Proposal for the establishment of a “silvo-museum” in the Ravenna historical pinewoods
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 7, Pages 237-246 (2010)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0639-0007
Published: Dec 02, 2010 - Copyright © 2010 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
In the last decade, Ravenna historical pinewoods, whose history is older than eight centuries, have undergone deep changes in the structure and specific composition, dramatically altering the original aspect of the biocoenosis, and leading more and more to a mixed and multi-layered forest formation. To conserve and maintain the forest, the landscapes, and the historical and cultural values characterizing the whole territory over centuries, we suggest to establish a “silvo-museum” (a “forest museum”) in the Ravenna historical pinewoods. Possible ways and activities aimed at the achievement of this goal are discussed. Moreover, divulgation and environmental education initiatives, along with suitable scientific and technical activities, are requested to bring to proper importance the silvo-museum.
Keywords
Introduzione
I popolamenti forestali di molti contesti territoriali del nostro Paese sono stati interessati, in tempi relativamente recenti, da profondi mutamenti di composizione specifica, struttura, forma di governo e modalità di trattamento. Questo è avvenuto in seguito ai cambiamenti socio-economici intervenuti negli ultimi decenni, i quali hanno comportato per la gran parte della collettività un approccio, nei confronti delle formazioni boscate, assai diverso da quello del passato.
La realtà di cui si è fatto cenno si ritrova in pieno prendendo in esame le pinete storiche di Ravenna: per secoli gestite secondo peculiari criteri selvicolturali che hanno consentito il perpetuarsi nel tempo del bosco di pino domestico (Pinus pinea L.) e mantenendo sempre uno stretto legame con le comunità locali, le medesime hanno subito nel corso degli ultimi decenni profonde modificazioni che ne hanno quasi totalmente alterato l’aspetto originario.
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di presentare una proposta di istituzione di un silvomuseo nelle pinete storiche di Ravenna, per conservare e mantenere “in vita” - prima della loro definitiva scomparsa - i valori storici, culturali, sociali, paesaggistici e forestali che per secoli hanno caratterizzato il territorio ravennate.
Il silvomuseo
Il silvomuseo, vocabolo di recente introduzione nella terminologia scientifico-tecnica forestale, è sostanzialmente costituito da un popolamento forestale (di superficie variabile) che rappresenta una realtà selvicolturale un tempo tipica e diffusa in una ben determinata area geografica e che all’attualità risulta essere scomparsa o che sta scomparendo.
Il significato di un silvomuseo è pertanto quello di preservare e/o conservare in situ il valore storico, culturale, sociale, paesaggistico e selvicolturale di una ben precisa ed individuata realtà forestale e territoriale (Fig. 1).
Fig. 1 - La componente arbustiva ha occupato completamente lo spazio a sua disposizione rendendo di fatto impenetrabile il popolamento forestale (foto: Archivio Comando Provinciale CFS di Ravenna).
È doveroso evidenziare come il primo esempio di silvomuseo in Italia sia rappresentato da quello proposto e realizzato a Vallombrosa, nell’Appennino toscano, dove le abetine coetanee costituiscono uno dei più noti e studiati popolamenti forestali che mantengono un profondo legame con il passato, con la cultura e con la selvicoltura ([6], [5]).
L’importanza di un silvomuseo può essere legata a più fattori. Quanto più la realtà forestale attuale si presenta diversa (o si sta diversificando) da quella del passato - per composizione specifica, struttura, forma di governo, modalità di trattamento - tanto più significativa diventa l’importanza (a livello forestale e paesaggistica) dell’istituzione di un silvomuseo per conservare in natura la memoria selvicolturale del passato la quale, in considerazione del fatto che il bosco è un sistema biologico in costante cambiamento ed evoluzione, non potrà rappresentare una realtà statica ed immutata bensì una continuità dinamica con il popolamento forestale a cui il silvomuseo vuol fare riferimento. Un altro fattore da prendere in considerazione, direttamente collegato al precedente, è rappresentato dalla durata nel tempo della differente realtà del passato: nel caso di realtà perdurate per prolungati periodi (molto spesso svariati secoli) diviene di conseguenza maggiormente significativa l’importanza dell’istituzione di un silvomuseo. Inoltre, un ulteriore elemento da tenere presente consiste nella valutazione di quale sia stata l’intensità dell’azione dell’uomo che si è resa necessaria per creare e/o mantenere la realtà selvicolturale del passato: quanto maggiore è stato lo sforzo compiuto tanto più importante diviene il significato del silvomuseo in quanto la realtà che si vuole mantenere o riproporre rappresenta una valenza anche a livello sociale e culturale. Infine, sempre per i valori sopra citati, riveste particolare valenza quello che è stato in epoca passata il legame tra collettività locali e formazioni boscate: quanto più diretto e intenso è stato detto legame, tanto più importante e significativo diviene il conservare (o il ripristinare) la realtà forestale di un tempo.
