Renaturalisation of forest ecosystems: is a reference model really needed?
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 3, Pages 376-379 (2006)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0394-0030376
Published: Sep 20, 2006 - Copyright © 2006 SISEF
Commentaries & Perspectives
Guest Editors: 5° SISEF Congress (Grugliasco, TO - 2005)
« Forests and Society - Changes, Conflicts, Sinergies »
Collection/Special Issue: E. Lingua, R. Marzano, G. Minotta, R. Motta, A. Nosenzo, G. Bovio
Abstract
Renaturalisation is more and more often considered the aim of management when dealing with simplified forests. The term “renaturalisation” has become the keyword of many forest management projects. A reference model or system is often considered essential for forest renaturalisation. This approach is coherent with a school of thought which finds relevant examples in the science and practice of Ecological restoration. The search for a reference system has several practical limitations and, especially, a severe theoretical fault. The definition of a reference system underlies the idea that ecosystem reactions to management can be exactly forecast and thus ecosystems can be guided towards a predefined composition, structure and functionality. This idea stems from a deterministic imprinting which characterises traditional forestry thinking and which is clearly in contrast with the dynamic nature of forest ecosystems. If renaturalisation is seen as a silvicultural and management approach which tends to favour natural evolutionary processes through the system’s ability to autonomously increase its complexity and biodiversity, then the actual system under management is the only possible reference system. An accurate analysis of the evolutionary trends in relation to the actual environmental conditions and landscape matrix should therefore be the basis for the renaturalisation process. Management must proceed as an experiment: the reaction to each intervention must be monitored using appropriate indicators. These are not to be seen as reference limits but as parameters for quantifying changes in the system’s self-regulating processes. In conclusion, renaturalisation has more to do with the way we interact with nature than with a closed project with a clearly defined beginning and end.
Keywords
Forest management, Simplified forest systems, Ecological restoration, Plantation, Silviculture
Introduzione
“C’è qualcosa di affascinante nella scienza. Si ottiene un tale ritorno di congetture da un investimento di fatti così insignificante” (Mark Twain).
Per la gestione dei sistemi forestali semplificati, in particolare dei rimboschimenti, viene sempre più spesso prescritta la cosiddetta “rinaturalizzazione”. Questo termine è ormai diventato di uso comune nel linguaggio forestale e negli strumenti di gestione e pianificazione anche a livello politico e normativo.
Ho già avuto modo di esaminare il significato e le implicazioni di questo indirizzo di gestione ([7], [8], [9]). Ritengo però utile ritornare sull’argomento per sottoporre all’attenzione alcuni aspetti concettuali che a mio parere sono stati finora trascurati. Questo è indispensabile per dare a quella che sta diventando ormai una vera e propria “branca” della selvicoltura e della gestione forestale, i fondamenti teorici necessari per individuare percorsi colturali e gestionali coerenti con i presupposti di una gestione forestale realmente sostenibile e in grado di superare il vaglio dei molteplici portatori di interesse che oggi entrano di diritto nel dibattito sull’uso delle risorse forestali.
Con rinaturalizzazione si intende genericamente un approccio colturale tendente a favorire l’evoluzione verso formazioni forestali formate da specie naturalmente presenti nell’ambiente. Una definizione più completa fa riferimento alla capacità del sistema di aumentare autonomamente la propria complessità e biodiversità ([7], [8]).
La rinaturalizzazione ha quindi l’intento di portare, attraverso una gestione attiva, un ecosistema verso uno stato considerato “più naturale” dal punto di vista funzionale e strutturale. Nell’applicazione pratica questo approccio si traduce spesso nella ricerca di un modello di naturalità, un esempio che possa fungere da riferimento per la gestione. Un tal modo di procedere è coerente con una corrente di pensiero che trova nella disciplina del cosiddetto “Restauro ecologico” (Ecological restoration) la sua espressione più rilevante. Questa disciplina include molteplici attività che hanno per obiettivo il ristabilimento di ecosistemi degradati, danneggiati o distrutti ([10]). Nell’applicazione pratica del restauro ecologico, così come viene oggi concepito, un ecosistema di riferimento serve sia per guidare la gestione, sia per valutarne i risultati.
Qui si vuole dimostrare come la ricerca di un modello di riferimento per la rinaturalizzazione presenti diverse limitazioni pratiche e, soprattutto, una grave deficienza teorica. È necessario quindi proporre un approccio diverso, che possa essere allo stesso tempo teoricamente solido e operativamente praticabile.
