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Obituary: Prof. A. de Philippis

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 1, Pages 3-8 (2004)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0186-0001
Published: Oct 12, 2004 - Copyright © 2004 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

On the 6th of April 2002 prof. Alessandro De Philippis passed away in Firenze. Born in 1908 he graduated in Agriculture in 1930 and in 1931 was appointed Researcher at the Research Station for Silviculture in Firenze where he was active until 1942. In the same year he became Professor of Forest Ecology and Silviculture at the University of Firenze where he taught until 1979. The Accademia Italiana di Scienze Forestali elected him as President in 1980 and he hold the post until 1992. De Philippis developed research mainly on forestry problems of the Mediterranean area: ecology of spontaneous and exotic (especially Eucalipts) tree species, climate, planting methods. His large scientific production deals with silvicultural systems, plantations, ecology, genetics, conservation, wood production, has been since the beginning clearly aimed at giving support to the implementation of a silviculture ecologically oriented in the Mediterranean area. He gave a precious conceptual contribution to clarify the connections between forestry and environmental problems and therefore the position of silviculture in the modern multiple use forestry.

Keywords

de Philippis, Commemorazione, Selvicoltura, Ecologia, Foreste

 

Questa nota, che riprende l’intervento da me svolto, su invito di Marco Borghetti, in occasione del IV Congresso della S.I.S.E.F., si propone di commemorare la figura di studioso e docente del prof. Alessandro de Philippis, mancato il 6 aprile 2002, collocarla nel tempo e nella società, cercare di interpretare il suo ruolo nello sviluppo delle scienze forestali, capire quanto del suo lavoro è ancora utile a chi oggi è impegnato nella selvicoltura e nell’ecologia forestale.

La carriera di de Philippis si è sviluppata durante oltre 60 anni, nel corso dei quali si sono verificati grandi cambiamenti, sia nel territorio e nell’economia forestale, sia nella vita sociale e politica dell’Italia, sia nel mondo della scienza. È forse possibile ricondurre la maggior parte della sua intensa (187 pubblicazioni), lunga e variegata attività, come ricercatore e come insegnante, a un solo tema: la diffusione dei fondamenti concettuali, scientifici ed applicativi della selvicoltura su basi ecologiche, per rispondere alle mutevoli esigenze dell’economia forestale italiana. Di questa economia i tratti distintivi sono le componenti della società rurale e i condizionamenti ambientali, in modo particolare per quanto riguarda la regione mediterranea e il territorio montano.

È quindi indispensabile delineare in breve le principali tappe della Sua carriera. Alessandro de Philippis, nato a Bellosguardo (Salerno) nel 1908 consegue la laurea in Agraria (inizia gli studi a Portici e li conclude a Firenze nel 1930) e, successivamente (1941), in Scienze forestali. Inizia la carriera di studioso nel 1933, come ricercatore presso la Stazione Sperimentale di Selvicoltura di Firenze istituita nel 1922 e diretta da Aldo Pavari, poi, dal 1942 al 1979, ricopre la Cattedra di Selvicoltura presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze e quindi, dal 1980 al 1992, è Presidente dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali.

Dei numerosi riconoscimenti che la Sua attività ha ricevuto negli ambienti culturali italiani ed internazionali e delle funzioni da lui svolte (socio dell’Accademia dei Lincei, vicepresidente della Società Botanica Italiana, membro dell’Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna e dell’Accademia di Agricoltura di Torino, socio benemerito della Società Italiana di Ecologia, socio onorario della Società dei Forestali degli Stati Uniti e della Società dei Forestali di Israele, membro della sottocommissione sui problemi forestali del Mediterraneo della FAO) mi limito a ricordare la sua partecipazione alla vita della IUFRO: dal 1953 consulente tecnico del Presidente, in seguito Coordinatore del Gruppo Selvicoltura, poi Membro dell’International Council ed infine membro onorario dell’Unione. E desidero anche ricordare il suo rapporto con il mondo forestale israeliano: nel 1945 egli era stato invitato dal Fondo Nazionale Ebraico (a quel tempo il territorio, ora dello Stato di Israele, costituiva il protettorato della Palestina) come consulente per i problemi forestali. Nel 1954 aveva compiuto un secondo soggiorno di studio in quel Paese. Il rapporto stabilitosi allora si è mantenuto fino ad oggi con frequenti scambi di studenti e docenti. Per inciso, la consorte di de Philippis, Avigail, ebrea, fu allontanata dall’Università di Firenze con le leggi razziali.

