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“Quality” silviculture: everybody agree, but it is really applied?

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 141-142 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0297-0002
Published: Jun 08, 2005 - Copyright © 2005 SISEF

Editorials

Abstract

Some comments are made on the application of closed-to-nature silviculture in Italy.

Keywords

Silviculture, Constraint, Forest management, Italy

 

Negli ultimi anni si è detto e scritto molto a proposito di una selvicoltura di “qualità” che, rispettando i processi naturali secondo i quali le foreste funzionano, si sviluppano e si evolvono, possa diventare il perno della loro gestione sostenibile.

Mi riferisco alla selvicoltura naturalistica - denominazione che trattengo (...da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...) a scapito di altre locuzioni (selvicoltura prossima alla natura e similari) forse più rigorose ma lievemente pedanti - le cui caratteristiche sono state tratteggiate da Marco Paci nel penultimo numero di Forest@.

Per sommi capi, essa si basa sui principi del mantenimento della copertura, della promozione della rinnovazione naturale, della definizione di interventi colturali a scala differenziata, partendo dal presupposto che il bosco è un mosaico di situazioni stazionali e strutturali, da gestire con interventi modulati sulle singole “tessere” ecosistemiche, anche con prelievi frammentati nello spazio. Si tratta di idee e proposte colturali che certo hanno tratto vigore dal fiorire dei tanti studi sul funzionamento degli ecosistemi forestali fatti negli scorsi anni, e che hanno riscosso attenzione anche al di fuori del mondo strettamente forestale.

C’è ampio consenso (anche la S.I.S.E.F., giusto in questi giorni, sta proponendo su queste tematiche un corso di aggiornamento) sul fatto che questo approccio selvicolturale possa portare a un significativo recupero dei parametri biologici e funzionali degli ecosistemi forestali, spesso deteriorati in seguito a lunghi secoli di sovrasfruttamento e utilizzazioni irrazionali, e possa dimostrarsi metodo efficace per coniugare le funzioni tradizionali della foresta con altri aspetti che stanno acquisendo vieppiù importanza, quali il contributo delle foreste al ciclo globale del carbonio, la conservazione e la valorizzazione della diversità biologica, ecc. Un approccio, fra l’altro, che certamente soddisfa anche le necessità della gestione forestale nell’ambito delle aree protette.

In pratica, tuttavia, è piuttosto viva la sensazione che a questo promettente e accattivante quadro “ideale” faccia spesso riscontro una diversa “realtà effettuale”, allorquando e laddove la selvicoltura da idea debba diventare coltivazione, prelievo di alberi, utilizzazione della risorsa legnosa, manipolazione della diversità sistemica. Il tutto nell’ambito di una “gestione adattativa” impostata alla stregua di un esperimento, imparando dagli errori e procedendo con successivi aggiustamenti.

Si nota spesso che gli obbiettivi più ambiziosi (pur scritti nei piani) vengono differiti nel tempo, che si tendono a privilegiare le cose semplici (quanto di più si lavora sui cedui che non sulle fustaie e quanta ritrosia a intervenire sulle fustaie mature!), che si ripiega per “prudenza” su consolidati e vecchi schemi; oppure che ci si adagia sull’inattività. Questo in molte zone del nostro paese, con le solite lodevolissime eccezioni.

Molti motivi possono essere addotti a giustificazione di chi concretamente opera sul campo. Certamente gli obiettivi della selvicoltura naturalistica sono ambiziosi e ci può essere un ragionevole timore da parte dei tecnici a percorrere nuove strade. Sicuramente in diversi casi i contesti ambientali e territoriali (orografia, strade, ecc.) non rendono compatibile un tipo di prelievo frammentato con gli interessi economici della proprietà e delle imprese di utilizzazione. Altrettanto vero è il discorso che riguarda la disponibilità di maestranze boschive adeguatamente preparate, ecc.

Riconosciuto ciò, pare di scarsa consolazione sostenere che si tratta di problemi che di per sè esulano dal “metodo” selvicolturale, attenendo invece ai settore dell’economia e della politica forestale, in ultima analisi alla disponibilità di risorse finanziarie. Dato che, quasi tutti sono d’accordo, così come l’agricoltura anche la selvicoltura va adeguatamente sussidiata. Invero, in molti casi si ha l’impressione che limitante non sia il fattore economico in quanto tale, ma l’incapacità di rendere “economica e motrice di sviluppo locale” la gestione forestale. Cosa che invece è certamente possibile, se perseguita con impegno, onesta e intelligenza da parte degli amministratori.

Perché, tanto per fare un esempio non casuale (si veda l’articolo di Verani e Sperandio pubblicato in questo numero), se in alcune aree esiste una certa arretratezza delle imprese di utilizzazione boschiva, si dovrebbe capire che incentivare adeguatamente il loro progresso tecnologico e organizzativo non serve solo a migliorare la qualità della selvicoltura (il che è vero ma forse a molti non interessa granché) ma a promuovere un settore della società e dell’economia. Così come, e in alcune aree anche questo è un problema vivo, favorire la qualificazione e l’organizzazione imprenditoriale di tante maestranze forestali oggi spesso impiegate con criteri di mero assistenzialismo, darebbe maggiore dignità, e anche efficacia gestionale, alle risorse finanziarie stanziate per il settore forestale.

E servirebbe anche ad aumentare le chances di fare una selvicoltura di “qualità”.

 
 
 

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