Il modello di riferimento a spasso nello spazio e nel tempo
Se per orientare la rinaturalizzazione si vuole fare riferimento a un modello di naturalità si deve affrontare il problema di individuare concretamente questo modello nel tempo e nello spazio. Secondo questa impostazione, le informazioni potrebbero essere dedotte da diverse situazioni che si pongono in relazione al sito oggetto della rinaturalizzazione secondo la seguente classificazione proposta da White & Walker ([11]):
- Stesso luogo, momento diverso
- Luogo diverso, stesso momento
- Luogo diverso, momento diverso
1. Stesso luogo, momento diverso
Una possibilitàè quella di ricercare informazioni sullo stato dell’ecosistema prima dell’impatto perturbatore dell’attività umana. Questa procedura si scontra inevitabilmente con una serie di problemi di non facile soluzione. A esempio, in che momento della storia passata si può considerare che l’ecosistema avesse le caratteristiche di naturalità che si vogliono recuperare? Quanto indietro dobbiamo andare nel tempo? Se questo problema può forse trovare una soluzione in parti del pianeta dove un rilevabile impatto dell’attività umana sugli ecosistemi è avvenuto in tempi relativamente recenti, come a esempio il Nord America, certamente non è così nel nostro continente. Ammesso poi che si riesca a ricostruire le caratteristiche salienti di un tale ecosistema, il periodo di tempo intercorso fra quel momento storico e l’attualità può aver portato a cambiamenti difficilmente quantificabili nelle condizioni ecologiche generali.
2. Luogo diverso, stesso momento
Un’altra possibilitàè di individuare come modello di riferimento un ecosistema in condizioni ecologiche similari che nello stesso momento in cui progettiamo l’opera di rinaturalizzazione si trovi in condizioni di naturalità. Questa procedura presenta meno difficoltà di rilevamento rispetto all’ipotesi precedente ma ha sempre notevoli limitazioni di applicabilità.
Innanzitutto, ammesso e non concesso che l’ecosistema di riferimento si trovi in condizioni stazionali uguali al sistema da rinaturalizzare, cosa ovviamente molto difficile in un Paese così diversificato dal punto di vista topografico, pedologico e climatico come il nostro, è probabile che esso sia solo un lembo residuo di un ecosistema molto più ampio e quindi non rappresenti tutta la variabilità che era una volta presente. È bene ricordare infatti che “una approfondita conoscenza a scala di grande dettaglio dei processi autoecologici non può essere semplicemente aggregata per rappresentare il comportamento di un ecosistema se si va oltre la dimensione di una patch o di un gap” ([4]).
Un aspetto che non deve essere dimenticato è poi la cosiddetta inerzia degli ecosistemi, fenomeno particolarmente importante quando si ha a che fare con ecosistemi caratterizzati dalla presenza determinante di organismi molto longevi come nel caso delle foreste. L’inerzia con cui gli ecosistemi forestali rispondono alle fluttuazioni climatiche fa sì che essi possano trovarsi in dis-equilibrio con le condizioni climatiche correnti ([6], [1]). A esempio, la combinazione di specie e il modo in cui occupano i diversi strati di un ecosistema come lo vediamo oggi possono essersi originate in una situazione climatica diversa da quella attuale.
3. Luogo diverso, momento diverso
Se fosse impossibile, per l’area presa in considerazione, ricostruire con i metodi e le notizie disponibili le caratteristiche dell’ecosistema di riferimento e se ecosistemi che presentano il grado di naturalità ricercato sono troppo lontani dalla zona considerata, si potrebbe esaminare una situazione in analoghe condizioni ecologiche per la quale esista una documentazione storica sufficiente. In questo caso si sommerebbero le limitazioni dei precedenti due casi: l’effetto combinato di differenze spaziali nelle condizioni stazionali e di diverse traiettorie evolutive conferirebbero un elevato grado di incertezza alla possibile corrispondenza fra l’ecosistema di riferimento e il sistema da rinaturalizzare.
Le oche di Lorenz
Se queste sono, in estrema sintesi, le limitazioni operative per una rinaturalizzazione basata sull’individuazione di un modello di riferimento, una ben più grave limitazione teorica rende questo tipo di approccio assolutamente incoerente con gli obiettivi e i presupposti della rinaturalizzazione.