Le condizioni ecologiche della maggior parte dei boschi italiani nel decennio che precede lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale - in termini di composizione, di densità, di biomassa, di suolo - erano assai peggiori di quelle necessarie ad assicurare la sostenibilità della produzione e quindi la stessa sopravvivenza della copertura boschiva: la produzione legnosa era scarsa, l’azione di protezione del suolo debolissima, la superficie forestale progressivamente ridotta dai dissodamenti abusivi, il livello delle pratiche selvicolturali scadente e il fabbisogno di legno, già molto alto, tendeva a crescere. Tuttavia, a partire dal 1923, è operante il Regio Decreto Legge n. 3267 che impone, con maggior oculatezza e rigore di quanto fosse attuato nel passato, il vincolo sui terreni boscati. La superficie di terreno rimboschita annualmente era aumentata in modo sensibile a partire dagli anni Venti. Nel 1933 viene emanata la legge sulla bonifica integrale che si propone di “adattare la terra e le acque ad una più elevata produzione e convivenza sociale”, ossia aumentare la produzione agricola e creare migliori condizioni di vita per una più densa popolazione rurale, attraverso un complesso di opere fondiarie tra le quali, appunto, hanno un preciso ruolo i rimboschimenti. Bonifica, in particolare, vista non solo come regolazione o eliminazione delle acque da zone in cui queste costituivano un rischio alle persone o un ostacolo alla coltivazione, ma anche come un’occasione per utilizzarle sia a scopi irrigui che come forza motrice.

L’attività scientifica di de Philippis riflette la problematica forestale italiana di quegli anni ma, parallelamente, anche il dibattito scientifico su alcuni grandi temi della fitogeografia e dell’ecologia. De Philippis mantiene uno stretto rapporto con i botanici e con i geografi, rapporto che si spiega con il comune interesse verso il paesaggio naturale e le modifiche apportatevi dall’uomo. In questo tentativo di ricostruire l’attività di de Philippis farò riferimento solo ad alcuni dei suoi lavori scientifici, ossia a quelli che, in relazione alla mia esperienza e all’esame del lungo periodo mi sono sembrati più significativi.

Tra i primi lavori scientifici va ricordato lo studio su leccio e sughera (“La sughera (Quercus suber) ed il leccio (Quercus ilex) nella vegetazione arborea mediterranea”, 1935); un’analisi, nell’ambito del bacino mediterraneo, dei parametri climatici ed edafici che condizionano la distribuzione di queste due specie, quindi la definizione delle loro esigenze e delle conseguenze della pesante e prolungata azione antropica sugli areali. In questo lavoro de Philippis definisce pertanto i limiti dell’ambiente mediterraneo e le formazioni vegetali che sostituiscono la lecceta, assunta come formazione forestale climax. In questo studio egli assume una posizione critica nei riguardi della fitosociologia, come metodo per analizzare la vegetazione, mentre sostiene l’importanza rivestita dalla “concomitanza di alcune fondamentali esigenze ecologiche” e dai “motivi storici o stazionali” nel controllare la distribuzione delle specie. È una presa di posizione che si inserisce nella polemica in atto tra scuole diverse di studiosi della vegetazione e coerente con le idee della scuola fiorentina e con il concetto di “ecoide” formulato da Negri nel 1914, favorevole, come recita il titolo di un suo fondamentale studio, ad una “interpretazione individualistica del paesaggio vegetale”. Nel 1937 appare lo studio su “Classificazioni ed indici del clima” che vengono passati in rassegna per valutarne la validità come strumenti per interpretare la distribuzione di specie e di formazioni forestali. Da questo studio esce rafforzata la validità della classificazione fitoclimatica proposta da Pavari nel 1916, come sostanziale modifica della classificazione di Mayr (1909), ossia si conferma il ruolo determinante del clima nella distribuzione geografica delle grandi formazioni forestali del nostro Paese. Nuovamente, de Philippis sottolinea che se gli areali dipendono anzitutto dal clima, la storia del clima e della flora (sia di lungo che di breve periodo) possono spiegare varie anomalie di distribuzione. Questa revisione e perfezionamento hanno messo a disposizione dei tecnici forestali uno strumento di grande importanza pratica per la scelta delle specie legnose da impiegare nei rimboschimenti.

