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Experiences and thoughts on high forest silviculture

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 7, Pages 9-12 (2010)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0610-0007
Published: Feb 11, 2010 - Copyright © 2010 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

The recent debate on silviculture should take into account various points of view. The holistic view is not contradicting the reductionistic approach necessary in research. Complex systems can be analysed by individuating all variables acting but detecting those which have a leading role in the functioning of the system. Silviculture is a human activity and technical choices can change, even in short time, owing to new requirement of the society. Rights of the forests involve also the duties of mankind.

Keywords

Silviculture, Approach, Reductionist, Holistic, Italy

 

Ho l’impressione che, in seguito al dibattito sviluppatosi di recente intorno al tema della selvicoltura sistemica, sia necessario intendersi sul modo con cui confrontarsi con la realtà; in qualche caso si sono fatte affermazioni (anche da parte mia) che per la loro categoricità contraddicono il principio del dubbio che, generatore di ipotesi, dovrebbe qualificare il lavoro scientifico. Nel caso specifico la realtàè rappresentata dal bosco e dal rapporto che in vario modo lega l’uomo al bosco. Prendo lo spunto dall’articolo di Nocentini ([9]) con la speranza di recare un contributo a questo dibattito facendo riferimento alla mia attività di docente e ricercatore, con limitatissima esperienza di selvicoltore “applicato”. Voglio analizzare alcuni punti di questa attività, punti che ritengo significativi, pur sapendo che l’autoreferenzialitàè rischiosa oltre che goffa. Sarei lieto se questo contributo consentisse un approfondimento della discussione.

Nella didattica (e non solo) il primo passo è la percezione della realtà, percezione diretta attraverso i nostri sensi: vista e tatto in primo luogo; quindi importanza dell’esperienza diretta di cosa è un albero e, di conseguenza, un bosco. Ho seguito intenzionalmente una traccia opposta a quella dei trattati di Odum ([10]) e di Kimmins ([7]), autori che per molti altri versi sono stati preziosi, perché l’uso dei sensi si esercita solo su realtà concrete e non su astrazioni come i concetti di popolazione, comunità ed ecosistema, concetti per i quali occorre un lavoro di generalizzazioni, logica e vaglio che si svolge nel cervello utilizzando il precedente operato dei sensi. È su questa realtà, con una forma casereccia di maieutica, gli studenti si esercitano a vedere. La progressione dall’individuo all’ecosistema ed al paesaggio avviene, appunto, chiarendo quali sono gli aspetti nuovi che si manifestano nel passaggio a forme di organizzazione di livello superiore. È faticoso spiegare di primo acchito cosa è un ciclo biogeochimico a chi non ha mai visto e men che meno toccato la lettiera e l’humus sottostante. Secondo me alla concezione olistica si perviene con maggiore convinzione attraverso una iniziale esperienza riduzionistica; questi due concetti che si integrano e non si oppongono, sono stati descritti come gli estremi di un gradiente, sia in termini di scala che di tempo oltre che di ambito di competenza. Si tratta di una problematica nella quale sono sostanzialmente ignorante, ma mi sembra che questo approccio non sia in contraddizione con quello espresso da Cini ([1]) quando difende “l’immagine di una realtà in cui può accadere tutto ciò che non è espressamente vietato da un ristretto numero di vincoli precisi”.

Proprio a questo proposito Thomasius ([12]) scrive: “La filosofia della selvicoltura guidata ecologicamente è perciò olistica, con pieno apprezzamento delle conoscenze di dettaglio necessarie e anche ottenute con approccio riduzionistico”. La traccia olistica di Odum, preceduta comunque da molti altri studiosi di ecologia e fatta propria da De Philippis ([2]) per la selvicoltura fin dagli anni Settanta, costituisce il quadro concettuale mentre l’approccio riduzionistico risponde ad una esigenza di ordine metodologico.

La scelta delle modalità di trattamento di un bosco riguarda l’ecosistema, ma deve fare delle proposte a livello di comunità o di popolazione dopo aver esplorato, direttamente o meno, aspetti che scendono a livello di individuo.

