The "climate" decree: new opportunities for forests of high conservation value
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 16, Pages 83-85 (2019)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0064-016
Published: Dec 18, 2019 - Copyright © 2019 SISEF
Editorials
Abstract
The Decree on Climate 2019 represents an innovative and concrete framework for applying the international recommendations aimed at preventing and mitigating the effects of climate change. It focuses, in addition to many environment-related aspects, on the old-growth forests, recognizing them as forest ecosystems of high environmental value, defining their main ecological traits. According to this legislation, the extent of these forests in Italy is important, since many forest ecosystems have been left unmanaged from more than 60 years. Even if these stands are not always characterized by high level of naturalness, they are currently evolving towards more complex structures, due to the absence of human-related disturbance. Old-growth forests are unique ecosystems with a high structural complexity and peculiarities that are absent in managed forests. They are also an essential point of reference for sustainable forest management and environmental monitoring, in terms of conservation of biological diversity and ecological processes. For these reasons, they represent a unique benchmark for developing silvicultural models that incorporate knowledge of structural complexity (vertical and spatial) and developmental processes, duration of development and particularly the role of disturbances in creating structural legacies that become key elements of the post-disturbance stands. These forests, as the new Decrete underlines, must be protected, preserved and monitored in a long-term perspective, in order to safeguard their biodiversity, avoiding the structural simplification, which often characterizes the managed forests.
Keywords
Old-growth Forests, Climate Change, Biodiversity Conservation, National Legislation, Long-term Forest Monitoring
Nonostante la portata storica dell’Accordo di Parigi siglato nel 2015, la sua concreta attuazione procede ancora con lentezza, spesso per le resistenze degli Stati ad assumere decisioni coraggiose e capaci di superare un modello di sviluppo insostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche sociale ed economico.
Nella più recente “Conferenza delle parti della Convenzione internazionale sui cambiamenti climatici” (Cop24), tenutasi a Katowice in Polonia, si è verificato lo stato di avanzamento degli impegni assunti dai membri della comunità internazionale: l’Accordo di Parigi si è dotato di linee guida (rulebook) per la sua attuazione dal 2020; tuttavia, non sono stati concordati impegni sull’adozione di un quadro normativo vincolante e condiviso.
Gli accordi ambientali internazionali possono quindi solo stabilire un ampio quadro giuridico di obiettivi, principi ed impegni volti alla conservazione della natura ed alla sua gestione nell’ottica della sostenibilità ambientale. Indubbiamente, essi offrono un sostegno importante, anche mediante finanziamenti che garantiscono concrete opportunità di implementazione di politiche ambientali su scala nazionale e locale.
Tuttavia, passi concreti verso politiche sostenibili possono realmente essere attuati in un contesto nazionale solo quando agli accordi internazionali seguono interventi ad opera dei singoli paesi attraverso azioni legislative nazionali e locali.
In questo senso, sono numerose le novità introdotte dal decreto Clima per il settore della sostenibilità ambientale. Il Decreto-legge del 14 ottobre 2019 n. 111 riporta misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE, prorogando il termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge del 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229.
Il Decreto prevede l’istituzione di un tavolo permanente interministeriale sull’emergenza climatica al fine di monitorare le azioni del Programma strategico nazionale. Inoltre, istituisce un fondo specifico, denominato “Programma #iosonoAmbiente”, utile ad avviare campagne di informazione, formazione e sensibilizzazione sulle questioni ambientali, e in particolare sugli strumenti e le azioni di contrasto, mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici, nelle scuole di ogni ordine e grado.
Inoltre, è stato finanziato un programma sperimentale di selvicoltura urbana per la creazione ed il miglioramento delle foreste urbane e periurbane nelle città metropolitane, al passo con il crescente interesse da parte di ricercatori del settore agro-forestale verso gli aspetti tecnici e scientifici relativi alla gestione dei boschi urbani e peri-urbani ([4]), oltre che per la spinta di una popolazione per la maggior parte risiedente in città.
Per quanto concerne gli ambienti forestali semi-naturali e naturali, il decreto riprende l’esistenza e l’importanza dei boschi vetusti nel contesto nazionale. Definisce con l’articolo s-bis le caratteristiche generali di un bosco vetusto, inteso come una “superficie boscata costituita da specie autoctone spontanee coerenti con il contesto biogeografico, con una biodiversità caratteristica conseguente all’assenza di disturbi da almeno sessanta anni e con la presenza di stadi seriali legati alla rigenerazione ed alla senescenza spontanee”.
All’articolo 7 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 34 del 3 aprile 2018 viene inoltre aggiunto il seguente comma (13-bis): “con decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, sono adottate apposite disposizioni per la definizione delle linee guida per l’identificazione delle aree definibili come boschi vetusti e le indicazioni per la loro gestione e tutela, anche al fine della creazione della Rete nazionale dei boschi vetusti”.