Appare nel 1942 (primo anno in cui de Philippis tiene il corso di Selvicoltura) una “Introduzione ad una biologia forestale” che costituisce il progetto di un trattato mai scritto, ma che i vecchi allievi riconoscono come la traccia delle lezioni da lui tenute e raccolte nelle dispense, per lo meno fino agli anni Sessanta. Di questo lavoro sono significative, accanto all’ampiezza della visione e quindi delle discipline che sono necessarie per la conoscenza del bosco, la percezione del dinamismo della collettività e l’affermazione che il bosco è membro di una collettività, la biocenosi (termine impiegato da Moebius nel 1877 per indicare “una certa quantità di vita che entra in un certo numero di individui”, che precorre quello di ecosistema introdotto nel 1935 da Tansley). È significativo però anche il rifiuto di considerare l’esistenza di un “organismo foresta” in cui esisterebbe armonia e non lotta: de Philippis afferma che nella collettività boschiva i singoli individui non si ripartiscono il lavoro ma si condizionano reciprocamente. Questa posizione, di scuola “individualistica”, ha un chiaro riflesso sui problemi di ordine applicativo, in particolare per ciò che riguarda i tagli intercalari e di rinnovazione. Ritengo significativa un’affermazione, contenuta in questo lavoro: “è necessario procedere in primo luogo alla conoscenza intrinseca dei fenomeni e poi all’indagine sulle cause”; si potrebbe pensare, a prima vista, ad una banalità ma l’opera di de Philippis fornisce invece sistematicamente una dimostrazione della sua applicazione: ne è un esempio lo studio minuzioso della distribuzione della vegetazione forestale accompagnata dall’esame del ruolo dei fattori del clima.

I primi anni dell’attività scientifica di de Philippis coincidono, come si è detto, con il forte sviluppo assunto dai rimboschimenti, spesso di terreni degradati e quindi con una preminente funzione di difesa del suolo; alcuni studi da lui condotti rappresentano un contributo per affrontare con metodo scientifico questa problematica. Nel 1937 appare uno studio sulle “varietà di Pinus nigra e la reazione del suolo”, nel 1939 viene pubblicata dalla Stazione Sperimentale di Selvicoltura la ricerca “Sulla tecnica di preparazione del suolo per il rimboschimento in clima caldo-arido” e, nel 1949, lo studio sui diradamenti boschivi (preceduto da alcuni articoli sulle classificazioni arboree, sul riconoscimento dei semi, sulla piantagione delle acacie nelle sabbie non fissate). In questi lavori sono significativi la rilevanza del problema affrontato e la lucidità dell’impostazione, la metodologia sperimentale, la chiarezza nella discussione dei risultati oltre che, come in altri lavori, la dimensione della ricerca bibliografica e l’acume critico con cui questa è condotta. Per quanto riguarda lo studio sui diradamenti si resta forse stupiti da quanto poco sia stato utilizzato questo bellissimo lavoro, svolto - non mi sembra inutile ricordarlo - durante e immediatamente dopo la guerra, con la sede della Facoltà temporaneamente occupata dalle truppe alleate e quindi, in particolare la biblioteca, male agibile.

La problematica dei rimboschimenti, ma, in questo caso, la questione della produzione di legno in quanto materia prima necessaria all’economia del Paese, è anche alla base dello studio che appare nel volume, pubblicato con Pavari, sulla sperimentazione di specie forestali esotiche e, più precisamente, delle latifoglie. Già nel 1935 de Philippis aveva trattato il problema dell’introduzione degli eucalitti in Italia e della possibilità di valorizzarli per la preparazione di frangiventi e per la produzione di combustibile, di paleria da miniera e di traversine ferroviarie. In questo studio vengono comunque trattate varie altre specie tra le quali il noce nero e la quercia rossa che in tempi recenti sono diventati di nuovo oggetto di interesse colturale.