Le pinete storiche di Ravenna
L’area di studio
La fascia costiera dell’Alto Adriatico, da Venezia a Rimini, per una lunghezza di poco superiore ai 100 chilometri e una profondità di alcune decine, appartiene ad una regione climatica caratterizzata dal clima continentale padano, leggermente modificato dalla presenza del mare, la cui azione mitigatrice non risulta però essere molto incisiva. Il regime pluviometrico del litorale ravennate è caratterizzato da una piovosità media annua compresa tra i 720 ed i 750 millimetri. L’andamento delle precipitazioni presenta due massimi (primavera ed autunno) mentre in inverno e in estate le piogge sono scarse. Le temperature registrate dalla Stazione Meteorologica di Marina di Ravenna forniscono i parametri maggiormente significativi per la vegetazione: temperatura media annua di 13.1 °C, quella del mese più freddo -0.6 °C e quella del mese più caldo 27.3 °C. La temperatura massima assoluta registrata è di 40.2 °C (estate 1985) mentre la minima è di -17.5 °C (inverno 1984/85 - [3]). Sotto l’aspetto ecologico-vegetazionale, l’area è da inquadrarsi nella zona fitoclimatica del Lauretum, sottozona fredda, tipo ad estate calda del Pavari. I suoli hanno avuto origine da processi di regressione marina - sono ancora visibili in più punti della pineta gli andamenti dei cordoni dunali con le zone di sommità (“staggi”) e zone interdunali meno elevate (“bassure”) - e presentano un conseguente diverso livello di falda e un differente sviluppo degli orizzonti pedologici che si ripercuote sulle potenzialità vegetative del soprassuolo. Una problematica di particolare rilievo da porre in evidenza è la subsidenza, la quale in alcuni casi compromette fortemente le capacità di sviluppo del popolamento forestale: oltre all’andamento naturale del fenomeno, costituiscono aspetti di aggravamento del medesimo anche cause antropiche, quali sfruttamento dei campi gassiferi ed emungimento delle acque di falda ([2]).
Cenni storici
L’origine delle pinete di Ravenna si perde in lontane epoche passate. Dall’esame dei documenti in possesso degli storici, si può ritenere presumibile che la città sia stata fondata successivamente all’anno 500 a.C. In tale periodo il bosco si considera fosse già presente nel territorio prossimo all’abitato che si stava insediando: le formazioni forestali dell’epoca, quasi certamente, non erano pinete, bensì boschi misti planiziari. Al riguardo sono di estrema importanza e significato le considerazioni del Di Tella ([8]) secondo il quale ai tempi dei primi insediamenti antropici “le piane litoranee per migliaia di chilometri quadrati ancora paludose erano tutte un querceto, ove la farnia aveva un predominio che solo sulle terre meno umide essa cedeva alla rovere e al leccio”.
Nel contesto ravennate si inizia a parlare, nella descrizione di eventi bellici, di “pineta” verso la fine del V secolo (scontro tra Odoacre e Romolo Augustolo nel 476 e assedio posto da Teodorico alla città di Ravenna dal 491 al 493): in tale periodo però - per ragioni climatiche - si ritiene ([16], [17]) trattarsi di formazioni con la presenza di pino silvestre (Pinus sylvestris L.) e/o pino nero (Pinus nigra Arnold).
La pineta di pino domestico si considera abbia avuto origine solamente nel corso del secondo millennio; infatti nei documenti del periodo si può notare il passaggio dell’impiego del termine “silvae” del X-XI secolo ([10], [11]) a quello di “pignetae” con il secolo XII (documenti Archivio di Stato di Ravenna, schedario dei regesti curato da S. Bernicoli).
