Analysis of landslides revegetated with autochthonous seeds in the National Park “Foreste Casentinesi, Monte Falterona and Campigna”, Tuscany
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 3, Pages 183-190 (2006)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0370-0030183
Published: Jun 13, 2006 - Copyright © 2006 SISEF
Research Articles
Abstract
In activities aimed to grass cover restoration of landslides, the use of seed mixtures of local, autochthonous species instead of common forage species is a technical choice that faces two difficulties: the scarce availability of seed material and its high costs. For these reasons their utilization is commonly restricted to situations characterised by high ecological or aesthetic value. This paper reports the results of a study carried out on several landslides revegetated in different years of an area located within the “Foreste Casentinesi, Monte Falterona and Campigna” National Park. In these sites the revegetation activities were performed using a mixture of native seeds collected from close natural grasslands. The aim of this work was to evaluate the success of the grass cover recovery and to obtain information on the evolution of species composition in the restored plant community. Data collection was aimed to assess the ground cover, the presence of the different species, the floristic richness and the recolonization by autochthonous species. Results showed a fairly good success in the recovery and a strong persistence of a single species largely represented in the original mixtures (Festuca gr. rubra). Evidence reported here suggests that plant community evolution is strongly dependent on local environmental conditions.
Keywords
Landslides, Natural vegetation, Revegetation, Autochthonous material, Biodiversity, Protected areas
Introduzione
Le operazioni di ripristino vegetale di aree manomesse da attività antropica (cave, scarpate stradali, aree di passaggio di metanodotti, ecc.) o a seguito di eventi naturali (frane, zone di dissesto idrogeologico, ecc.) prevedono una serie di interventi che hanno, come scopo finale, la difesa del suolo dall’erosione ([6], [17]) e l’inserimento dell’opera nel paesaggio circostante ([9]).
Generalmente l’ultima operazione di un intervento di sistemazione ambientale prevede l’inerbimento, pratica che presenta ricadute operative che interessano potenzialmente diverse migliaia di ettari nel nostro paese ([15]). Fra le numerose opzioni tecniche che possono essere adottate (tecnica di inerbimento, quantità di seme da utilizzare, epoca di semina, ecc.) la scelta del miscuglio da utilizzare rappresenta uno dei fattori di maggior interesse e in grado di condizionare il successo dell’intervento.
Attualmente il dibattito è incentrato sull’origine del materiale vegetale, cioè se il miscuglio da impiegare nelle operazioni di inerbimento debba essere di origine autoctona o costituito da materiale commerciale. Nel primo caso si fa riferimento all’uso di specie tipiche degli ambienti in cui viene effettuato l’inerbimento anche se raccolte da formazioni naturali e moltiplicate in ambienti più favorevoli alla coltivazione ([11], [8]). Questi miscugli dovrebbero creare fin da subito formazioni in equilibrio con le condizioni stazionali, spesso molto difficili, e quindi velocizzare il processo di inserimento dell’opera nell’ambiente circostante soprattutto nelle situazioni estreme ([12]). Tale approccio presenta però alcune problematiche operative legate alla difficoltà di reperimento del materiale di base, alla scarsa qualità del seme raccolto e ai costi onerosi che si devono sostenere ([1]). A ciò va aggiunto che generalmente è molto difficile creare formazioni stabili ed ecologicamente mature senza passare da stadi transitori preliminari ([5]). Viceversa, l’impiego di materiale vegetale commerciale prevede l’utilizzo di specie foraggere che quasi sempre sono state selezionate con finalità produttive e che spesso non sono adattate alle condizioni locali, soprattutto per interventi di ripristino vegetale d’alta quota. In questo caso lo scopo è quello di creare un cotico “transitorio” che viene successivamente ricolonizzato dalla flora locale per originare, nel medio-lungo periodo, una formazione vegetale con spiccate caratteristiche di naturalità ([2]). L’impiego di tali miscugli, senza dubbio più economici, dovrebbe avere come finalità quella di creare in tempi brevi una copertura del terreno in grado di ridurre i fenomeni erosivi, ma anche di evitare un’elevata competizione nei confronti del graduale reinsediamento delle specie appartenenti alla flora locale ([16], [18], [10]).
Per tutti i motivi elencati in precedenza, sono assai poco numerosi gli interventi di recupero di superfici degradate che prevedono l’uso del materiale vegetale spontaneo, anche se alcune normative regionali ne consigliano l’impiego in via prioritaria ([14]). Esso viene pertanto riservato ad aree di particolare pregio naturalistico o sottoposte a specifica tutela nelle quali viene vietato l’uso del materiale vegetale alloctono, come il caso delle aree sottoposte a vincolo ai sensi della Legge Quadro sulle Aree protette, L. 394/1991.