Sembra quasi che le ricerche sui diversi aspetti e stadi della ricostituzione del bosco - dai caratteri dei semi (risale al 1948 la creazione del Laboratorio per i semi forestali presso l’Istituto di Selvicoltura), attraverso la scelta delle specie - anche esotiche - e le modalità di preparazione del suolo, fino al trattamento dei giovani soprassuoli - siano state il risultato di un programma scientifico di lungo periodo e di ampio raggio, coerente con la linea di valorizzazione del territorio nazionale in atto, e quindi rivolta a fornire un supporto scientifico a quella che era una impegnativa impresa tecnica di notevole rilevanza ambientale e sociale.

De Philippis assume nel 1952 la direzione del Centro di Sperimentazione Agricola e Forestale, istituito in quell’anno, dell’Ente Nazionale Cellulosa e Carta. Il Centro si prefiggeva lo studio delle specie legnose a rapido accrescimento adatte all’ambiente mediterraneo, da impiegare sia nei rimboschimenti veri e propri che nelle alberature e nei frangiventi, strutture arboree molto importanti nei territori di bonifica generalmente situati in prossimità del mare. Al 1947 risale lo studio sulla “Selvicoltura della montagna appenninica ed insulare”. La descrizione che viene fatta dei boschi e della loro gestione spiega la preoccupazione diffusa per la loro conservazione e l’attenzione rivolta ai rimboschimenti. I suggerimenti di gestione, che vengono commentati con l’espressione “minimo di tecniche ma massimo di arte colturale”, rivelano la buona conoscenza che de Philippis aveva dell’ambiente, sia fisico che sociale, dell’Italia centro meridionale. In questo lavoro è significativa l’affermazione che alla radice dei problemi forestali (incendi, irrazionalità delle utilizzazioni, pascolo in bosco etc.), oltre che le pessime condizioni di viabilità e dei mezzi di trasporto, stava l’alta densità della popolazione; se quindi da un lato era auspicabile, secondo de Philippis, un calo della pressione demografica, era dall’altro necessario realizzare un “equilibrato trinomio” tra agricoltura, selvicoltura e pastorizia. Nel 1962 questa tesi viene ribadita: la montagna è “bosco più coltivi più pascolo”. Essa riecheggia le parole scritte nel 1920 da Serpieri: “I progressi della selvicoltura non sono realizzabili se non attraverso i progressi anche degli altri rami dell’agricoltura di montagna”.

L’interesse per la problematica forestale mediterranea è manifestato anche dai lavori sul castagno e sul cerro; questa seconda specie, in particolare, era stata oggetto di uno studio molto ampio e non concluso. Nel 1948 appare lo studio sulle “basi ecologiche della selvicoltura mediterranea” nel quale de Philippis tratta il tema, affidato a lui e a Gaussen da Sylva Mediterranea, della definizione di areale mediterraneo e della stesura di una carta con la rappresentazione dei limiti climatici (la carta sarà presentata nel 1954). Nel 1948 in uno scritto su “Alcune forme di trattamento delle fustaie” de Philippis mette in evidenza la povertà di linguaggio tecnico che caratterizza la lingua italiana relativamente a questa forma di governo e procede ad una definizione dei diversi caratteri (tipo di taglio, forma, estensione ecc.) che definiscono le modalità applicative degli interventi di taglio. Due anni dopo, nel 1950, con il saggio intitolato “Selvicoltura libera o regolata?”, dopo aver affermato che la selvicoltura deve combinare la tecnica con l’arte, e quindi la capacità di intuizione del tecnico forestale con l’applicazione di regole specifiche di valore e comprensione generale, esamina i caratteri della selvicoltura moderna e nota come vadano diffondendosi tagli su piccole superfici ravvicinabili al taglio saltuario, che potevano costituire termini di passaggio tra questo tipo di taglio e i tagli successivi. Sembra evidente l’influenza della selvicoltura svizzera, a lui nota, oltre che dalla letteratura, da una visita compiuta in quegli anni ai boschi del Giura; ma giocava certamente un ruolo importante la conoscenza personale con i docenti di Selvicoltura europei e in particolare con Hans Leibundgut, di Zurigo, e Joseph Koestler, di Monaco, entrambi sostenitori di una selvicoltura naturalistica. Deve qui essere ricordata, anche se di 12 anni successiva, la voce “Selvicoltura” redatta per l’Enciclopedia agraria italiana, nella quale vengono chiaramente descritti sia i metodi della selvicoltura classica, sia le più moderne tendenze della tecnica colturale. De Philippis, tra l’altro, sottolinea chiaramente la differenza tra la selvicoltura, che costituisce una tecnica da praticare ove si voglia coltivare o ricostituire in permanenza il bosco e si miri ad una autosufficienza in termini di energia e di materiali, e l’arboricoltura da legno. Con l’“indirizzo naturalistico della selvicoltura” (La selvicoltura di fronte al crescente fabbisogno dei prodotti legnosi, 1967) gli interventi tecnici devono essere subordinati alla valutazione dei loro effetti per alterare in misura limitata l’equilibrio bio-ecologico dei sistemi forestali oppure per ripristinarlo.