La ricerca di un modello di riferimento sottintende infatti la convinzione che attraverso la gestione si possa prevedere esattamente la reazione dell’ecosistema e così portarlo verso una composizione, una struttura e una funzionalità predeterminata. Questa convinzione discende da un imprinting deterministico che condiziona il nostro modo di vedere la realtà. Questo imprinting è particolarmente forte nei forestali, educati a indirizzare la gestione del bosco in base all’archetipo del modello di riferimento: il bosco normale ([2]).
Vi è una contraddizione di fondo nel voler basare la rinaturalizzazione su informazioni dedotte da un modello di riferimento: nel mentre si riconosce la natura dinamica e imprevedibile degli ecosistemi non si può allo stesso tempo agire come se rispondessero in maniera lineare e prevedibile, secondo le traiettorie dell’ecosistema preso a esempio.
Quindi, alla domanda se per rinaturalizzare i sistemi forestali semplificati sia necessario un modello di riferimento non si può che rispondere negativamente. Questo non vuol dire rigettare tutta la ricerca che è stata fatta finora in questo settore, come, a esempio, le indagini sulle modificazioni avvenute in tempi storici nel paesaggio forestale in seguito a diversi livelli e tipologie di impatto antropico, gli studi sulle diverse metodologie per la ricostruzione della flora in tempi passati, le ricerche relative all’impatto della frammentazione degli habitat sulla dinamica delle popolazioni, gli studi sulle fluttuazioni climatiche e sulle risposte degli ecosistemi.
Occorre invece inserire i risultati di queste ricerche in un quadro diverso: non più il tentativo di utilizzare le informazioni acquisite per definire un modello di naturalità, ma per cercare di comprendere la complessità dei processi e delle interazioni che condizionano l’evoluzione degli ecosistemi. In questa direzione vanno i tentativi, a esempio, di studiare la variabilità naturale per includerla nella gestione ([5]).
Rinaturalizzare... naturalmente
Per proporre un approccio operativo per la rinaturalizzazione dei sistemi forestali che sia coerente con il paradigma scientifico che riconosce la complessità degli ecosistemi forestali e l’imprevedibilità dei processi che ne caratterizzano il funzionamento, occorre partire dalla definizione di rinaturalizzazione. La rinaturalizzazione è una forma di gestione che ha per obiettivo il ripristino dei processi naturali di auto-organizzazione e di autoperpetuazione di sistemi forestali semplificati dall’attività antropica. Si traduce in interventi tendenti a favorire i processi evolutivi al fine di massimizzare il contributo naturale di energia al funzionamento del sistema e di minimizzare gli input energetici artificiali. La rinaturalizzazione si basa sulle capacità del sistema di aumentare autonomamente la propria complessità e biodiversità.
Se questa è la definizione, come si può procedere operativamente? Intanto osservando attentamente la realtà del sistema semplificato: questa analisi dovrà essere svolta a diverse scale per evidenziare le interazioni fra processi lenti e processi veloci e le interazioni che attraversano più scale spaziali. Questo tipo di analisi è in grado di evidenziare le tendenze in atto nelle effettive condizioni ambientali e in relazione alla matrice paesaggistica attuale. Questo è il punto di partenza, il prodotto della storia che è diversa per ogni ecosistema. Quindi il riferimento non può che essere lo stesso luogo nello stesso momento.
La gestione deve procedere come un esperimento: la reazione a ogni intervento dovrà essere monitorata utilizzando anche indicatori opportunamente scelti, non come soglie di riferimento ma come parametri per misurare il cambiamento relativo nel tempo ([3]). Questo significa adottare un approccio adattativo in modo che vi sia una sorta di coevoluzione fra caratteri degli interventi colturali e funzionalità dell’ecosistema. L’obiettivo diviene quello di operare in accordo con i processi naturali e non contro di essi.
Alla fine, per quanto possiamo provarci, nessun ecosistema potrà mai essere completamente sottratto dall’attività umana. In realtà, la rinaturalizzazione ha più a che fare con il modo con cui interagiamo con l’ambiente piuttosto che con un progetto chiuso con un inizio e una fine predefinita.
References
CrossRef | Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
CrossRef | Google Scholar
CrossRef | Google Scholar
CrossRef | Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Google Scholar
Online | Google Scholar
CrossRef | Google Scholar