Il presente lavoro riporta i risultati di uno studio condotto su frane inerbite localizzate all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, dove le norme di salvaguardia del Parco e il Piano che entrerà presto in vigore impediscono l’uso di seme alloctono e prevedono interventi di recupero vegetale eseguiti con materiale di origine autoctona.
Materiali e metodi
L’area oggetto di studio è situata all’interno del territorio del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. La gestione dell’area e dei lavori di sistemazione delle frane è affidata al C.F.S. - Ufficio Territoriale per la Biodiversità di Pratovecchio (AR) che procede annualmente alla raccolta diretta del seme prelevandolo da praterie di altitudine (circa 1300 m s.l.m.) per creare scorte di materiale vegetale autoctono da utilizzare negli inerbimenti. La raccolta prevede lo sfalcio a mano di mazzetti delle piante presenti, prevalentemente graminacee, che vengono poi posti ad essiccare e da cui si estrae, tramite battitura, il seme. Il materiale ha una composizione che varia in funzione dell’andamento stagionale, del periodo di raccolta e della capacità dell’operaio ed è costituito per la maggior parte da seme di Festuca gr. rubra. Questo miscuglio viene poi conservato fino al momento dell’esecuzione dei lavori. Indagini condotte su alcuni campioni di materiale raccolto negli anni 2002 e 2003 hanno messo in evidenza la seguente composizione percentuale media: Festuca gr. rubra 84%, Avenellaflexuosa 11% e Poa trivialis 4%, mentre il restante 1% è costituto da altre specie (Briza media, Luzula campestris e Taraxacum officinale).
Nel contesto analizzato gli interventi di sistemazione sulle frane prevedono normalmente la realizzazione di opere di consolidamento del terreno superficiali, con graticciate, viminate e fascinate, e profonde, tramite palificate, gabbioni e muretti a secco. L’inerbimento delle superfici con semina a mano del miscuglio raccolto viene realizzato a dosi molto elevate, 500 kg ha-1, per far fronte alla ridotta germinabilità che è circa del 50%. In genere non viene praticata alcuna concimazione e non è previsto nessun tipo di gestione del cotico una volta insediato.
All’interno della Foresta Demaniale della Lama sono state individuate nel versante romagnolo sei frane sistemate dal personale del C.F.S. con le tecniche descritte in precedenza. L’età dell’inerbimento è compresa tra 1 e 8 anni e le relative caratteristiche sono riportate in Tab. 1. La vegetazione circostante i dissesti è costituita da una fustaia di faggio di elevato pregio naturalistico in cui si inseriscono altre specie forestali come Abies alba, Picea abies e Acer pseudoplatanus. All’interno di ogni frana la vegetazione è stata analizzata secondo il metodo fitosociologico di Braun-Blanquet ([4]), modificato secondo Arrigoni & Di Tommaso ([3]), per rilevare le consistenze numeriche delle specie presenti. La percentuale di presenza delle specie (chiamata contributo specifico, CS) è stata ottenuta con metodo fitoecologico ([7]) eseguendo due analisi lineari disposte in maniera incrociata all’interno dell’area inerbita. Inoltre è stato effettuato anche il rilevamento della copertura mediante stima visiva, tenendo separate le componenti erbacee e arbustive. Per tale motivo le coperture totali rilevate possono presentare percentuali superiori al 100%.
Tab. 1 - Caratteristiche topografiche delle frane studiate.
Frana | Superficie | Quota | Esposizione | Pendenza | Età inerbimento |
---|---|---|---|---|---|
m2 | m s.l.m. | % | anni | ||
1 | 375 | 740 | N | 90 | 5 |
2 | 240 | 1080 | N-E | 80 | 6 |
3 | 40 | 710 | N-O | 70 | 1 |
4 | 450 | 1030 | E | 80 | 8 |
5 | 200 | 820 | N-E | 70 | 5 |
6 | 70 | 720 | N | 95 | 8 |
La conoscenza del miscuglio impiegato nelle operazioni di inerbimento ha permesso di tenere separate nelle elaborazioni le specie derivanti dalla semina da quelle frutto di sicura ricolonizzazione da parte della flora autoctona.
Risultati e discussione
In tutti i casi analizzati i valori della copertura vegetale complessiva (Fig. 1) sono risultati efficaci ai fini della protezione del suolo, considerando come valore limite quello del 70%, ossia quello più comunemente accettato da diversi autori ([13]). In tutte le frane si ha una netta prevalenza della componente erbacea mentre quella arborea e arbustiva inizia ad assumere valori significativi solo in frane di 5-6 anni.
