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Coppices in Tuscany: considerations on the relationship between forest management and natural resources

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 8, Pages 60-70 (2011)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0653-008
Published: May 23, 2011 - Copyright © 2011 SISEF

Technical Reports

Abstract

I analyze the amount of wood samples resulting from coppicing and the recent years trend based on national and regional inventories data and on the “Report on the state of forests in Tuscany, 2008”. I highlight the difficulty in assessing a relationship between forest planning and protection of natural elements susceptible to deterioration of old forests. I also point out the difficulty of choosing appropriate indicators and investigation scale. Finally I analyze the regional laws in force, highlighting the rules can be critical for the habitat and/or the species of conservation concern.

Keywords

Coppice, Forest statistics, Biodiversity, Indicators, Cuttings, Forest rules

Premessa 

La questione legata alla sostenibilità ecologica del ceduo è, negli ultimi anni, una delle più dibattute all’interno del mondo scientifico forestale (si veda, ad esempio, [10], [9], [16], [18], [4], [26], [30] e [29], [28], [1], [17], [3]. Ciancio & Nocentini ([11]) sostengono che la gestione sostenibile dei boschi cedui sia “il problema dei problemi della selvicoltura italiana”. L’interesse verso questa forma di governo è tanto più vivo oggi, rispetto al recente passato, in considerazione dell’accresciuto valore economico della legna da ardere e delle biomasse forestali in genere, che ha portato in certi casi a considerare le utilizzazioni forestali come una minaccia potenziale alla conservazione delle risorse naturalistiche. A questo riguardo si veda, ad esempio, il Piano d’azione regionale per la biodiversità in Toscana ([23]), piano che avrà anche funzioni di progetto pilota per la Strategia Nazionale per la biodiversità , in cui si individuano tra le numerose cause di minaccia per gli obiettivi di conservazione anche quelle legate ad alcune forme di utilizzo dei boschi cedui.

Il presente contributo vorrebbe fornire alcuni spunti di riflessione in merito alla questione con l’intenzione di mantenere un approccio il più possibile costruttivo e pragmatico.

Il contesto territoriale su cui concentrerò gran parte delle mie analisi e valutazioni è quello toscano, ma penso che molte delle problematiche affrontate siano comuni almeno a buona parte dell’area appenninica.

Comincerò pertanto a focalizzare l’attenzione sulla dimensione del problema, nella consapevolezza che dietro a numeri e statistiche si cela spesso una variabilità infinita di casistiche e che, come si dirà più avanti, la scala e l’attendibilità dei dati condizionano di molto le valutazioni che possono essere fatte.

Dati su diffusione del governo a ceduo e modalità di utilizzazione  

Il governo a ceduo è diffuso in Italia su quasi 3 700 000 ettari ([21]) ed è applicato a soprassuoli originati in tempi molto diversi: già utilizzati per secoli come tali o, come è successo in molte aree del centro e del meridione d’Italia, ricavati dalla conversione delle fustaie soltanto tra ’800 e ’900 ([15], [8], [11]). Il declino delle utilizzazioni è iniziato a partire da gli anni ’50 del secolo scorso e si è protratto fino alla fine degli anni ’70. L’inversione di tendenza verificatasi a partire dagli anni ’80 può essere spiegata per la concomitanza di tre principali fattori: aumento considerevole della biomassa ritraibile per unità di superficie, ampia disponibilità di manodopera a basso costo, aumento del valore della legna da ardere conseguente ad un aumento della domanda anche per effetto del ripopolamento di molte aree rurali in ampi settori d’Italia. La stima del prelievo di legna da ardere in Italia tra il 1990 e il 2005 è di circa 6 milioni di m3 anno-1 ([27]), sostanzialmente costante negli ultimi anni considerati, e con un tasso di prelievo in rapporto all’incremento annuale di biomassa pari al 26-27%, tra i più bassi di Europa. A compensare l’insufficiente approvvigionamento interno di legna da ardere è il dato dell’importazione che ci pone, con quasi 800 mila tonnellate annue nel 2006, al primo posto mondiale ([32]).

Sarebbe certamente interessante poter disporre di dati più ancora più aggiornati per valutare gli effetti recentissimi dell’aumento della domanda di biomasse a scopo energetico.