Una secondo esperienza didattica è quella della martellata, svolta come esercitazione sia in Toscana che in Trentino. In Val di Fiemme la maggior parte di questa didattica si è svolta con la collaborazione di Marcello Mazzucchi, funzionario del Servizio Foreste della Provincia Autonoma. Il buon Marcello, che ci raggiungeva nel bosco in cui si svolgevano le esercitazioni e “riguardava” le scelte fatte dagli studenti e controllate da me o da uno dei miei collaboratori, commentava con un laconico “sì” oppure con un problematico “le cose si possono vedere in modi diversi”. Gli studenti erano preavvertiti di questo modo di procedere e delle sue ragioni: con la seconda espressione Marcello, oltre che segnalare alcune vistose castronerie commesse dai “fiorentini” ed evidenziate con molta delicatezza, presentava la struttura su cui si operava in modo più articolato del mio. La sua analisi di quella specifica realtà era basata sull’applicazione di un modello concettuale adattato alla realtà che aveva di fronte analizzando un elevato numero di variabili in quanto, a differenza di me e degli studenti, conosceva, o piuttosto conosceva assai meglio, i caratteri del clima locale, la reazione degli alberi ad un taglio di liberazione, il peso della radiazione solare proveniente da un certo quadrante, la longevità delle latifoglie in un contesto denso, il carico di ungulati selvatici ed il loro effetto sulle specie arboree e così via. Soprattutto riusciva a dare un peso più preciso a queste variabili. In altre parole Marcello ragionava su un modello di sistema complesso di cui conosceva numerose variabili e delle quali sapeva per esperienza valutare il peso relativo. Mi sembra che questo approccio si avvicini a quello descritto da Di Castro ([3]): “La descrizione di un aggregato macroscopico di particelle nei termini dei processi elementari dei singoli costituenti è sempre avvenuto attraverso un accumulo di dati sperimentali per selezionare gli aspetti rilevanti del problema e individuare l’appropriata contrazione delle variabili, dalle innumerevoli variabili microscopiche alle poche variabili macroscopiche rilevanti. […] La perdita voluta di informazioni ritenute inessenziali (irrilevanti) per la descrizione del problema in studio permette la contrazione delle variabili necessaria per la soluzione semplificata del problema mantenendone tutti gli aspetti rilevanti.”

Sempre a proposito di sistemi complessi mi sembra utile ricordare le ricerche relative alla risposta delle piante e degli ecosistemi all’aumento della concentrazione di CO2 di cui Grassi ([5]) riferisce. Dopo aver descritto i diversi criteri di studio susseguitisi nel tempo - analizzando il processo di fotosintesi dal livello di ramo fino a quello di porzioni di ecosistema e per tempi progressivamente più lunghi - Grassi afferma che “gran parte delle prime osservazioni risultano confermate almeno dal punto di vista qualitativo […]. Dal punto di vista quantitativo invece, pur con forti variazioni tra specie ed ecosistemi, l’effetto positivo dell’aumento della CO2 sulla crescita tende a ridursi mano a mano che l’analisi si sposta verso scale spaziali e temporali più ampie” quando altri fattori entrano in gioco, come acqua e calore. Secondo Grassi, “l’interazione tra C02, temperatura, acqua e azoto genera effetti difficilmente prevedibili sulla base delle risposte ai singoli fattori.” Tuttavia l’analisi della letteratura, secondo Grassi, conduce a ritenere utili questi esperimenti “anche per sviluppare e testare modelli capaci di integrare tra loro le conoscenze emerse dalle ricerche su singoli fattori.” E quindi i problemi multifattoriali possono trovare adeguate risposte combinando la ricerca a livello di ecosistema con l’analisi modellistica.