Su questi temi de Philippis ritorna nel 1970 con lo studio su “Governo e trattamento dei boschi: dall’insegnamento di Vallombrosa alla realtà di oggi” nel quale, nel ricostruire in maniera magistrale la storia dell’insegnamento della Selvicoltura in Italia dalla costituzione della Scuola di Vallombrosa agli anni Trenta del secolo scorso, dimostra come la concezione naturalistica abbia nel nostro Paese radici antiche e già traspaia dalle dispense delle lezioni redatte da Alberto Cotta, nel 1905, dove si suggerisce che per la scelta del trattamento ci si debba orientare su “indicazioni precise della natura”. De Philippis dimostra come la selvicoltura naturalistica, che deve comunque confrontarsi con le finalità economiche della coltivazione dei boschi, abbia una continuità nella storia dell’insegnamento con gli scritti di Piccioli, Di Tella e Pavari e ne delinea i più recenti sviluppi consentiti dallo studio del bosco come ecosistema. Questa posizione viene rafforzata negli anni immediatamente successivi come conseguenza dell’influenza esercitata dalla seconda edizione del trattato di Odum (1971); ciò avrebbe comportato un radicale cambiamento anche nel contenuto delle lezioni da lui tenute. Con la nuova impostazione che egli dà al suo corso universitario, le attività selvicolturali vengono inquadrate e analizzate nell’ottica ecosistemica. E quindi l’insistenza, in sede di insegnamento, sui “concetti unificanti dell’ecologia”: produttività degli ecosistemi, ciclo degli elementi, flusso energetico, stabilità, diversità: un preludio, si direbbe, al dibattito aperto con il Protocollo di Kyoto e la funzione delle foreste in quanto serbatoi di carbonio.

Dalla lettura degli scritti di de Philippis si ricava l’impressione che l’approccio “odumiano” non costituisca una totale novità -ricordo il riferimento, fatto trenta anni prima, alla biocenosi - ma un modo efficace per ordinare pensieri ed esperienze maturate attraverso lunghi anni: complessità delle relazioni che legano il soprassuolo forestale all’ambiente, processi dinamici di successione, conoscenza della struttura e dell’evoluzione in foreste indisturbate dall’uomo (foreste vergini, riserve integrali). Allo stesso tempo questi scritti recepiscono i nuovi problemi emersi: il costo del lavoro, le difficoltà della meccanizzazione, infine la pressione esercitata sul bosco dall’uso che ne viene fatto per la ricreazione. E qui esprime il timore che “il modello.del bosco misto, disetaneo, a trattamento libero e selettivo, per piede d’albero o per piccole superfici, rischierà di restare accantonato nel limbo della teoria” e indica, come compromesso tra il “fallito” obiettivo del bosco economico e “l’irrealistica meta” del bosco naturale (proposta da persone animate da “spirito conservazionistico spinto a livello dogmatico”) il compromesso del bosco colturale, coltivato con criteri naturalistici, nel rispetto dei quali si deve cercare la soluzione alle necessità economiche della selvicoltura. Su questo tema de Philippis ritorna in più occasioni, anche stimolato dalle proiezioni che indicavano, a livello mondiale, un crescente fabbisogno di legno, la progressiva contrazione della superficie forestale e quindi la necessità di aumentare la produzione legnosa.

