto faggio-abete bianco appare opzione colturale interessante per conferire maggiore resilienza al sistema, promuovere la biodiversità compositiva e strutturale, diversificare la produzione legnosa. Con le dovute cautele, è una prospettiva da considerare anche nella fascia del querceto mesofilo, che appare sotto stress climatico ([11]). Attraverso la definizione di mappe di idoneità a elevata risoluzione potrebbero essere selezionate le ubicazioni in cui l’abete non risente troppo delle siccità estive e si avvantaggia nella prospettiva di inverni miti, soprattutto dove la consociazione con una specie a fenologia tardiva come il cerro lo può avvantaggiare per lunghi periodi dell’anno ([21]). È naturale che qualsiasi operazione di ricostituzione, a maggior ragione se condotta attraverso reintroduzione per via artificiale, debba prevedere un regolare monitoraggio e gestione della foresta.
Rinnovazione naturale
I fattori della rinnovazione dell’abete bianco sono stati oggetto di studi numerosi in molti ambienti; un quadro è fornito da Gentilesca ([22]). Per una rassegna ad ampio spettro, dalla variabilità genetica, all’ecologia, alla selvicoltura vedi Dobrowolska et al. ([14]). In Basilicata, gli effetti del microclima luminoso sullo sviluppo della rinnovazione di abete sono stati studiati nelle faggete con abete bianco del Pollino ([50]); in precedenza Nolè et al. ([43]) avevano documentato le condizioni della rinnovazione naturale nell’abetina di Laurenzana dove l’abete si consorzia con il cerro. Sul piano colturale il know-how per promuovere la rinnovazione naturale nei boschi misti con abete bianco, mantenendo strutture diversificate e variabilità compositiva, è stato proposto da tempo ([63], [29]). In estrema sintesi, prevede la creazione di discontinuità di copertura calibrate, in termini di dimensioni e orientamento, sullo stato (presenza, assenza, sviluppo) della rinnovazione di abete nel piano inferiore (vedi, per vari esempi sui trattamenti di rinnovazione, [45], [67], [24], [3], [56], [42]). In Basilicata si è visto che spesso basta il prelievo di una o poche grosse piante di faggio o di cerro del piano dominante a creare gaps in cui l’abete forma gruppi di rinnovazione - spesso con caratteristico profilo a campana - con adeguati valori di dominanza apicale e di promettente sviluppo ([43], [50] - Fig. 11, Fig. 12).
Fig. 11 - Sopra: rinnovazione di abete bianco sotto faggio nel bosco di Terranova di Pollino (foto: A. Saracino). Sotto: rinnovazione di abete bianco in un piccolo gap di Bosco Rubbio, Comune di Francavilla sul Sinni. Il piano di gestione di questa foresta (predisposto dagli autori, insieme al dott. Ezio Langerano) è attualmente in corso di applicazione a cura dell’Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Potenza: vengono fatti prelievi che incidono in modo mirato sulla copertura al fine di determinare condizioni favorevoli al reclutamento dell’abete bianco, e di favorire la rinnovazione insediata (foto degli autori).
Fig. 12 - Piccolo nucleo di rinnovazione naturale nell’Abetina di Laurenzana (Potenza), dove l’abete è consorziato in buona parte col cerro, rinnovandosi con facilità (foto: Angelo Nolè).
Reintroduzione artificiale
In Basilicata, esistono zone estese di foresta montana dove l’abete bianco non è più presente: in questi casi la prospettiva di una ricostituzione del bosco misto dovrebbe prevedere la reintroduzione dell’abete per via artificiale. Si tratta di una proposta che può suscitare timori, in alcuni casi opposizioni. Un tentativo pioneristico di reintroduzione è stato promosso da Andrea Famiglietti negli anni ’80 ([18]), con discreto successo sul piano colturale, ma scarsa conoscenza degli aspetti legati alla variabilità genetica della specie.
Oggi riteniamo che una proposta di reintroduzione possa contare su basi scientifiche solide, con riferimento agli studi che hanno reso disponibile, per questa specie, una conoscenza fine della sua variabilità genetica su base geografica, delle relazioni intraspecifiche e dei processi evoluzionistici ([37], [6], [35], [19], [49], [26], [12]).
Per le prospettive di reintroduzione nelle foreste montane della Basilicata, la scelta elettiva per le raccolte di seme e la produzione del materiale da diffondere è quella di ricorrere a popolazioni ad alta variabilità genetica, come quelle che vegetano sul massiccio del Pollino (Fig. 8). Passo ulteriore da compiere, peraltro fattibile in tempi brevi qualora venissero destinate opportune risorse, è quello che riguarda la caratterizzazione genetica di tutti i nuclei presenti in queste zone ad alta variabilità genetica. Ciò permetterà di programmare su basi solide il campionamento, che dovrà comunque essere esteso a parecchie centinaia di individui opportunamente distribuiti al fine di intercettare la maggior quota di variabilità disponibile ([28], [27]). Saranno ovviamente necessari controlli per evitare impoverimenti genetici durante il processo di produzione vivaistica, adeguati protocolli per la messa a dimora delle piantine con criteri e metodi di precision forestry, controlli sulla variabilità genetica delle popolazioni introdotte.
References
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