Il Decreto CLIMA pone quindi un tassello fondamentale nell’ottica della salvaguardia delle aree forestali di elevato valore naturalistico, ampliandone di fatto l’estensione, considerato quanto siano ormai diffusi i contesti forestali ormai non gestiti da sessanta anni. L’assenza di interventi in estese porzioni forestali nelle aree interne, in gran parte montane, offre l’opportunità di poter monitorare l’evoluzione naturale di popolamenti sottoposti ormai esclusivamente a disturbi naturali e salvaguardare l’insieme di nicchie ecologiche, livelli trofici e processi ecologici, in una parola la biodiversità. Da questi popolamenti si potranno estrarre informazioni importanti per sviluppare approcci selvicolturali volti a imitare i processi naturali in risposta ai disturbi ambientali e a valorizzare la complessità biologica e strutturale nelle foreste gestite. Si pensi agli effetti degli eventi estremi, come le tempeste di vento (p.es., Vaia), gli incendi, le epidemie di insetti e alle informazioni che si possono ottenere nelle foreste non gestite sulle capacità di rigenerazione del bosco e sul ripristino dei processi ecologici.
Di certo, molte di queste aree non presentano caratteristiche tipiche di vetustà, così come intesa in altri contesti geografici (p.es., Europa dell’Est o Nord America - [3]), considerando quanto le strutture osservabili, seppur non più gestite da decenni, evidenziano tuttora i segni degli interventi selvicolturali effettuati per secoli in passato ([2]). Tali strutture, ancora per certi versi semplificate, stanno in ogni caso evolvendo verso complessità verticali e orizzontali crescenti. D’altro canto, lembi in stadi stramaturi sono, seppur frammentari, sporadicamente presenti: basti citare la “Valle Cervara” presso il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, il bosco di “Fonte Novello” nel Parco del Gran Sasso - Laga, la Riserva di “Sasso Fratino” nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, “Prader Leiten” nel Parco Nazionale dello Stelvio o anche l’“Alpe Basciot” nel Parco Nazionale della Val Grande. Questi costituiscono un reticolo importante di bacini di biodiversità.
Proprio dall’approfondita conoscenza di questi lembi residuali è stato già possibile definire le caratteristiche salienti di un bosco vetusto nei nostri contesti peninsulari. Già diversi anni fa, la Direzione per la Protezione della Natura (DPN) ha attivato il progetto “Le Foreste Vetuste nei Parchi Nazionali Italiani”, allo scopo di raccogliere informazioni sulle foreste italiane con attributi di vetustà, così da poter selezionare quelle più aderenti alla definizione di una foresta vetusta ([1]). È stato quindi possibile definire le caratteristiche salienti di una foresta vetusta, tenendo anche conto della letteratura scientifica internazionale e delle caratteristiche peculiari dei boschi italiani. Veniva così definito bosco vetusto una “foresta in cui il disturbo antropico sia assente o trascurabile, quindi caratterizzata da uno sviluppo naturale con fasi di rigenerazione e invecchiamento. La fase senescente è caratterizzata quindi dalla presenza di individui di apprezzabili dimensioni ed età, dalla presenza di legno morto, da una flora coerente al contesto biogeografico e caratterizzata dalla presenza di specie altamente specializzate in equilibrio con l’ambiente e di specie legate ai microhabitat determinati dall’eterogeneità strutturale”.
Questa definizione viene rimarcata nell’attuale Decreto CLIMA, ponendo però l’accento anche sul fattore tempo, cioè sugli anni trascorsi dagli ultimi interventi, dandone valore legale ed ampliando di fatto la potenziale estensione di tali aree nel contesto nazionale. È un passo in avanti molto significativo, che vuole evidenziare l’importanza dei boschi vetusti, la loro salvaguardia e monitoraggio nel lungo termine.
Le foreste vetuste forniscono importanti servizi alla società umana, tra i quali, i più significativi sono la loro capacità di ospitare elevati livelli di biodiversità, e fungere da importanti serbatoi (sink) stabili di carbonio. L’importanza di questi due servizi si riflette nell’esistenza di due convenzioni delle Nazioni Unite: la Convenzione sulla diversità biologica (CBD) e la Convenzione sui cambiamenti climatici (UNFCCC), anche se solo la prima riconosce esplicitamente il ruolo chiave delle foreste vetuste nel fornire tali servizi ([5]). Inoltre, non vanno trascurati altri servizi come la fornitura di risorse genetiche, di prodotti non legnosi ed habitat per la fauna selvatica, la prevenzione di fenomeni di dissesto idrogeologico, ma anche servizi di natura spirituale e/o estetica.