È opinione diffusa e confermata che il pino domestico risulta essere stato introdotto nelle aree limitrofe alla città di Ravenna ([16], [4]) e questo si ritiene sia avvenuto per diversi motivi: il primo la produzione di pinoli il cui mercato risulta documentato con certezza nel tardo XIII secolo; il secondo per la produzione di legname da lavoro, legna da ardere e carbone (“carbonella”) ed infine perché la pineta offriva ampi spazi per il pascolo di bovini ed equini. Per tutti i secoli a seguire (dal XII-XIII sino al XIX e parte del XX) le pinete sono state gestite ed utilizzate per ottimizzare le funzioni sopra descritte ([12], [7]).
Dall’esame dei documenti storici, risulta che già a partire dai tempi attorno all’anno mille, la proprietà delle zone boscate litoranee fosse legata alle Comunità Monastiche locali, quattro in particolare. Le pinete passarono poi - sotto il governo Veneziano - per un breve periodo alla Comunità locale per tornare nel 1509 sotto il Governo Centrale Pontificio e questa situazione andò avanti sino alla Rivoluzione Francese, quando nell’estate 1798, sotto il governo della Repubblica Cisalpina, le pinete vennero di fatto espropriate alla Chiesa e consegnate alla Municipalità di Ravenna: ci furono durante queste fasi momenti di ingenti danni al patrimonio boschivo, con diverse migliaia di pini abbattuti per utilizzarne il legname per le costruzioni navali.
Nel 1816, dopo la Restaurazione del Congresso di Vienna, le pinete tornarono di proprietà della Chiesa e le abbazie esercitarono ancora un importante ruolo.
Nell’anno 1860, in un momento di grande confusione interna al Paese, le pinete passarono in proprietà al barone ferrarese Aldo Baratelli: si aprì conseguentemente un complicato contenzioso con lo Stato italiano sino a quando alla fine del 1873 le pinete passarono in proprietà al comune di Ravenna e tale situazione giuridica perdura sino ai giorni nostri ([9]).
Durante le alterne vicende storiche che le hanno interessate, la superficie delle pinete storiche di Ravenna si è notevolmente ridotta e da un’estensione massima a fine Settecento di circa 6-7000 ettari ([14], [17]) all’attualità risulta essere di circa 1130 ettari per la pineta di “San Vitale”, posta a nord della città, e di circa 900 ettari per quella di “Classe”, ubicata a sud del centro abitato, denominazioni legate tuttora ai nomi delle antiche abbazie.
Ai tempi della loro prima costituzione, le pinete furono impiantate su terreni frutto di regressioni marine e le stesse si trovavano poco distanti dalla linea di costa. Si ritiene ([12], [17]) che non tutta la superficie forestale fosse impiantata a pineta: in alcune aree (soprattutto nelle “bassure” interdunali dove il pino domestico non riusciva a vegetare) era il bosco planiziario misto di latifoglie ad essere presente.
Va inoltre posto in evidenza come il termine pinete “storiche” sia anche in relazione al fatto che verso la fine del XIX secolo ed all’inizio del XX sia iniziato lungo la linea di costa l’impianto della pineta demaniale che all’attualità occupa una superficie di 600 ettari circa, estendendosi lungo il litorale per 25 chilometri circa di lunghezza con una profondità variabile di 100-500 metri dalla linea di costa.
Per completezza d’informazione, va aggiunto infine come in passato si sia avallata l’ipotesi che la pineta esistesse già ai tempi dell’imperatore Augusto: la questione viene ancora dibattuta, ma sembra accertato che non vi siano prove di conferma a questa pur suggestiva visione e pertanto viene all’attualità confermato che le pinete storiche di Ravenna - così come sono state conosciute nella memoria recente - siano state impiantate a partire dal XII secolo.
Evoluzione
La storia delle pinete storiche ravennati è legata pertanto strettamente al mondo religioso: per circa 7-8 secoli proprietà della Chiesa, furono date in concessione alle abbazie le quali poterono affittare i terreni (enfiteusi) a privati per usi e utilizzi particolari (pinoli, prodotti legnosi, pascolo).
