About “Kyoto” and our forests
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 5-6 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0263-0002
Published: Mar 10, 2005 - Copyright © 2005 SISEF
Commentaries & Perspectives
Dal 16 febbraio, come riportato da tutti i mezzi di informazione, è in vigore il Protocollo di Kyoto. È ben noto che l’obbiettivo dell’accordo è di rendere obbligatorie strategie di contenimento dell’effetto serra, per ridurre la portata e i rischi del cambiamento climatico.
Cambiamento le cui attuali evidenze seguono le previsioni fatte più di dieci anni fa: aumento della temperatura atmosferica e dei fenomeni meteorologici estremi, espansione termica degli oceani, eventi estremi di siccità in Africa, erosione dei ghiacci in Groenlandia, rallentamento della circolazione oceanica nell’Atlantico, foriera di un clima più freddo nell’Europa settentrionale, acidificazione oceanica, pericolosa per la conservazione delle barriere coralline, ecc. Con, in più, recenti evidenze di impatti anche in Antartide, dove si osservano significativi casi di scioglimento dei ghiacci.
Il Protocollo di Kyoto ci dice di quanto devono essere ridotte le immissioni di gas “serra” in atmosfera, ma lascia gradi di libertà su come farlo. Qualche settimana fa, ad Exeter (UK), si sono dati convegno, su invito del premier inglese Tony Blair, più di 200 climatologi, oltre a economisti e politici. È emerso ampio consenso sul fatto che la scienza ha ormai fatto il suo dovere nel mettere in evidenza, descrivere e formulare previsioni su questo fenomeno di valenza globale; e pure sul fatto che scienza e tecnologia mettono a disposizione un ampio ventaglio di possibilità per mitigare il cambiamento climatico.
Opzioni che ora devono essere colte da politici informati e coraggiosi, capaci di fare scelte che sul breve periodo potrebbero anche risultare impopolari, in special modo per l’opinione pubblica occidentale. Tanto per intendersi: lo stesso risultato, in termini di riduzione delle immissioni lo si può ottenere raddoppiando la quota di elettricità prodotta dagli impianti nucleari o costruendo due milioni di centrali eoliche da 1 megawatt ciascuna. Così come, raddoppiando l’efficienza energetica del motore una macchina si può evitare l’immissione in atmosfera di mezza tonnellata di carbonio, su base annua; e si possono anche esplorare tecnologie per ’catturare’ l’anidride carbonica prodotta dalle centrali e “seppellirla” sottoterra (pompandola nei pozzi petroliferi ad esempio); oppure si possono valutare le promettenti possibilità di ricavare “vettori” energetici (idrogeno) dalle biomasse del settore primario, e cosi via.
E poi si può anche ricorrere alle foreste... Sappiamo ormai bene, grazie alle ricerche condotte nell’ultimo decennio, che le foreste svolgono un ruolo importante nell’assorbimento (sink) dell’anidride carbonica atmosferica e quindi nel contenimento dell’effetto serra. Ma grande importanza possono avere anche le biomasse forestali (da piantagioni specializzate ma anche da boschi cedui) come fonti rinnovabili per la produzione di energia; prospettiva interessante anche grazie ai moderni progressi fatti nel campo dei bruciatori e delle caldaie (si veda il documentato articolo, in questo volume, di Magnani e Cantoni). Tutto bene fin qui. E chi scrive non può che prendere atto con favore che le foreste possono contribuire in modo “pulito” alla riduzione della concentrazione atmosferica dei gas serra, come richiesto dal Protocollo di Kyoto, e ad alleviare la “bolletta” energetica del nostro paese (e anche dei singoli cittadini).
Anche perché tutto ciò potrà determinare un rinnovato interesse intorno alle foreste e alla loro gestione, cosa senz’altro positiva. Ma a un patto però: che non si dimentichi mai il principio della “sostenibilità” e che tale concetto, da topos un po’ logorato dall’uso, si traduca realmente in linee gestionali attente alla funzionalità dell’ecosistema forestale.
E affinché sia veramente così - occorre dirlo chiaramente - qualsiasi ipotesi di utilizzazione a fini energetici delle biomasse forestali dovrebbe essere preceduta, caso per caso, bosco per bosco, da un’accurata fase di studio e da un processo di pianificazione, sia a scala aziendale che di area vasta, che tenga conto di tutti gli aspetti che riguardano la funzionalità e la conservazione dell’ecosistema e del territorio, anche sul lungo periodo, prevedendo i vincoli opportuni. Perché, dopo secoli di sovra-sfruttamento e di pesante degrado, di tutto possono avere bisogno i nostri boschi (quelli cedui ancor di più) tranne che di una gestione modulata unicamente sullo sfruttamento a scopi energetici della loro biomassa.
Tanto è “rinnovabile”, non è vero ?