A possible approach to evaluate the ecological restoration potential of artificial conifer stands
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 2, Pages 275-277 (2005)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0309-0002
Published: Sep 21, 2005 - Copyright © 2005 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
A comment is made on the approach proposed by Hérault et al. ([2]) for the evaluation of the restoration potential of plant communities in artificial Norway spruce stands; the possible application of this approach to artificial conifer stands in Italy is discussed.
Keywords
Ecological restoration, Forest plantations, Functional groups
E’ stato recentemente pubblicato sul Journal of Applied Ecology un lavoro di Bruno Hérault, Olivier Honnay e Daniel Thoen dal titolo “Evaluation of the ecological restoration potential of plant communities in Norway spruce plantations using a life-trait based approach” ([2]). L’approccio metodologico e i risultati ottenuti offrono alcuni interessanti spunti di riflessione in merito alla rinaturalizzazione dei soprassuoli forestali nell’ambito della più ampia disciplina del “restauro ecologico”.
Secondo gli Autori le piantagioni di conifere gestite in maniera intensiva per la produzione di legno in Europa non riescono a svolgere la funzione di conservazione della natura come i boschi di latifoglie di origine naturale e quindi uno dei principali obiettivi della gestione forestale sostenibile deve essere quello di individuare quelle piantagioni che possono essere trasformate con successo in boschi di latifoglie.
In linea con quanto sostenuto da molti autori che si occupano di restauro ecologico (vedi, ad esempio, White & Walker 1997) Hérault e colleghi ritengono che per procedere alla rinaturalizzazione sia necessario avere un ecosistema di riferimento, che nel caso delle piantagioni di abete rosso essi identificano nei boschi naturali di latifoglie situati in condizioni ecologiche similari. Il presupposto da cui partono gli Autori è che il potenziale per rinaturalizzare con successo una piantagione di conifere dipenda dalla similitudine fra la piantagione e il modello di riferimento in termini di composizione dello strato erbaceo.
Per ottenere risultati che siano facilmente trasferibili in altre aree, gli autori propongono di abbandonare l’approccio tradizionale basato sulle specie per focalizzare l’attenzione sui gruppi funzionali di specie, cioè su gruppi di specie che hanno in comune caratteristiche biologiche piuttosto che filogenetiche. In particolare, gli autori hanno preso in considerazione i gruppi emergenti (emergent groups ’ EG) definiti da Lavorel et al. ([4]).
All’interno di piantagioni di conifere la composizione di comunità di piante erbacee è determinata dalla loro persistenza (sia come semi sia come individui) dopo la piantagione, dalla loro capacità di dispersione da boschi adiacenti e dalla capacità di affermazione in condizioni abiotiche leggermente diverse da quelle dei boschi di latifoglie. Gli obiettivi generali del lavoro sono stati quindi di duplice natura: da un lato raccogliere informazioni per meglio comprendere la combinazione di caratteri biologici responsabili della persistenza, dispersione e affermazione di specie erbacee nelle piantagioni di conifere; dall’altro lato determinare l’effetto relativo della gestione forestale, delle condizioni ecologiche locali e delle variabili regionali sul potenziale di rinaturalizzazione di questi soprassuoli. L’analisi è stata condotta in tre fasi. Innanzitutto sulla base di una classificazione multivariata dei caratteri biologici sono stati identificati i gruppi emergenti (EG) dalla flora locale. Successivamente è stata confrontata l’abbondanza dei gruppi emergenti in piantagioni di conifere e in boschi di latifoglie in condizioni ecologiche similari. Infine è stata determinata l’importanza relativa della gestione forestale e delle variabili locali e regionali nel determinare l’abbondanza dei diversi EG sotto Picea abies.
La ricerca ha preso in considerazione piantagioni di abete rosso e boschi di latifoglie di origine naturale situati nel Granducato del Lussemburgo e in zone adiacenti. Sono state esaminate 85 piantagioni di abete rosso di età intorno a 45 anni, età vicina al turno consuetudinario nella zona, e 155 popolamenti di latifoglie di età variabile fra 50 e 220 anni, appartenenti all’alleanza fitosociologica dell’Alno-Padion e senza evidenti segni di utilizzazione recente. La zona è caratterizzata da una grande varietà di suoli e di copertura: sono stati esaminati sia soprassuoli isolati sia soprassuoli immersi in zone densamente boscate; la dimensione dei soprassuoli varia da 500 a oltre 14000 m2.
I rilievi hanno riguardato tutte le specie erbacee presenti e il loro grado di copertura. Nelle piantagioni di abete rosso sono stati rilevati i parametri dendrometrici, alcune variabili del suolo e sono stati calcolati due indici di connettività (connettività forestale e connettività lungo corsi d’acqua) usando un modello proposto da Hanski ([1]).
Per definire i gruppi funzionali di specie sono stati selezionati 14 caratteri biologici facilmente rilevabili e collegati alla capacità di dispersione, insediamento e persistenza delle specie erbacee. Seguendo la metodologia proposta da Verheyen et al. ([5]) sono stati individuati 7 gruppi funzionali: perenni anemocore, annuali, graminoidi, elofite, piccole perenni, piccole geofite e perenni zoocore.
