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Perspectives for the Italian Universities

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 5, Pages 218-219 (2008)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0541-0005
Published: Sep 02, 2008 - Copyright © 2008 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

Appropriate procedures for appointing professors, efficient evaluation and control procedures, the respect of the responsibility principle and the competitive selection of students are key points to which the Italian Universities should pay great attention and prompt action to avoid decline.

Keywords

University, Evaluation, Responsibility, Students, Italy

 

Dopo avere letto l’articolo di Ferdinando Boero recentemente apparso su Forest@ ([1]), viene da chiedersi come l’Università italiana possa uscire dalla situazione in cui si è impantanata.

È opportuno iniziare il discorso dal sistema attuale che, a parere di chi scrive, è assimilabile a un circolo vizioso.

In accordo con l’analisi di Boero, l’origine del problema è la mancanza del principio di responsabilità . Tale mancanza, verosimilmente, è incoraggiata dal valore legale della laurea: di fatto, nel territorio nazionale, una laurea ottenuta in un ateneo vale quanto quelle rilasciate da altri atenei. Il circolo vizioso che ne nasce è così riassumibile: le Università non sono incentivate a reclutare i migliori docenti, i quali a loro volta non sono soggetti a rigorose verifiche, mentre gli studenti non hanno particolari stimoli a iscriversi alle Università più prestigiose. Se il fine è laurearsi presto e con un punteggio alto, il modo più comodo per raggiungerlo è scegliere l’ateneo che prospetta un percorso più facile e veloce: qualità e sostanza della formazione offerta passano in secondo piano. Fin quando la laurea sarà un semplice lasciapassare per il mondo del lavoro, è logico che funzioni così. Il circolo presenta il suo tratto più paradossale negli incentivi ministeriali alle sedi che producono più laureati e che hanno un minor numero di studenti fuori corso (indicatori di produttività sono anche la media dei voti e quella dei punteggi di laurea). Ne consegue che, invece di applicare severi principi di selezione, le Università sono spinte a muoversi in senso contrario, logica che porta a penalizzare le università d’elite (in un articolo comparso su Repubblica un paio di anni fa, Pietro Citati citava in proposito il caso dell’“Orientale” di Napoli).

Insomma, con il sistema vigente nessuno paga per errori di reclutamento e nemmeno per inefficienza lavorativa. Del resto, se in un dipartimento universitario il personale docente è inadeguato, la responsabilità non ricade sul direttore del dipartimento o sul Rettore, bensì su una serie di commissioni esterne le cui colpe sono difficili da identificare.

Ciò rende possibile la selezione dei docenti in base non tanto a qualità scientifico-didattiche, quanto a logiche clientelari. Si aggiunga che, una volta entrato in ruolo, un docente non deve rendere conto del proprio operato scientifico-didattico se non in modo formale, con relazioni triennali che nessuno si sogna di valutare seriamente: in altre parole, un docente di ruolo non va incontro a nessun tipo di sanzione, indipendentemente dal suo operato.

In che modo si può uscire da questo circolo vizioso? Secondo il parere di chi scrive, occorre innanzitutto prendere atto che l’Università di oggi è auto-referenziale, e che la sua crescita d’ora in poi dovrà essere legata alla capacità di confronto con la realtà esterna.

Questa realtà possiamo chiamarla mercato, termine di cui oggi molto si abusa, e con cui si giustifica un’autonomia universitaria più formale che sostanziale. Tornando all’esempio fatto in precedenza, non si capisce quale logica di mercato debba premiare le università che sfornano più laureati senza garanzie di qualità. Non si capisce alla luce di una considerazione elementare: un mercato serio non può permettersi di trarre vantaggi economici da un deterioramento del prodotto.

Un primo passo verso il mercato potrebbe essere proprio l’abolizione del valore legale della laurea. La laurea diventerebbe così un titolo il cui prestigio è legato alla sede di conferimento: ciò aprirebbe l’Università italiana effettivamente, e non apparentemente, al mercato. Ne potrebbe nascere un circolo virtuoso. Infatti, se non fosse più necessario il semplice possesso di un titolo di laurea per la candidatura ad un concorso della pubblica amministrazione (come per l’esercizio di una libera professione), si creerebbe una sana concorrenza tra atenei: la cosa indurrebbe le Università a migliorare la propria offerta, dando a merito e competenza il ruolo chiave nel reclutamento del corpo docente. Questo, poi, sarebbe sottoposto, nell’interesse delle Università stesse, a serie verifiche. In altre parole, le singole sedi sarebbero stimolate a reclutare docenti di prestigio prima, e a controllarne l’operato poi. Una sana autonomia universitaria: le sedi migliori ne risulterebbero premiate, mentre quelle inefficienti sarebbero costrette, nei casi limite, a chiudere i battenti. Con conseguenze spiacevoli anche per i docenti che v’insegnano (che comunque si porterebbero in spalla, almeno in parte, la responsabilità di tale inefficienza).

Un circolo virtuoso in cui tutti sarebbero indotti a dare il meglio di sé. Con questo sistema si risolverebbero molti casi imbarazzanti: tornando all’esempio di Boero, se il figlio di un professore dovesse vincere un concorso a dispetto delle sue scarse qualità, l’Università che lo ha scelto perderebbe non solo prestigio, ma anche fondi legati alla ricerca, studenti, con loro i fondi delle iscrizioni e così via. Questo sarebbe un vero mercato.

Per chiudere, una considerazione che spazzi il campo da facili demagogie.

Dal momento che, con il sistema proposto, la scelta dello studente non ricadrebbe più sull’ateneo “facile” ma su quello che fornisce un’offerta formativa di valore, gli incentivi alle sedi non arriverebbero più dallo Stato (che oggi premia chi seleziona meno), bensì dagli studenti stessi, con le loro iscrizioni. Infatti, in un quadro così legato alla competizione, anche le tasse universitarie finirebbero per essere liberalizzate. Università più prestigiose, ovviamente, corrisponderebbero a tasse più salate. E se qualcuno pensa che si tratti di una proposta “classista”, ebbene si rifletta sul fatto che la cosiddetta Università di massa non può certo essere definita “democratica” solo perché consente - in perfetta autonomia delle sedi, come no - accordi locali e clientelari che niente hanno a che fare con un sano mercato e che finiscono, inevitabilmente, per penalizzare soprattutto gli studenti. Nei confronti dei quali l’Università ha un dovere: garantire non la laurea a tutti, bensì una formazione seria a chi se la merita.

References

(1)
Boero F (2008). Università e concorsi, necessità di cambiare. Forest@ 5 (1): 158-159.
CrossRef | Google Scholar
 
 
 

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