Se si vuole fare un bilancio di questi primi decenni di attività si nota come i cambiamenti verificatisi nell’economia, nella tecnica e nella società hanno reso obsoleti alcuni temi che hanno costituito oggetto di attenzioni e di studi da parte di de Philippis. Il pascolo svolge un ruolo subordinato nell’economia del Paese e la proposta di trasformare i castagneti colpiti da Cryphonectria parasitica in terreni agricoli non riesce forse comprensibile se non si ricorda (come proprio fa de Philippis nel 1955) che la selvicoltura dei querceti era resa molto difficile dalla consuetudine di praticare nei boschi la coltura di grano e segale e come nell’Italia centro-meridionale fossero vicende recenti le occupazioni di terre boschive da parte delle popolazioni rurali spinte dalla fame di terra. Ricordo, per inciso, come la legge di riforma agraria sia stata emanata nel 1950 e che durante il periodo 1951-1970, nonostante iniziative di sostegno all’economia di montagna (legge 911 del 1952) siano emigrati dal Mezzogiorno, ed in buona parte dalle aree agricole, 4.200.000 persone su un totale di circa 19 milioni di abitanti.

L’insistenza sui principi ecologici che devono guidare il selvicoltore si affianca alla sensibilità per le esigenze della società - dalle condizioni di vita nella montagna durante la prima metà del secolo scorso allo sfruttamento delle risorse di legname nei Paesi in via di sviluppo - e alla coscienza della responsabilità che l’uomo ha nelle trasformazioni della biosfera. De Philippis fa riferimento in più occasioni alle necessità economiche che muovono la selvicoltura: egli si chiede infatti, ancora in anni in cui questi problemi avevano un significato, se “possiamo prenderci il lusso di ridurre le utilizzazioni” dei boschi comunali così da ridurne pesantemente i redditi. E rileva anche la contraddizione creata da una politica di risparmio dei boschi, auspicata dai Paesi dell’Occidente, e il saccheggio delle risorse forestali che l’Occidente stesso pratica nel cosiddetti Paese in via di sviluppo. Nel 1979 egli ritorna al “confronto tra paesi poveri, paesi ricchi di petrolio e paesi industrializzati”. Nell’analisi, condotta, nel 1976, della “Questione forestale in Italia” egli, oltre a sottolineare gli obiettivi di aumentare la produzione legnosa mette anche in evidenza il fatto che attraverso la selvicoltura si sarebbe creata occupazione.

Il dibattito che si apre negli anni Sessanta sul rapporto tra selvicoltura e conservazione della natura porta de Philippis a sottolineare i rischi di un totale abbandono colturale e a sostenere la necessità della selvicoltura naturalistica che comunque deve tenere conto del contesto socio-economico in cui viene applicata; è interessante la confluenza delle posizioni di de Philippis con quelle di Giacomini, maestro della scuola fitosociologica, che nel 1978, accanto a de Philippis nel presentare la carta forestale della provincia di Latina, sostiene l’importanza delle attività forestali per risolvere “problemi che appartengono a una ecologia più grande, più vera, che pone in posizione centrale le esigenze legittime, essenziali e reali delle popolazioni”.

L’attività durante gli anni Ottanta sembra infatti costituire una più approfondita interpretazione della selvicoltura alla luce dei nuovi concetti elaborati in ecologia e del nuovo ruolo assunto dal bosco rispetto alla società. Vengono così discussi i temi dell’uso multiplo del bosco, della biodiversità, del fabbisogno di legno, dei parchi e delle aree protette, della “funzione sociale” della foresta. Ogni problema di attualità viene affrontato attraverso un’analisi critica e una collocazione in un contesto scientifico o sociale più ampio. Il dibattito sulla opportunità di realizzare interventi selvicolturali, naturalmente mirati agli specifici obiettivi della gestione di un determinato tratto di territorio, è acceso, in particolare quando, in quegli anni, viene addirittura avanzata la proposta di eliminare tout court la parola “selvicoltura”, sostituendola con l’espressione “manutenzione del bosco”. Non è forse un caso che nel corso dei 12 anni durante i quali de Philippis ha presieduto l’Accademia Italiana di Scienze Forestali la parola selvicoltura compaia nel titolo di 6 delle quattordici pubblicazioni da Lui firmate! Nell’apertura dell’anno accademico del 1988 Egli afferma che “a costo di diventare noioso, la preservazione dei boschi ancora esistenti si deve proprio alla selvicoltura”.