Confrontando l’abbondanza dei diversi gruppi sotto le piantagioni di abete rosso e nei boschi di latifoglie sono state evidenziate differenze significative: mentre le piccole perenni (comprendenti, ad esempio, Galium odoratum, Oxalis acetosella, Ranunculus repens, Viola reichenbachiana) erano più o meno ugualmente abbondanti nelle due situazioni, gli altri sei gruppi funzionali hanno mostrato valori molto diversi. In particolare le annuali (Geranium robertianum, Impatiens sp.p., ecc.), le perenni anemocore (Dryopteris dilatata, Dryopteris filix-mas, Epilobium angustifolium, Taraxacum gr. Subvulgaria, ecc.) e le zoocore perenni (Bromus ramosus, Deschampsia caespitosa, Stellaria nemorum, ecc.) erano favorite sotto le piantagioni, mentre gli altri tre gruppi funzionali (graminoidi, elofite e piccole geofite) sono apparsi svantaggiati. Le maggiori differenze fra le due tipologie forestali sono state rilevate per le piccole geofite.
L’esame delle correlazioni fra abbondanza dei diversi gruppi funzionali, caratteristiche del suolo (pH e spessore della lettiera), parametri dendrometrici dei soprassuoli di conifere e indici di connettività ha messo in evidenza alcune interessanti interazioni. Per esempio la connettività forestale ha fortemente favorito la presenza del gruppo delle zoocore perenni, mentre l’aumento della densità dei soprassuoli, della connettività forestale lungo corsi d’acqua e del pH del suolo è correlato con una diminuzione nell’abbondanza del gruppo delle perenni anemocore. Questo stesso gruppo viene invece avvantaggiato dall’aumento della superficie del soprassuolo, mentre l’aumento della connettività lungo corsi d’acqua insieme all’aumento del pH del suolo ha fortemente favorito la presenza delle piccole geofite.
Nella discussione dei risultati ottenuti gli Autori evidenziano come dei sette gruppi funzionali individuati solo due (piccole geofite e perenni zoocore) comprendano specie tipicamente forestali. In particolare, è alle piccole geofite che viene attribuito il maggior valore naturalistico nelle foreste temperate; questo gruppo funzionale riveste quindi, secondo gli Autori, un particolare interesse per valutare la potenzialità di rinaturalizzazione. La conclusione a cui pervengono è che la presenza di gruppi funzionali di piante tipicamente forestali dipende soprattutto dalla connettività forestale. E questo è chiaramente dipendente dal fatto che questi gruppi funzionali sono caratterizzati da specie con semi grandi e tassi di dispersione molto bassi oppure da semi grandi che vengono diffusi dai grandi erbivori forestali. Fra le variabili dendrometriche, la densità del soprassuolo è direttamente correlata alla frequenza e al grado degli interventi. Poiché i gruppi funzionali generalisti, che entrano in competizione con le specie tipicamente forestali, sono favoriti da alti livelli di illuminazione, gli Autori suggeriscono l’opportunità, ai fini della rinaturalizzazione, di evitare diradamenti di forte intensità che nelle condizioni studiate favoriscono l’aumento di specie esigenti di luce come Urtica dioica.
Gli Autori concludono che il miglior indicatore delle possibilità di successo per la rinaturalizzazione di piantagioni di abete rosso è il gruppo funzionale delle piccole geofite. Ne consegue che nella zona esaminata le piantagioni che si trovano su suoli ricchi di basi e in paesaggi caratterizzati da una elevata connettività forestale lungo corsi d’acqua sono le migliori candidate per la rinaturalizzazione. Dal punto di vista della gestione essi suggeriscono di operare con interventi graduali e di bassa intensità.
Quale può essere l’interesse dei risultati ottenuti da Hérault e colleghi per la situazione italiana?
Anche nel nostro Paese una gestione orientata alla rinaturalizzazione viene sempre più spesso indicata come preferibile per i rimboschimenti. Questi soprassuoli sono stati realizzati con obiettivi diversi rispetto alle piantagioni qui esaminate, che hanno funzioni esclusivamente produttive e che sono state impiantate in sostituzione di boschi di latifoglie o su terreni precedentemente coltivati a prato. Nel nostro Paese i rimboschimenti hanno interessato perlopiù zone degradate, dove la copertura forestale era assente da tempo a causa di un intenso sfruttamento. Spesso la funzione principale degli impianti è stata quella di favorire la conservazione e la ricostituzione di un suolo forestale come premessa per l’evoluzione verso veri e propri boschi. E tutto questo in condizioni ambientali, vegetazionali e di disturbo antropico molto più varie e diversificate rispetto al centro Europa.
La metodologia proposta da Hérault e colleghi può essere utile per fornire indicazioni sulla dinamica della componente erbacea in relazione alla frammentazione e alla connettività del paesaggio forestale, fattori sicuramente importanti ai fini della rinaturalizzazione dei rimboschimenti, intesa come approccio colturale tendente a favorire il reinserimento per via autonoma delle specie arboree tipiche della zona. Ma voler derivare indicazioni colturali solo sulla base di particolari caratteristiche dello strato erbaceo fa tornare alla mente quanto già scriveva Alberto Hofmann nel 1957 ([3]): “l’aver considerato un solo strato di vegetazione, quello erbaceo-arbustivo o quello arboreo, al lume di una moderna interpretazione delle biocenosi, costituisce una evidente lacuna.” E questo anche perché “Più si va a Sud e verso le alte catene montuose, più i fattori ecologici diventano numerosi e complessi e più complessa diventa anche la sistematica fitosociologica.”
Una gestione orientata alla rinaturalizzazione, affinché l’approccio colturale sia realmente coerente con l’obiettivo, non può prescindere dalla consapevolezza della complessità dei processi che sottendono la funzionalità degli ecosistemi forestali. Da qui la necessità di sviluppare ulteriormente il dibattito scientifico sul significato di rinaturalizzazione e di restauro ecologico.
References
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