La superficie della frana, che costituisce una radura all’interno della faggeta, è risultata correlata con la percentuale di terreno nudo stimata mediante le analisi lineari. Quest’ultima è stata considerata pari al contributo specifico dell’insieme dei punti in cui non è stata rilevata nessuna specie vegetale. In Fig. 2 si evidenzia infatti una riduzione della percentuale di terreno nudo all’aumentare della superficie del dissesto: ciò sembra essere dovuto al minore sviluppo della componente erbacea nelle aree di minor superficie, dove il forte ombreggiamento dovuto alle chiome delle specie arboree determina condizioni ecologiche sfavorevoli a specie tipiche delle aree aperte. Anche il lento insediamento della vegetazione arborea-arbustiva che, nell’arco di tempo esaminato non ha ancora raggiunto valori di copertura soddisfacenti, potrebbe rappresentare una delle cause di tale fenomeno.
Analizzando con il metodo fitosociologico la composizione botanica dei cotici creati, sono state censite complessivamente 97 specie (in media 38 per area), mentre il rilievo fitoecologico ha permesso di individuare un totale di 49 specie (in media 13 per frana). Ciò conferma la minore capacità del rilevamento per contatto lungo un transect di descrivere la diversità floristica di una formazione vegetale. La ripartizione in famiglie botaniche del numero di specie rilevate con metodo fitosociologico ha messo in evidenza una certa costanza per quanto riguarda le graminacee, la netta predominanza delle specie appartenenti alle altre famiglie (variabili tra 19 e 38 specie diverse) e una ridotta consistenza delle leguminose (Fig. 3).
Fig. 3 - Numero di specie censite, suddivise in graminacee, leguminose e altre famiglie (tra parentesi l’età dell’intervento).
In Fig. 4 sono riportati i contributi specifici delle diverse famiglie e le percentuali di terreno nudo rilevati nelle 6 frane studiate. Si può notare l’assenza quasi totale delle leguminose, rilevate solamente in un caso con percentuale ridottissima (1.8%), la scarsa proporzione di terreno privo di copertura e una generale prevalenza delle graminacee.
Fig. 4 - Contributo specifico di graminacee, leguminose e altre famiglie e percentuale di terreno nudo (tra parentesi l’età dell’intervento).
Tra le specie censite Festuca gr. rubra ha evidenziato il CS medio maggiore (31.6%) essendo la principale componente del miscuglio originario anche nelle frane inerbite da più tempo, dimostrandosi quindi sia di buon insediamento che molto persistente nel tempo. Le specie presenti in percentuale maggiore sono tutte graminacee e, tra quelle impiegate nel miscuglio, solamente Festuca gr. rubra determina un CS significativo. Le altre specie seminate tendono a scomparire molto rapidamente e in alcuni casi non sono mai state rilevate. Le specie appartenenti ad altre famiglie botaniche hanno mostrato valori decisamente ridotti, con un contributo specifico medio dell’8.3% e quindi con un andamento assai contrastante rispetto alla loro ricchezza floristica.
Per valutare l’evoluzione della vegetazione insediatasi in seguito all’inerbimento, i dati raccolti sono stati analizzati in funzione dell’anno di intervento in modo da mettere in evidenza l’influenza del fattore tempo. Il numero di specie spontanee rilevate con le analisi lineari mostra un rapido incremento per gli inerbimenti più recenti e un’altrettanto rapida diminuzione per gli interventi con più di sei anni (Fig. 5).
Sembra possibile individuare una prima fase, immediatamente successiva alla semina, in cui le specie di origine spontanea si insediano nella superficie inerbita aumentando rapidamente la propria consistenza numerica. In una seconda fase l’incremento si riduce probabilmente a causa di fenomeni di competizione interspecifica. Si nota poi un terzo stadio in cui il numero di specie diminuisce probabilmente a causa delle condizioni ecologiche determinate dalla vegetazione circostante. La composizione floristica dei cotici di età maggiore sembra infatti uniformarsi alla vegetazione della faggeta, dove il forte ombreggiamento e la presenza di spessi strati di lettiera determinano la sopravvivenza di un numero ridotto di specie prevalentemente legate ad ambienti nemorali. La selezione operata dalle condizioni stazionali risulta evidente analizzando la variazione del totale dei CS delle specie non seminate (Fig. 6): alla riduzione numerica non corrisponde un’analoga diminuzione in termini di contributo, che invece aumenta nel tempo seguendo un andamento logaritmico in cui la velocità di ricolonizzazione è più rapida negli stadi iniziali e tende invece a diminuire col progredire del tempo. Da questi dati è possibile ipotizzare che con il tempo nel cotico avvenga l’affermazione di un ridotto numero di specie adatte all’ambiente, ognuna delle quali contribuisce con valori elevati alla formazione della copertura vegetale. Lo sviluppo di specie legate ad ambienti forestali è confermata dalla variazione del contributo delle specie arboree, soprattutto Fagus sylvatica e Ostrya carpinifolia, che, seppure con percentuali ridotte, contribuiscono in modo crescente alla formazione della copertura negli stadi più evoluti degli inerbimenti.
