Snow as relevant factor in determining carbon stock in the soil
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 3, Pages 9-11 (2006)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0353-0003
Published: Mar 17, 2006 - Copyright © 2006 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
Based on recent experimental evidence, a comment is made on the importance of snow depth in controlliing soil temperature and decomposition rate of soil organic matter, with special reference to mountain ecosystems.
Keywords
Vasta è la letteratura scientifica che associa al Riscaldamento Globale una serie di feedback “positivi” a causa dei quali parte degli ecosistemi terrestri vedrebbero ridotta la loro capacità di accumulare carbonio e nella peggiore delle ipotesi diverrebbero essi stessi degli emettitori netti di CO2 in atmosfera.
Nonostante l’argomento sia stato recentemente oggetto di un serrato dibattito scientifico ([2], [4], [5], [3]), è accettato dalla maggior parte della comunità scientifica che la respirazione microbica, legata alla decomposizione della sostanza organica a breve e medio turn-over, sia sensibile alla temperatura. Conseguentemente, i modelli più accreditati ([5]) considerano che un innalzamento della temperatura, soprattutto nei sistemi con suoli particolarmente ricchi di sostanza organica determini un significativo incremento di emissione di CO2 in atmosfera per un numero significativo di anni non necessariamente compensato da un incremento della produzione primaria netta (PPN). Recentemente, un lavoro apparso su Nature ([6]) mette in luce come altri fattori ecologici, finora poco considerati, possano avere un ruolo cruciale nel determinare la risposta al Riscaldamento Globale di alcuni ecosistemi forestali.
Una parte ragguardevole del sequestro di carbonio alle medie latitudini del nostro emisfero avviene in ecosistemi forestali montani, dove la neve rappresenta un importante fattore ecologico. È stato messo in evidenza come negli ultimi anni in molti di questi sistemi montani, siano essi americani o europei, ci sia stata una riduzione del 50-75% dello spessore del manto nevoso attribuibile ai cambiamenti climatici.
Al contrario di quello che si potrebbe intuitivamente pensare, le perdite di carbonio per respirazione tardo-invernale in questi sistemi sono elevate, fino a rappresentare oltre il 50% del carbonio accumulato durante la stagione vegetativa. Monson et al. ([6]), monitorando per 6 anni lo scambio netto dell’ecosistema (NEE) di una foresta mista di conifere delle Montagne Rocciose, attraverso la tecnica dell’eddy covariance, hanno verificato per il periodo 1 marzo-15 aprile l’assenza di una correlazione tra NEE e temperatura dell’aria. Al contrario, l’NEE era correlato positivamente alla temperatura media del suolo, la quale a sua volta risultava correlata positivamente secondo un modello polinomiale di secondo ordine allo spessore del manto nevoso misurato il 1 Aprile di ogni anno. Circa 30 cm di neve sarebbero necessari per mantenere la temperatura nel suolo intorno allo zero, permettendo quindi l’esistenza di una non trascurabile attività biologica e una conseguente respirazione del suolo. In particolare, i flussi di CO2 dal suolo misurati in continuo attraverso un modello di diffusione per gradienti hanno mostrato una sensibilità alla temperatura di diversi ordini di grandezza più alta di quella normalmente riscontrata in suoli non ricoperti da neve. I valori di R T (analogo al più comunemente utilizzato Q 10 che esprime la sensibilità del processo respiratorio alla temperatura) calcolati nell’intervallo di temperatura tra -1 e 0 °C sono risultati sorprendentemente pari a 104 e 6.62 X 105, rispettivamente in prossimità degli alberi e in spazi aperti. Questo spiegherebbe perché la capacità di isolante termico del manto nevoso eserciti un’azione così importante sull’entità dei flussi di CO2 dal suolo nel periodo tardo-invernale. Se si considera infatti che i valori di Q 10 normalmente riportati in letteratura e calcolati per variazioni ben più ampie di temperatura non superano il valore di 6, risulta evidente che il fenomeno merita una particolare attenzione. L’ipotesi avanzata dagli autori per spiegare l’alta sensibilità alla temperatura si rifà al concetto di limitazione fisica alla diffusione dei substrati. In altri termini, la