Questo lungo periodo è stato caratterizzato da una realtà selvicolturale e di gestione pressoché invariata nel corso del tempo e da una forte influenza antropica sul soprassuolo: alla vecchia pineta veniva fatta succedere una nuova pineta realizzata mediante l’adozione di appropriati e specifici interventi selvicolturali che prevedevano la sostituzione della componente arborea del vecchio soprassuolo (Fig. 2).
Fig. 2 - I tronchi dei “vecchi” pini sono oramai circondati da una fitta e affermata rinnovazione naturale di latifoglie (foto: Archivio Comando Provinciale CFS di Ravenna).
Per quanto riguarda le modalità di trattamento selvicolturale applicate, non pare vi siano state regole ben pianificate di gestione; dalla consultazione dei documenti storici ([12]) e di lavori più recenti ([9]) non risultano infatti esservi state nei secoli passati delle precise norme che regolavano il turno e l’estensione delle superfici che venivano tagliate, mentre si ritrovano indicazioni molto dettagliate sulle modalità di rinnovazione della pineta.
Nello specifico risulta che la durata del turno e le superfici che venivano destinate al taglio per poi venir rimboschite non fossero legate a criteri schematici e regole prefissate, come invece avveniva nella stessa epoca nelle non molto distanti abetine legate ai complessi monastici dell’Appennino Toscano e Tosco-Romagnolo. Per le pinete ravennati si trovano notizie che di volta in volta menzionano le superfici tagliate sia per una cessata (o diminuita) produzione di pinoli, sia per esigenze di introiti derivanti dalla vendita del materiale legnoso (vendite effettuate per garantire una continuità delle entrate per cui venivano abbattute porzioni di pineta ancora produttive) ma anche in conseguenza di eventi meteorologici particolari - soprattutto gelate invernali di frequente precedute da estati siccitose - che portavano a grave deperimento, o a morte, porzioni più o meno estese della pineta e delle quali si rendeva necessaria la sostituzione con un nuovo popolamento forestale. Dalla consultazione dei dati a disposizione, si può affermare pertanto che le modalità di gestione delle pinete fossero legate più a criteri di dinamicità e flessibilità che non prefissate e basate su norme e regole selvicolturali pianificate e regolarmente applicate.
Differente appare invece la situazione per quanto riguarda le modalità di rimboschimento della pineta, attuato sempre attraverso la rinnovazione artificiale posticipata mediante semina o impianto.
Si trovano descrizioni dettagliate e minuziose sui tempi ed i sistemi di intervento; infatti prescriveva un’istruzione dell’abbazia di San Vitale sul finire del Seicento che “Il tempo proprio per seminare i pinoli sarà il primo giorno immediatamente dopo la prima pioggia del mese di maggio, richiedendosi per questa semina queste due condizioni, cioè che il pignolo non sia troppo arso dal sole, e che la terra sia bagnata di fresco. In caso che non succedesse pioggia nel mese di maggio, verso li 20 del detto mese si dovrà far seguire la semina, con la diligenza di far stare in acqua i pignoli che si dovranno seminare per tutta la notte antecedente il giorno della semina. Il pignolo si seminerà in guscio tra sterpi e i ginepri per meglio guardarlo dai bestiami e dovrà essere grosso, tondo e pesante per segno, che sia ben pieno e vigoroso […]; e nel seminarlo si dovrà ricoprire tanto che resti per due sole dita sotterra, e non di più.“ ([15]). Oltre a quanto appena descritto, una variante illustrata con altrettanta dovizia di particolari è riportata nell’opera del Ginanni ([12]), il quale scrive che “Le piantazioni ordinarie de’pinocchi in queste Pinete, si stima buono, il farle nel fine di Ottobre sino a mezzo Novembre, guardandosi più al tempo, e alla stagione, che alle fasi della Luna: perciocché la durezza della scorza, o dell’osso si vince con l’umor dell’inverno, ond’è, che s’apre quando entra la primavera, vengono i pinocchi ad aver fatto qualche poco di radice, per la quale crescono senza intermissione. […] E volendo, che i pinocchi nascessero più presto, che per solito non fanno, si potrebbero nell’acqua fresca mettere per alquanti giorni, e sì piantarli, o seminarli:[…].”