Sempre restando alle esperienze didattiche ricordo una visita fatta verso i primi anni Novanta da Ernst Ott, docente al Politecnico Federale di Zurigo, a Firenze. Ott era giunto con me a Poggio Valicaia, presso Scandicci, dove con gli studenti era in corso un diradamento in pineta di pino marittimo. Avevo partecipato a discussioni su diradamenti svolte in Svizzera ma questa era la prima volta che un collega svizzero veniva a vedere quello che io facevo in Italia. Arrivato a Poggio Valicaia, con gli studenti curiosissimi di avere un giudizio sul nostro operato (e forse speranzosi di vedermi fare una “magra”), ho illustrato una applicazione di quanto avevo appreso da Leibundgut presso cui avevo studiato nel 1973. Ernst, ridendo, commentò: “Già, 18 anni fa; oggi non ci si può permettere di intervenire con diradamenti in tempi brevi, il prezzo della manodopera ed il mercato del legno non sono quelli di allora”; e con giubilo degli studenti ripassò, calcando la mano, la nostra martellata. Questo episodio mi rimase impresso come un esempio del fatto che la selvicoltura, oltre che tenere conto degli aspetti biologici e fisici, deve anche rispondere alle esigenze del contesto storico e socio-economico in cui essa viene attuata; ne consegue che il tecnico forestale deve essere in grado di percepire la realtà in cui opera in tutta la sua complessità naturale e sociale, la sua dinamica, e applicare le tecniche in modo flessibile senza partire da posizioni preconcette. Purtroppo, in quel caso specifico - boschi suburbani di conifere nei quali non veniva e non viene tutt’oggi applicata una qualche forma di selvicoltura - io non ero andato molto al di là di generiche affermazioni sulla difesa del suolo, la prevenzione degli incendi, la funzione ricreativa e così via.

In quanto al modello di selvicoltura - e qui si ritorna in Val di Fiemme - Marcello ci faceva svolgere l’esercitazione proprio in perticaie prossime a vecchi popolamenti maturi per il taglio, formatisi quindi verso la metà dell’Ottocento dopo i grandi tagli rasi, i quali venivano posti in rinnovazione con criteri che erano considerati relativamente nuovi; ci illustrava quindi il contrasto tra una selvicoltura tradizionale ed una nuova di impronta naturalistica. Non credo che entrambi questi approcci selvicolturali possano oggi venire riuniti sotto la denominazione di selvicoltura “classica”. Già allora oltre agli aspetti tecnici ed economici venivano poste in evidenza le implicazioni ecologiche generali (protezione del suolo) e quelle, ecologiche, tecniche e sociali, più recenti (biodiversità, valore estetico del bosco, valore storico, tecniche di lavoro e meccanizzazione etc.). Nella letteratura di lingua tedesca la selvicoltura che chiamerò “ottocentesca”, ossia l’insieme di tecniche maturate verso la fine del Settecento che si applica per ampie superfici (Schlagwirtschaft; gestione a tagliate) è stata oggetto di critiche, soprattutto per il taglio essenzialmente economico che la caratterizzava, da parte dei sostenitori della selvicoltura prossima alla natura, fautori del bosco trattato, in senso lato, a gruppi di diverse dimensioni (Horst- und Gruppenwirtschaft; gestione a gruppi piccoli e grandi) fin dalla fine dell’Ottocento ([4]). Non a caso le prime ricerche sulle foreste vergini, considerate modelli di studio di sistemi naturali, hanno inizio negli anni Venti del secolo scorso.

Tornando al bosco, non solo quello di Tesero, un altro aspetto fondamentale è quello legato alla struttura. È la struttura spaziale e tassonomica del bosco che viene percepita con i sensi, viene misurata, quantificata, registrata con i nostri strumenti e viene impiegata da un lato per ricostruire in via ipotetica il processo, spontaneo o antropogenico, che l’ha generata e dall’altro il processo che ne guiderà la dinamica futura, guidata o meno dall’intervento selvicolturale. L’analisi della struttura parte ovviamente dalla componente arborea ma, entro i limiti dei mezzi e delle conoscenze disponibili, procede all’analisi delle altre componenti focalizzando l’attenzione su quelle di maggiore rilevanza (ad esempio la componente animale) per stimare, anche sommariamente, le relazioni più rilevanti per stabilità e dinamica. Limitandomi al periodo durante il quale si è svolta la didattica in bosco abbiamo avuto alcune “sorprese”: la gelata in Toscana del 1985, le nevicate fuori stagione in Val di Fiemme nel 1981, l’attività (i “danni” non sarebbe politically correct) dell’istrice alle spese delle piante “scelte” e favorite con il diradamento di pino marittimo, il brucamento da parte degli ungulati sul novellame di abete bianco nelle fustaie trentine, ed infine la comparsa del micidiale Matsucoccus proprio nelle zone in cui avevamo svolto le esercitazioni toscane. Il solito Marcello ci raccontava che nell’ultimo ventennio del secolo scorso la ripresa totale dei boschi trentini era costituita solo per la metà da quanto previsto dai Piani di assestamento mentre il resto era frutto di schianti e sradicamenti; questo fatto non ha certo impedito di proseguire la pianificazione e la gestione basata su questi piani, sia pure con gli adattamenti avvenuti attraverso il tempo, dei quali hanno anche riferito Iovino et al. ([6]).