formazione di ghiaccio nel suolo limiterebbe la diffusione dei substrati per l’attività microbica, che risulterebbe in tal modo fortemente inibita. Lo scongelamento, al contrario, determinerebbe un grosso “salto” metabolico divenendo disponibili i substrati prima “intrappolati” nel ghiaccio. La più alta disponibilità di substrati in seguito alla rizodeposizione e alla caduta di lettiera fogliare spiegherebbe secondo gli autori la più bassa sensibilità alla temperatura rinvenuta in prossimità degli alberi. In altri termini, in prossimità delle piante si può ipotizzare un gradiente di concentrazione di substrati più elevato e come tale in grado di compensare, almeno parzialmente, le limitazione alla diffusione dei substrati imposte da una temperatura sotto lo zero. Stupisce che gli autori non facciano alcun riferimento alla respirazione radicale, che oltre ad essere verosimilmente più rappresentata in prossimità delle piante, potrebbe avere una diversa sensibilità ad una variazione di temperatura tra -1 e 0 °C rispetto a quella microbica ([1]). Inoltre, le radici si concentrano spesso in orizzonti di suolo sufficientemente profondi, dove i fenomeni di congelamento sono più rari e dove solo una parte dell’attività microbica ha luogo, riguardando quest’ultima orizzonti anche più superficiali. Conseguentemente, non si può escludere che i flussi di CO2 in uscita dal suolo registrati per temperature superficiali abbondantemente sotto lo zero (< -3°C) siano in realtà di sola o prevalente origine radicale. Gli autori non prendono in considerazione questa ipotesi confortati da uno studio di carattere microbiologico. Infatti, attraverso un approccio di biologia molecolare Monson et al. ([6]) hanno constatato come le comunità microbiche fossero significativamente diverse in funzione della stagione. In inverno e tarda primavera la popolazione era costituita prevalentemente da batteri del genere Janthinobacteriun, mentre durante l’estate era il genere Burkholderia ad essere maggiormente rappresentato. Ma quello che più conta è che le due popolazioni hanno evidenziato, come atteso, una sensibilità alla temperatura molto diversa. La comunità microbica estiva non era in grado di crescere alla temperature imposta in laboratorio di 0°C, mentre quella invernale ha mostrato una crescita esponenziale a 0 °C e un tasso di crescita in aumento all’aumentare della temperatura. Inoltre la quantità di biomassa microbica prodotta per unità di substrato utilizzato (growth yield) risultava per la comunità microbica invernale decisamente più alta a 0°C che a temperature superiori. Questi risultati benché mettano in luce un ruolo centrale della comunità microbica nel determinare i flussi di CO2 in uscita dal suolo non sono di per sé sufficienti ad escludere a priori un contributo significativo della respirazione radicale nel periodo tardo-invernale.
In conclusione gli autori sottolineano come lo spessore e la permanenza del manto nevoso possano avere un effetto opposto sul NEE in funzione della stagione. Se durante il tardo inverno il mantenimento di un elevato strato nevoso stimola, come detto, la respirazione eterotrofa, durante la primavera è la fotosintesi lorda (GPP - Gross Primary Productivity) ad essere positivamente stimolata, grazie ad un continuo apporto d’acqua e della disponibilità di elementi nutritivi. L’importanza relativa dei due effetti e le condizioni ambientali durante la parte centrale del periodo vegetativo determinerebbero in via definitiva il valore di NEE dell’anno.
Nel complesso il lavoro di Monson et al. ([6]) rimane un brillante esempio di come fattori ecologici, spesso trascurati negli studi sul ciclo del carbonio, possano essere in realtà determinanti nel modulare la risposta degli ecosistemi forestali ai cambiamenti climatici.
Fortunatamente, in questo caso, il feedback - riduzione del manto nevoso - pare giocare a favore di un incremento delle potenzialità di accumulo di carbonio nel sistema. Il dubbio che permane riguarda l’effetto di lungo periodo. Ad una minore decomposizione della sostanza organica nel periodo pre-vegetativo corrisponderà negli anni una riduzione della disponibilità di elementi nutritivi (fertilità) nel momento cruciale della ripresa vegetativa e quindi una ridotta GPP?
References
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