Inoltre, cita sempre il Ginanni, “Queste piantagioni sogliono farsi da pazienti villanelle esperte, le quali, portando nel grembiule gli eletti pinocchi, e in man tenendo un preparato legnetto a guisa di chiodo, o piuolo, o cavicchio, cercano di fare con esso per terra fra cespugli il nascosto pertugio e quindi in esso prestamente depositano due o tre pinocchi e lo riempiono senz’altro più del contiguo terreno. Non è però che non siensi anche arando la terra a maniera di grano seminati e sparsi radamente e coperti per un palmo almeno […].”
Viene citata, sempre dal Ginanni, anche una tecnica di piantagione: “Si potrebbero anche di Marzo seminare i pinocchi in vasi con terreno grasso, e innaffiarli, e il secondo anno ne’ luoghi destinati colla terra medesima trasporli, e meglio verrebbero in simile modo certamente.”
Seguivano dettagliate spiegazioni anche sui quantitativi di seme da impiegare nelle superfici da rimboschire, contemplando anche il divieto di pascolo nei quattro anni successivi alla semina.
Si evince pertanto che grande cura ed attenzione venivano prestate alle fasi di rimboschimento - fasi più delicate in assenza della rinnovazione naturale - per garantire l’attecchimento delle giovani piante di pino, mentre per quanto riguarda le modalità ed i tempi di sostituzione del popolamento adulto tutto era lasciato a scelte basate di volta in volta su criteri prevalentemente economici, ovvero per garantire introiti costanti nel tempo per le quattro abbazie ravennati.
Negli ultimi decenni il popolamento forestale ha subito delle profonde modificazioni: a partire dal periodo compreso tra le due guerre, ma ancor più intensamente nel secondo dopoguerra, in seguito alla cessazione indotta dai cambiamenti socio-economici delle forme tradizionali di utilizzazione e conseguentemente delle modalità di gestione e di trattamento selvicolturale, dalla pineta pura a pino domestico si è passati - attraverso un processo di successione naturale secondaria - a formazioni miste, con la presenza di diverse essenze forestali quali farnia (Quercus peduncolata Ehrh.), pioppo bianco (Populus alba L.), frassino ossifillo (Fraxinus oxyphylla Bieb.), leccio (Quercus ilex L.) e con una notevole presenza di sottobosco - a volte pressoché impenetrabile - costituito da essenze arbustive ed erbacee tipiche della zona.
Le pinete storiche di Ravenna si presentano pertanto all’attualità come formazioni in via di graduale e costante evoluzione che in seguito ai profondi mutamenti di composizione specifica, struttura, forma di governo e modalità di trattamento si stanno indirizzando verso popolamenti forestali misti i quali vanno ad assumere una fisionomia assai distante da quella che le ha caratterizzate per molti secoli. La presenza dei pini domestici si sta via via rarefacendo, la rinnovazione naturale è, oggi come in passato, pressoché nulla e gli attuali pochi vecchi pini ancora in vita, rispetto ai molti di un tempo, sono oramai circondati - sempre più spesso sino alla chioma - dalle altre essenze che si sono affermate nel corso degli ultimi decenni.
Di tale portata sono i cambiamenti avvenuti all’interno del popolamento forestale che, se non vi fosse la memoria storica, non si comprenderebbe ai giorni nostri nemmeno il motivo per cui dette formazioni boscate vengano ancora chiamate e denominate “pinete”.
Proposta di istituzione del silvomuseo
Motivazioni
Le ragioni di carattere generale riguardo l’importanza e il significato dell’istituzione di un silvomuseo sono già state esposte in precedenza. Nello specifico, la proposta di realizzazione di un silvomuseo nelle pinete storiche di Ravenna trova fondamento essenzialmente nel fatto che detti popolamenti forestali sono al giorno d’oggi profondamente diversi dal passato: i cambiamenti avvenuti all’interno della componente boscata hanno comportato una sostanziale modifica del contesto forestale, selvicolturale, storico e paesaggistico che inizia a sopravvivere solamente nella memoria di coloro che hanno vissuto - sino ai decenni a cavallo tra i due conflitti mondiali e nell’epoca immediatamente successiva alla seconda guerra - gli ultimi periodi in cui l’aspetto e le modalità di fruizione delle pinete erano le medesime delle epoche precedenti (Fig. 3).