Si tratta di foreste in cui le attività antropiche sono assenti e la loro evoluzione è influenzata principalmente dai disturbi naturali. In tali contesti, si riscontrano individui arborei di notevoli dimensioni ed età, presenza considerevole di legno morto in piedi e sul suolo forestale, in un contesto ad elevata eterogeneità e complessità strutturale. Sono ecosistemi in cui si riscontra un’elevata biodiversità, anche se non specificatamente connessa alla specie arboree, ma più in generale indotta dalla compresenza di taxa animali e vegetali legati alle diverse fasi evolutive del popolamento (muschi, licheni, funghi, macro e micro fauna, insetti saproxilici). La presenza di organismi specializzati trae beneficio dall’elevata naturalità e dall’occorrenza di microhabitat connessi ad una complessa eterogeneità strutturale. Ciò consente lo studio dei processi ecologici naturali e delle dinamiche successionali in seguito a disturbi ambientali, che sono un importante riferimento per l’analisi di ecosistemi antropizzati e popolamenti produttivi, e per impostare strategie gestionali che prevedano l’allungamento del turno, una maggiore complessità strutturale e la rigenerazione naturale del bosco.
Tale complessità può essere valutata considerando il monitoraggio di indicatori di biodiversità e vetustà. Tra questi, la presenza di necromassa legnosa è sicuramente uno degli aspetti più significativi. A tal proposito, il Decreto CLIMA riporta il seguente articolo (13-ter): “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, in accordo con i princìpi di salvaguardia della biodiversità, con particolare riferimento alla conservazione delle specie dipendenti dalle necromasse legnose, favoriscono il rilascio in bosco di alberi da destinare all’invecchiamento a tempo indefinito”. Questo articolo sancisce e regolamenta la necessità di garantire la presenza del legno morto, il cui ruolo nell’incrementare i livelli di naturalità di un sistema forestale è da anni ampiamente riconosciuto.
Anche gli alberi ad invecchiamento indefinito assumono una funzione legalmente riconosciuta nel permettere la presenza in bosco di “alberi habitat” che possano ospitare nel tempo una serie di microhabitat e nicchie ecologiche preziose per numerosi taxa, non solo animali, dove possano trovare rifugio e fonte di cibo.
In questo caso, è anche evidente come la presenza di tali elementi di discontinuità nella struttura forestale, faccia riferimento alla gestione attiva (nel Decreto si parla di “rilascio in bosco”), a testimonianza di quanto i boschi vetusti, già ricchi di tali elementi, possano sempre più fungere da riferimento per una gestione forestale attenta anche alle funzioni conservative e didattico-scientifiche.
La ricerca nel settore forestale dovrà quindi lavorare per supportare i processi decisionali volti ad ottimizzare la salvaguardia delle foreste vetuste e di tutti i popolamenti attualmente identificabili in fasi evolutive transitorie verso livelli crescenti di naturalità, basandosi su modelli che riconoscano esplicitamente le dinamiche in atto e le relative fonti di incertezza.
Le incertezze riscontrabili nei processi naturali possono ostacolare il processo decisionale nella salvaguardia e nel monitoraggio di habitat vetusti: incertezza stocastica, incertezza strutturale, ma anche una controllabilità ed osservabilità solo parziale. Ad esempio, bisognerà tener conto di come questi lembi di foreste reagiranno al forcing indotto dai cambiamenti climatici, al variare dei regimi termo-pluviometrici, all’eventuale ingressione di specie invasive ed aliene. Sarà utile comprendere se la diversità specifica e strutturale di tali popolamenti possa realmente incrementare, nel lungo periodo, la loro resilienza in un contesto climatico fortemente dinamico. Particolarmente importanti saranno gli studi sugli effetti dei disturbi nella successione ecologica, e sull’eredità strutturale lasciata da tali disturbi. Ciò servirà per sviluppare approcci selvicolturali maggiormente allineati ai processi naturali. Bisognerà interrogarsi e comprendere a fondo quali possano essere le soglie di disturbo oltre le quali, anche sistemi ad elevata resilienza come i boschi vetusti, potranno vacillare laddove le proiezioni climatiche di lungo termine così allarmanti possano verificarsi. Quindi l’importanza dei boschi vetusti risiede anche nel loro essere aree test per implementare protocolli integrati di monitoraggio ambientale.
In questo senso, per rendere concreto il riconoscimento dell’importanza dei boschi vetusti appena adottato nell’ambito del Decreto CLIMA, divengono indispensabili l’integrazione e l’ampliamento della rete di aree vetuste già esistente, promuovendone il monitoraggio di lungo periodo e l’attività di ricerca. Questi contesti forestali di così elevato valore naturalistico potranno e dovranno quindi essere considerati dei modelli evolutivi di riferimento per una selvicoltura avanzata, sostenibile e multifunzionale.
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