New insights into processess controlling carbon accumulation in soils
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 4, Pages 348-350 (2007)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0499-0004
Published: Dec 20, 2007 - Copyright © 2007 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
A new theory of soil organic dynamics has been proposed by Fontaine and colleagues in a recent paper published on Nature. By means of a combination of physical and chemical characterization of organic carbon, they support the hypothesis that the supply of fresh organic carbon stimulates the decomposition of the organic carbon pool in deep soil layers, affecting the long-term soil reservoirs. A general comment of this new findings is herein proposed.
Keywords
Alle ricerche sulla capacità di sequestro del carbonio nella biosfera va certamente attribuito il merito di aver posto l’esigenza di affrontare lo studio del suolo con un’ottica autenticamente ecosistemica. Le indagini, infatti, nel tentativo di comprendere l’entità e i processi che controllano la capacità del suolo di immagazzinare il carbonio e le potenziali risposte ai cambiamenti climatici, hanno dovuto considerare l’insieme delle interazioni del suolo con i fattori biotici (vegetazione, micro e macro fauna del suolo) ed abiotici (temperatura, umidità, uso del suolo) dell’ambiente, coinvolgendo discipline diverse e superando punti di vista tradizionalmente parziali. Così i contributi del pedologo, del microbiologo, del climatologo e dell’agronomo si sono combinati nello sforzo di cercare la soluzione di un rebus di difficile interpretazione.
Questo approccio ha prodotto risultati incoraggianti, sebbene la possibilità di formulare una teoria organica sulla capacità del suolo di fungere da sink per il carbonio è da considerarsi ancora prematura e questo nonostante le conseguenze delle attuali mancanze possano essere rilevanti. Cito un esempio per tutti. Nel settembre 2005 Nature ha pubblicato uno studio che confrontava gli stock di carbonio nei primi 15 cm di suolo ottenuti con inventari ripetuti a distanza di 25 anni, in Inghilterra e nel Galles. Dal confronto è risultata una perdita di carbonio di eccezionale entità pari a 13 MtCO2 eq, equivalenti al 9% delle emissioni di CO2 dovuti ai processi industriali nel Regno Unito al 2005 ([1]).
Lo studio, che comprendeva suoli sottoposti a diversi usi, ipotizzava come causa delle perdite gli effetti del cambiamento climatico, in particolare dell’insieme degli aumenti di temperatura, concentrazione atmosferica di CO2 e deposizioni azotate nonché delle variazioni dei regimi pluviometrici. Non si escludeva inoltre la possibilità che il tasso di decomposizione delle frazioni passive del carbonio del suolo, abbondanti nei suoli organici del Nord Europa, potesse essere stato sottostimato, sulla scorta dello studio di Knorr et al. ([2]) che riportava tempi di turnover, per queste frazioni, più sensibili alle variazioni di temperatura rispetto alle frazioni labili, generalmente considerate di gran lunga più reattive.
Questi dati, oltre a suscitare una riflessione necessaria sull’opportunità di tenere in più seria considerazione il ruolo del suolo nelle politiche di mitigazione del cambiamento climatico, dimostrano in pieno i limiti delle nostre attuali conoscenze sulle dinamiche del carbonio nel suolo ed evidenziano una vulnerabilità inaspettata delle riserve del suolo. Nella teoria pedologica, infatti, è generalmente accettata la tesi che gran parte del carbonio sia pressoché inerte ed abbia la possibilità di restare immagazzinato nel suolo per centinaia e migliaia di anni.
Un’altra recente indicazione che riapre la discussione sulla presunta immobilità delle riserve di carbonio nel suolo si deve allo studio di Fontaine et al. ([4]), pubblicato da Nature.
L’autore dimostra che l’apporto di sostanza organica fresca negli orizzonti profondi del suolo è in grado di determinare un aumento della decomposizione del carbonio organico stoccato a quelle profondità. In altre parole, Fontaine sostiene che il basso turnover del carbonio immagazzinato negli strati profondi del suolo dipenderebbe principalmente dalla scarsità di carbonio organico fresco (lettiera, essudati radicali).
Questa ipotesi, per essere verificata, richiede innanzitutto l’esclusione dell’azione degli altri fattori che determinano gli elevati tempi di residenza del C organico negli strati profondi del suolo, e cioè una diversa composizione chimica del carbonio organico, la stabilizzazione del carbonio dovuta alla formazione di complessi organo-minerali ed all’associazione con le argille, la scarsità di ossigeno e di conseguenza di microrganismi aerobici metabolicamente attivi.
Ognuna di queste cause non trova riscontro nell’esperimento di Fontaine. L’esame alla risonanza magnetica nucleare, infatti, evidenza una composizione chimica confrontabile tra le frazioni del carbonio recuperate negli strati 0-20 e 60-80 cm, mentre la formazione di chelati con ossidi ed idrossidi di ferro ed alluminio, confrontando gli stessi strati, aumenterebbe solo dell’8% in profondità, una percentuale insufficiente a spiegare le differenze di età del carbonio datato 320 ed 2560 anni, rispettivamente.