Fig. 3 - La superficie di circa 12 ettari rimboschita all’interno della Pineta di Classe alla fine degli anni ’60 del secolo scorso rappresenta l’ultimo esempio di gestione selvicolturale legata al passato: con adeguati interventi gestionali l’area potrebbe fungere da importante sezione dell’istituendo silvomuseo (foto: Archivio Comando Provinciale CFS di Ravenna).
Inoltre, quale altro motivo, si ritiene determinante il fatto che le pinete storiche hanno rappresentato per ben circa otto secoli la formazione boscata tipica del litorale ravennate, conferendo al paesaggio e al contesto territoriale un aspetto del tutto particolare: la presenza della pineta che succedeva a se stessa attraverso l’applicazione di specifici interventi selvicolturali, ha costituito una peculiarità del territorio ravennate il quale si è differenziando profondamente dall’ambiente circostante. A tale proposito Jedlowski ([13]) già a suo tempo evidenziava che bisognava tener conto delle “essenziali, direi soverchianti, suggestioni paesaggistiche, naturalistiche, storiche, letterarie, che alle Pinete ravennati conferiscono il fascino di un’antica gloria”.
Infine, una ulteriore ragione di particolare significato e importanza è rappresentata dal fatto che da parte della collettività locale vi è stato, da sempre, con le pinete un profondo e sentito legame: le forme di utilizzazione delle medesime - produzione di pinoli, raccolta di materiale legnoso (jus lignandi), esercizio del pascolo (jus pascendi) - hanno costituito e rappresentato per secoli una imprescindibile componente della vita sociale ed economica della città di Ravenna.
Ipotesi di realizzazione
Le modalità per procedere alla realizzazione di un silvomuseo sono fondamentalmente tre: la prima è conservare la realtà in essere; la seconda consiste nel procedere al “recupero”[1] di una porzione, più o meno estesa a seconda dei casi, del popolamento forestale; la terza modalità consiste nel realizzare un impianto ex novo con caratteristiche di composizione specifica e struttura simili alla realtà forestale che si vuole rappresentare con il silvomuseo. Le suddette modalità si differenziano notevolmente l’una dall’altra, sia per l’arco temporale di durata degli interventi di realizzazione sia per le aree eventualmente interessate dagli interventi medesimi.
Nel caso specifico delle pinete storiche di Ravenna, considerati i profondi mutamenti avvenuti all’interno del popolamento forestale, le ipotesi di realizzazione del silvomuseo si riducono sostanzialmente a due in quanto il conservare la realtà in essere, assai differente da quella del passato, non riveste alcun significato silvomuseale.
Una prima ipotesi su cui pianificare l’attuazione degli interventi selvicolturali è quella impostata nel breve periodo: si potrebbe procedere al recupero (nell’accezione del termine sopra evidenziata) di quelle porzioni di bosco che hanno mantenuto una componente di struttura e una composizione specifica quanto più possibile prossima alla pineta dei secoli passati. Questa ipotesi di realizzazione presenta però notevoli criticità in considerazione dello stato attuale di evoluzione del popolamento forestale e non permetterebbe né di operare sull’intero complesso boscato né su ampie superfici bensì solamente su porzioni di pineta poco estese e per di più frammentate tra loro: ciò in quanto la differenziazione intervenuta all’interno del soprassuolo - come in precedenza evidenziato - ha comportato la drastica riduzione numerica dei pini con il conseguente ingresso e affermazione di latifoglie; inoltre si è verificato un diffuso insediamento di un fitto e compatto strato arbustivo di sottobosco il quale ha interessato la quasi totalità della superficie della pineta. Per questi motivi (e sono queste le ragioni delle criticità ) il voler riproporre un aspetto della formazione forestale nella fisionomia simile al passato - lasciando pertanto solamente i vecchi pini dove ancora la loro densitàè sufficiente per dar luogo ad una pineta e non a un soprassuolo rado - comporterebbe l’esecuzione di interventi selvicolturali considerati di rilevante impatto; dovendo infatti prevedere l’eliminazione e l’asportazione di parte del soprassuolo forestale (latifoglie) e della componente arbustiva, risulterebbero pesanti le conseguenze e le ripercussioni negative sull’ecosistema in evoluzione verso strutture prossime alla naturalità. Per quanto premesso, la tipologia di intervento proposta presenta, su ampia scala, validità