Struttura e processi sono due modi di vedere la medesima realtà. La struttura come punto di arrivo e di partenza di un processo che, necessariamente, non possiamo seguire ma che immaginiamo - e che utilizziamo per le scelte tecniche - facendo ricorso a modelli logici come quello formulato da Leibundgut ([8]): per la ricostruzione del passato si cerca di individuare le tracce che indicano se, ed in qual modo, gli alberi sono cresciuti in coerenza con un modello di crescita costruito con osservazioni svolte precedentemente in ambienti analoghi e con le stesse specie ben sapendo che il bosco è una realtà storica oltre che biologica in cui le componenti naturali e le attività antropiche possono giocare un ruolo importante. Per la proiezione nel futuro si usano pure modelli analoghi a quelli ora descritti ai quali si applicano variazioni coerenti con l’auspicata azione, più o meno drastica in relazione all’ecologia delle specie, ai caratteri dell’ambiente ed agli obiettivi economici, dell’intervento selvicolturale.

Mi sembra anche opportuno separare nettamente i fatti che riguardano i fenomeni fisici e biologici dalle concezioni etiche, sicuramente importanti ma soggettive, che appartengono alla metafisica. Non credo anzitutto che il riconoscere al bosco il “solo valore strumentale” implichi automaticamente la possibilità di utilizzarlo a soli fini commerciali; in Italia molti rimboschimenti sono stati eseguiti con finalità sociali (difesa del suolo in primo luogo) e si può supporre che la loro utilizzazione avrà luogo tenendo presente questo fine, sia pure con un approccio multifunzionale. Nella prassi le scelte selvicolturali derivano da una mediazione, più o meno complessa e, a seconda del punto di vista, non sempre soddisfacente, tra coloro che sono tenuti a far osservare le leggi, i proprietari del bosco, i proprietari dei terreni limitrofi a questo bosco, gli impresari che procedono alle utilizzazioni e, in misura crescente, la pubblica opinione rappresentata dai gruppi ambientalisti, il mondo accademico, le associazioni culturali, il modo dei cacciatori e altri ancora.

Quanto al valore del bosco come soggetto di diritti ho trovato interessante l’approccio di Michel Serres ([11]), un filosofo che nel 1990 si era posto il problema di chi era soggetto di diritti e sosteneva la tesi secondo cui la natura può essere soggetto di diritti. Più precisamente Serres affermava che i “portatori di diritti” sono tali in quanto vi è qualcuno che attribuisce loro questa qualifica e che quindi è possibile oggi attribuire questo diritto alla natura. Per meglio giustificare questa affermazione, Serres esaminava il comportamento degli animali che “marcando” con i propri escrementi il territorio si appropriano di quello spazio e escludono da esso altri individui. Il comportamento dell’uomo, allorché inquina, è analogo a quello degli animali in quanto, se insudicia, impedisce ad altri di utilizzare un dato spazio/risorsa. Sporcare equivale quindi ad appropriarsi. È però possibile che l’uomo, con una revisione del diritto di proprietà, rinunci a questo comportamento animale e decida che la natura abbia il diritto di non essere espropriata. Il diritto può quindi salvare la natura. Serres non è sicuro che questa strada sia quella giusta e la ritiene una utopia innovatrice, ma non crede che l’economia di mercato possa porre rimedio alla conservazione dell’ambiente. Con questa logica ci sarebbero norme e sanzioni e queste seconde non verrebbero dagli uomini ma dall’ambiente sotto forma di una progressiva degradazione. Mi sembra che le legislazioni italiana ed europea, senza comunque esprimere un giudizio sui diritti della natura, si siano già mosse e si muovano proprio in questa direzione. Recentemente a Copenhagen non si è parlato di diritti della natura ma di doveri, non rispettati, degli uomini.

In conclusione penso che Marcello Mazzucchi avesse proprio ragione quando diceva che “le cose si possono vedere in modi diversi”!

References

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