Fig. 6 - Variazione del contributo specifico delle specie spontanee in funzione dell’età dell’intervento.
Conclusioni
Considerando l’inerbimento sotto l’aspetto della difesa del suolo la tecnica impiegata ha dato buon esito: si sono infatti originati cotici con elevati valori di copertura (sempre superiori a 70%), costituiti in prevalenza da specie erbacee e caratterizzati da elevata persistenza ed efficacia nella difesa dall’erosione. Le leguminose sono risultate pressoché assenti mentre le specie appartenenti alle altre famiglie hanno evidenziato consistenze numeriche elevate, contribuendo alla biodiversità dell’area, ma con CS ridotti. Al contrario le graminacee hanno mostrato la presenza di un ridotto numero di specie ma con contributi percentuali elevati, rivelandosi la famiglia dominante in tutte le situazioni analizzate.
Tra le specie seminate, solamente Festuca gr. rubra si è sviluppata in modo soddisfacente, mentre le altre o non sono state rilevate o lo sono state con percentuali di presenza ridottissime, come ad esempio Poa trivialis e Taraxacum officinale, registrate con CS medi rispettivamente di 0.7 e 0.4%. Festuca gr. rubra ha invece evidenziato capacità d’insediamento rapido ed elevata persistenza (CS medio di 26.4% in interventi di 8 anni di età) malgrado l’impiego in condizioni ecologiche diverse da quelle di origine. Questi caratteri ne confermano il ruolo di specie utile per inerbimenti a scopo protettivo. La tendenza di questa specie a formare cotici densi e a mantenere nel tempo percentuali di presenza elevate, eventualmente ostacolando l’ingresso delle specie presenti nelle aree circostanti, suggerisce una certa cautela nel suo impiego. Questo è particolarmente vero quando si voglia favorire lo sviluppo di formazioni vegetali naturali, ripristinando la composizione floristica presente prima del dissesto. In questi casi sembra più opportuno l’impiego di specie poco aggressive, che permettano un insediamento più rapido della flora autoctona.
L’analisi dei dati in funzione delle caratteristiche stazionali ha messo in evidenza una certa difficoltà nell’impianto del miscuglio utilizzato in ambienti forestali, soprattutto nel caso di aree di piccole dimensioni. La percentuale di terreno nudo è risultata infatti più elevata nelle frane di minore superficie, dove le specie seminate non hanno trovato condizioni idonee di sviluppo probabilmente a causa della scarsa quantità di luce filtrante. Ciò suggerisce la necessità, in queste situazioni, di individuare nella vegetazione degli ambienti forestali specie idonee ad essere impiegate nelle operazioni di inerbimento.
Quanto esposto mette in evidenza la complessità del problema dell’impiego del materiale autoctono per gli interventi di inerbimento soprattutto nel caso in cui gli obiettivi da raggiungere siano diversi. Nonostante le specie impiegate nel miscuglio siano state raccolte all’interno dei confini del Parco, rispettando i vincoli imposti dalla normativa, la provenienza da formazioni vegetali con caratteristiche ecologiche diverse da quelle d’impiego ha creato alcuni problemi di carattere naturalistico. In particolare il reingresso delle specie tipiche della faggeta nelle superfici inerbite e il ripristino della situazione antecedente l’intervento sono risultati rallentati. D’altra parte la necessità di avere materiale sempre disponibile impone di individuare delle zone di raccolta del seme dove esso sia presente in quantità sufficiente, facilmente reperibile e abbia caratteristiche idonee alla difesa del suolo. Pur dovendo intervenire in aree forestali, le uniche formazioni vegetali capaci di rispondere a tutte le esigenze esposte sono risultate le praterie di quota presenti nel territorio del Parco, non troppo lontane dalle aree di intervento ma poste ad altitudini spesso più elevate. La scelta di utilizzare specie prelevate in questi ambienti si è rivelata in definitiva un buon compromesso tra la necessità di impiegare esclusivamente materiale spontaneo e l’esigenza di ottenere risultati efficaci nel contenimento dell’erosione superficiale tramite un’opportuna pianificazione degli interventi.
References
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
CrossRef | Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
CrossRef | Google Scholar
CrossRef | Google Scholar