prevalentemente teorica. Un’applicazione seppur parziale della metodologia del recupero di porzioni del popolamento forestale potrebbe essere eseguita in modo significativo solamente su alcuni ristretti lembi costituiti dai giovani impianti (rimboschimenti di circa 40 anni) i quali necessitano però di appropriati interventi selvicolturali, quali diradamenti, spalcature e potatura delle chiome; all’interno della Pineta di Classe - nella zona denominata “Le Bufale” - sono infatti presenti le ultime testimonianze di gestione selvicolturale improntata a mantenere la pineta in purezza rappresentate da superfici poco estese (la più estesa è di circa 12 ettari) con interventi di rimboschimento eseguiti sul finire degli anni ’60-inizio anni ’70 del secolo scorso. Il mantenimento di questa porzione di pineta potrebbe rappresentare un primo (ma non sufficiente) esempio di silvomuseo: la principale criticitàè costituita dal fatto che non sarebbero rappresentate le differenti classi di età e le diverse fasi di sviluppo del popolamento forestale; risulterebbe infatti rappresentatala al momento esclusivamente la giovane fustaia in evoluzione, risultando conseguentemente assenti le fasi giovanili e adulte del popolamento forestale (Fig. 4).
Fig. 4 - Le porzioni di pineta ubicate nelle immediate vicinanze del “Parco 1° Maggio” nella Pineta di Classe conservano ancora in parte l’aspetto tipico dei secoli passati, con il soprassuolo arboreo in purezza e l’assenza pressoché totale del sottobosco (foto: Archivio Comando Provinciale CFS di Ravenna).
La seconda ipotesi per la realizzazione del silvomuseo all’interno delle pinete storiche di Ravenna è quella di agire nel medio e lungo periodo: in questo caso è possibile prevedere la realizzazione, su di una superficie minima che si ritiene significativa se di almeno venti ettari circa, di una compresa suddivisa in cinque particelle, di uguale estensione, ognuna delle quali rappresentativa di uno stadio evolutivo della pineta, ovvero rinnovazione/novelleto, spessina, perticaia, giovane fustaia, fustaia adulta. Le dimensioni proposte si ritengono minime per la significatività del popolamento forestale tenendo conto sia dell’uniformità della stazione sia della caratterizzazione degli stadi evolutivi della pineta nonché dei costi gestionali legati alla realizzazione e al mantenimento del silvomuseo. La modalità con cui procedere dovrebbe consistere nell’esecuzione della semina con pinoli o della piantagione (come avveniva in epoca passata) su circa quattro ettari di terreno e negli anni successivi operare cure colturali: solo quando il giovane popolamento sarà giunto allo stadio evolutivo di spessina andrà eseguita la semina (o la piantagione) su ulteriori quattro ettari e così procedere nel tempo nelle varie particelle. Al termine della fase di fustaia adulta, con il taglio del soprassuolo, il terreno si renderebbe nuovamente disponibile per la semina dei pinoli o la messa a dimora delle giovani piantine: in questo modo si potrebbero riproporre su superfici contigue i vari stadi di sviluppo della pineta. Indubbiamente i tempi per arrivare allo stadio di pineta adulta sarebbero rappresentati da svariate decine di anni, ma nell’attuazione di tale tipologia di intervento sarebbero presenti aspetti da considerarsi positivamente, rappresentati da un lato dal non dover intaccare le attuali formazioni forestali in via di evoluzione naturale e dall’altro di seguire ed indirizzare gradualmente nel tempo il nuovo soprassuolo. La modalità di trattamento che si propone di adottare risulta essere simile a quella applicata in epoca passata, ovvero il taglio a raso (basando il turno sulla maturità fisiologica del soprassuolo, prescindendo così in parte dal solo aspetto produttivo) con rinnovazione artificiale posticipata e con la totale assenza della componente di sottobosco, mantenuta anche attraverso l’esercizio del pascolo bovino e/o equino: in questo modo verrebbero mantenute anche le tecniche impiegate nel tempo sin dal momento dell’impianto della pineta, nei secoli successivi al XII. Circa l’ubicazione di questa tipologia di silvomuseo, la soluzione che potrebbe essere attuata nel miglior modo è necessariamente quella di un posizionamento confinante o limitrofo alle pinete storiche: il comune di Ravenna sembra avere nelle proprie disponibilità dette tipologie di terreni, in particolar modo una sessantina di ettari confinanti con il lato est della Pineta San Vitale, a nord della città di Ravenna.