Anche con riferimento all’attività metabolica del suolo, mediante prove di incubazione di campioni di suolo con cellulosa marcata isotopicamente, è emerso che esistono comunità microbiche non quiescenti nello strato profondo, in grado di incrementare significativamente la respirazione basale del suolo, quindi i tassi di decomposizione del carbonio, quando sono disponibili sorgenti di carbonio fresco. L’analisi della CO2 prodotta dalle prove di incubazione, evidenziava, inoltre, che la stimolazione della decomposizione riguardava non solo il substrato fresco aggiunto artificialmente al suolo ma anche le frazioni non marcate, quindi il carbonio organico naturalmente presente nel suolo, generando il cosiddetto “effetto innesco” (priming effect).
L’effetto innesco è un fenomeno, studiato tradizionalmente in relazione agli effetti sui suoli agrari dell’aggiunta di residui vegetali, per il quale sono state formulate diverse ipotesi in passato senza che si sia mai arrivati a chiarirne completamente i meccanismi. Lo stesso autore ha proposto spiegazioni legate alle dinamiche di popolazione delle comunità microbiche del suolo innescate da fenomeni di competizione per il substrato addizionale ([3]) e successivamente, interpretazioni dovute alla numerosità e diversità funzionale delle comunità microbiche stesse ([3]).
Nell’esperimento recente di Fontaine, sia l’effetto innesco che la biomassa microbica sono risultate diminuire progressivamente con l’esaurimento della cellulosa suggerendo che l’acquisizione di energia per le comunità microbiche derivante da questo substrato non è sufficiente a sostenerne l’attività biologica per lungo tempo. Di converso, questo porta a concludere che, esclusi gli altri fattori, un’aggiunta continua di carbonio organico fresco nelle profondità del suolo è in grado di sostenere la decomposizione del carbonio organico considerato passivo continuativamente e sul lungo termine.
Le implicazioni di questo risultato possono essere rilevanti nel contesto della ricerca e delle politiche di mitigazione dedicate al cambiamento climatico.
Dal punto di vista teorico, lo studio di Fontaine contraddice l’ipotesi comune che aumenti della temperatura del suolo dovuti all’intensificarsi dell’effetto serra siano in grado di determinare aumenti delle perdite di carbonio degli ecosistemi terrestri per l’effetto di stimolo sulla respirazione eterotrofa del suolo. Questo contribuirebbe a ridimensionare il pericolo dell’innescarsi di potenziali feedback positivi tra emissione di CO2 dal suolo e riscaldamento globale, fenomeno abbastanza allarmante considerando che il suolo rappresenta il più grande serbatoio di carbonio del pianeta.
Nella teoria eco-fisiologica, i risultati di Fontaine coinvolgono le interazioni produzione primaria-sostanza organica del suolo, suggerendo la riflessione che la relazione tra le due grandezze potrebbe non essere sempre positiva dal momento che la produzione di lettiera, con riferimento in particolare a quella sotterranea (radici fini morte ed essudati radicali), può determinare una diminuzione del carbonio organico del suolo mediante lo stimolo della decomposizione delle frazioni passive del carbonio.
Questo aspetto ha riflessi a cascata anche sugli approcci attuali con i quali la vegetazione viene impiegata nelle politiche di mitigazione del cambiamento climatico. È noto infatti che il Protocollo di Kyoto ed i successivi accordi negoziali permettono ad ogni Paese firmatario di impiegare per la riduzione del proprio bilancio delle emissioni di gas serra, il sink di carbonio associato alle attività che determinano l’espansione della superficie forestale. Ogni cambio di uso del suolo “verso foresta” (imboschimento e rimboschimento) è considerato, infatti in grado di aumentare lo stock di carbonio nella vegetazione e quindi di contribuire alla diminuzione dell’emissione di carbonio in atmosfera. La pratica dell’imboschimento, tuttavia, aumentando la distribuzione di carbonio fresco nella profondità del suolo attraverso l’azione di penetrazione delle radici, sarebbe in grado, secondo Fontaine, di mettere a rischio la stabilità del carbonio nel suolo con il risultato che l’accumulo epigeo di breve periodo intaccherebbe lo stoccaggio ipogeo di lunghissimo corso.
Questo varrebbe soprattutto se l’imboschimento prevedesse specie con sistemi radicali profondi come nel caso di vegetazione resistente alla siccità, una scelta che, in certi contesti, si rende necessaria proprio contro gli effetti del cambiamento climatico.
Con questo chi scrive non vuole sostenere che il rimedio sarebbe peggiore del male, ma che, in un campo come quello delle relazioni tra ecosistemi terrestri ed atmosfera in cui esiste ancora molta incertezza su molti processi chiave, bisogna sempre essere pronti a cogliere tutte le indicazioni che la ricerca è in grado di offrire in particolar modo per quanto riguarda il suolo, per il quale il cammino verso una piena conoscenza sembra ancora lungo.
References
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