Mi sembra importante dedicare un piccolo spazio per ricordare il ruolo di de Philippis nelle vicende della Facoltà durante il 1968. Nella primavera di quell’anno la Facoltà di Agraria dell’Università di Firenze era stata occupata dagli studenti e si era creata una forte tensione tra professori ordinari da un lato e assistenti, professori incaricati e studenti dall’altro in merito all’integrazione del Consiglio di Facoltà con una rappresentanza dei secondi. Fu nominato un Comitato di Facoltà in cui erano rappresentate tutte le categorie di docenti e gli studenti per discutere diversi problemi tra cui il rapporto tra Facoltà e Enti cittadini, l’autonomia dell’Università, la sperimentazione didattica. Questo Comitato aveva eletto a moderatore de Philippis un evidente segno della stima che non solo i professori ordinari ma anche la componente studentesca e docente “non ordinaria” avevano di lui.

De Philippis ha vissuto in un periodo durante il quale ha potuto assistere a grandi cambiamenti: dai dissodamenti abusivi per conquistare terreni da mettere a coltura al ritorno spontaneo del bosco sui coltivi abbandonati, dal bosco come produttore di legno e simbolo di una risorsa indispensabile alla sopravvivenza, oltre che fonte di occupazione, a simbolo di uno spazio in cui riposare e svagarsi. Le ragioni dei cambiamenti ci sono note e sono di un ordine di grandezza assai superiore a quello in cui agiscono la tecnica e l’economia forestale. È così mutato il contesto in cui si colloca il rapporto tra bosco e società. La concezione del fondamento ecosistemico della selvicoltura resta valido mentre varie idee e proposte formulate da de Philippis e connesse a situazioni contingenti non reggono più. Quindi possiamo, a conclusione, chiederci quanto del suo lavoro è ancora utile a chi oggi è impegnato nella selvicoltura e nell’ecologia forestale.

Io sento che è in primo luogo un insegnamento di metodo. Anzitutto la ricerca di quanto ci viene dal lavoro altrui, sia di studiosi del passato (e sono i richiami all’“interroga l’albero” di Pfeil o “aiuta la natura e affretta la sua opera” di Parade) sia di quelli più recenti (e de Philippis aveva tratto sistematicamente idee dai classici dell’ecologia e della geografia, fino a Odum e, in seguito, a Borman e Likens) fornendone una costruttiva elaborazione. Inoltre il procedimento di lavoro: le linee di fondo dell’analisi devono essere ancorate ai criteri della scienza, le soluzioni proposte vengono determinate in base ai condizionamenti locali e contingenti. La necessità non di elaborare formule ma di comprendere i fenomeni e di suggerire processi logici.

Voglio citare un frase di de Philippis contenuta in una nota, stesa nel 1971, relativa al problema del rapporto tra foreste ed alluvioni: nel suggerire una “visione globale dei fattori che concorrono a determinare il fenomeno che interessa” - in questo caso il ciclo dell’acqua - Egli auspicava discussioni e non controversie “studi e ricerche concrete, caso per caso, non esempi imprestati e di significato incerto; azione comune, non concorrenza che può sembrare di mestiere”. Ma è anche una indicazione di comportamento. Anche se il tema non appare mai come elemento principale ed esplicito della trattazione, de Philippis ha ben presente il ruolo che la società umana ha sul territorio: l’azione che essa ha esercitato nel passato per scopi e con mezzi diversi, l’invenzione di una tecnica - la selvicoltura - per trovare risposte a bisogni specifici, la diversità nelle scelte di uso del suolo tra paesi ricchi e paesi poveri. Vorrei dire che proprio negli anni Trenta, all’inizio della carriera Egli ha tratto dalla realtà italiana - il fabbisogno di legno, il dissesto dei boschi e dei terreni, le necessità delle popolazioni di montagna - gli spunti per la ricerca che avrebbe condotto nei decenni successivi; un esempio, che anticipa i problemi posti dalla contestazione degli anni Settanta e oggi dal VI programma quadro dell’UE, di come la scienza può confrontarsi e rapportarsi con i bisogni della società.

In seguito all’invito di Borghetti ho letto o, più spesso, riletto gli scritti di de Philippis, così da poter ricostruire alcuni tratti di un personaggio che ha segnato la storia della cultura forestale in Italia. Ma per chi ha collaborato direttamente con lui rimane anche il ricordo del suo modo di comunicare con lezioni, conferenze o semplici conversazioni: un modello di chiarezza espositiva, di lucidità di pensiero, e di modestia. È, forse, anche questo un insegnamento, certamente non facile da seguire, che de Philippis ci ha trasmesso.

 
 
 

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