Per ovviare ai tempi lunghi necessariamente previsti per la realizzazione dell’intervento ex novo, si potrebbe ipotizzare anche una soluzione transitoria di un silvomuseo temporaneo “a mosaico”. Ciò potrebbe essere realizzato includendo, per le fasi giovanili, l’area dove è stato eventualmente eseguito il rimboschimento, per le classi intermedie le superfici recuperate attraverso gli opportuni interventi selvicolturali in precedenza descritti ed in ultimo, per la pineta adulta, i soprassuoli presenti nelle vicinanze delle “case pinetali” che su superfici esigue - a volte solo poche centinaia di metri quadrati - ben rappresentano una realtà riferibile ai secoli passati, con la pineta adulta allo stato pressoché puro e senza la presenza di sottobosco ed il cui esempio più significativo è presente nelle immediate vicinanze del “Parco 1° maggio” della pineta di Classe dove la casa pinatale potrebbe anche fungere da centro di informazione e documentazione storica.
Considerazioni conclusive
Le pinete storiche di Ravenna hanno rappresentato per un lungo periodo di tempo una realtà selvicolturale fortemente rappresentativa del territorio circostante di quella che fu la capitale dell’Esarcato.
In considerazione dell’evoluzione della formazione forestale che all’attualità ha portato all’affermazione di boschi misti in sostituzione della pineta di pino domestico - oramai quasi del tutto scomparsa - che per circa otto secoli ha caratterizzato il paesaggio ravennate ed in considerazione del legame che la collettività locale ha da sempre avuto con la pineta, al fine di mantenere e conservare valori storici, culturali, sociali, paesaggistici, selvicolturali e forestali della “divina foresta spessa e viva” citata dal Sommo Poeta, si ritiene quanto mai opportuna l’istituzione di un silvomuseo, anche alla luce della proposta di inserimento delle pinete storiche di Ravenna nel catalogo nazionale dei paesaggi rurali storici ([1]).
Le modalità per la realizzazione del silvomuseo potrebbero prevedere due possibili alternative, una nel breve e una nel medio-lungo periodo: la prima ipotesi dovrebbe puntare sul “recupero” (nel significato del termine sopra descritto) di quelle poche porzioni di pineta che ancora conservano la fisionomia di un tempo, mentre la seconda modalità dovrebbe consistere nell’impianto di un nuovo popolamento forestale in un’area attualmente libera da vegetazione arborea ubicata in prossimità dell’attuale soprassuolo boschivo della Pineta di San Vitale, a nord della città. In considerazione delle criticità connesse alle due diverse procedure (forte impatto antropico sull’ecosistema forestale in evoluzione attuato mediante la modifica della componente specifica e l’eliminazione del sottobosco per la prima ipotesi e tempi assi lunghi per la seconda) si potrebbe ipotizzare una sorta di silvomuseo temporaneo “a mosaico” che preveda fin da subito l’inclusione delle aree rimboschite ex novo, delle porzioni di giovane fustaia sottoposte ad appropriati interventi selvicolturali ed i lembi residui di pineta adulta ubicati in prossimità delle “case pinetali”, in particolar modo quella sita nel Parco denominato “1° maggio” all’interno della Pineta di Classe.
Presupposto fondamentale per la comprensione del significato, dell’importanza e per la valorizzazione del silvomuseo è che l’istituzione del medesimo sia accompagnata da una adeguata azione di informazione sia storica sia scientifico-tecnica e di educazione ambientale - la quale potrà essere realizzata mediante visite guidate e/o la realizzazione di materiale divulgativo - tale da mantenere “viva” nel tempo e nello spazio una realtà sociale e territoriale che ha caratterizzato per secoli la zona del ravennate con i suoi peculiari aspetti di conoscenza, saperi locali, tradizioni, usi e consuetudini.
References
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