Volendo concentrare l’attenzione sul territorio regionale toscano si attesta che, nonostante il generale e progressivo processo di “invecchiamento” di buona parte dei soprassuoli, una quota ancora molto rilevante è rappresentata da boschi sostanzialmente giovani, se non altro dal punto biologico. Dai dati dell’Inventario Nazionale ([22]), tralasciando il 25% circa dei soprassuoli di cui non viene definita una età , il 43% risulta inferiore ai 40 anni, mentre solo il 2% si configura come un bosco maturo (oltre 80 anni di età ); la restante parte (30% circa) si colloca in una classe intermedia. Secondo il “Rapporto sullo stato delle foreste in Toscana” ([5]), relativo al 2008, dei circa 100 mila ettari forestali del Patrimonio Agricolo e Forestale Regionale, quasi i 3/4 dei boschi è di origine agamica con età che solo in parte superano i 60 anni, collocandosi più spesso tra i 40 e i 60 anni. Le formazioni di origine gamica ammontano al 25%, di cui quasi l’80% di origine artificiale (ad es., abetaie e pinete).

Per quanto riguarda la proprietà privata, il rapporto non fornisce sufficienti informazioni ma la quota di boschi di origine agamica (tra cedui a regime, cedui invecchiati e cedui di oltre 50 anni di età ), dovrebbe verosimilmente collocarsi tra l’80 e il 90% del totale.

Secondo i dati dell’Inventario Forestale della Toscana ([20]), le fustaie di latifoglie autoctone (fustaie coetanee, disetanee e irregolari), che costituiscono buona parte delle formazioni forestali di maggior pregio naturalistico, sono stimate in circa 35 000 ettari, pari a solo il 3% dell’intera superficie boschiva regionale.

Sempre secondo il suddetto Rapporto, nel 2008 gli interventi di utilizzazione richiesti nella proprietà privata hanno interessato circa 16 700 ettari, pari al circa il 1.7% della superficie forestale privata, evidenziando un aumento del 13.6% rispetto al 2007. Nel corso dei 4 anni considerati (2005-2008) è aumentato sia il numero delle istanze presentate che quello della superficie media sottoposta ad utilizzazione, anche se quest’ultima in misura più limitata. La dimensione media delle superfici interessate è comunque molto diversa a seconda dell’area geografica (più elevata nelle province di Pisa e Grosseto, dove si pone tra i 4 e i 6 ettari, più ridotta sull’Appennino dove si attesta perlopiù tra 1 e 3 ettari).

La tipologia di intervento più frequente nella proprietà privata è il taglio del ceduo semplice (70%). Gli interventi più richiesti sono stati quelli a carico delle specie quercine (circa il 50% del totale, con un aumento del 50% rispetto al 2007, soprattutto nella categoria di bosco “misto a prevalenza di specie quercine”), seguita da castagno e faggio.

I cedui invecchiati ricadenti nella proprietà privata sono stati oggetto di richiesta di intervento per circa 5 800 ettari con un aumento molto consistente sul biennio precedente, rispetto al quale l’attività selvicolturale risulta addirittura quadruplicata e costituisce quasi la metà dell’intera categoria taglio del ceduo nell’area privata. Secondo il suddetto Rapporto, l’incremento così marcato delle richieste per i cedui invecchiati è da mettere in relazione sia con la volontà dei proprietari di richiedere il taglio per i cedui che si avvicinano al limite d’età che li sposterebbe nella categoria fustaia (in base all’art. 29 del Regolamento Forestale regionale, i cedui oltre 50 anni, salvo eccezioni, sono assimilati a fustaie), sia con la necessità di aumentare il valore di macchiatico dei soprassuoli che, utilizzati al turno minimo, non potrebbero coprire adeguatamente i costi di intervento. Le specie quercine risultano quelle più coinvolte (quasi il 60%), seguite dal castagno. Significativo è anche il dato sui boschi invecchiati di robinia (488 ettari pari all’8.5%, rispetto ai soli 30 ettari del 2007 e 29 del 2006).

Provando ad eseguire semplici calcoli si può rilevare che con la quota di circa 11 700 ettari di boschi ceduati nel 2008 in Toscana, pari a circa l’1.2% del totale della superficie privata forestale, e applicando tale tasso (assunto, per semplicità , costante anche per gli anni a venire) al turno minimo (18 anni per le specie quercine e altre specie e 24 anni per il faggio), si ottiene che l’area dei cedui a regime (ovvero aventi un età compresa tra 0 e 18/24 anni) andrebbe a coprire il 22-28% dei boschi privati. Nel caso, più realistico, che il turno consuetudinario di utilizzazione non corrisponda a quello minimo ma si attesti attorno ai 24-30 anni per le specie quercine e 32-36 anni per il faggio, si ottiene un’area dei cedui a regime che andrebbe verosimilmente a coprire il 30-45% dei boschi di proprietà privata. E questo, senza considerare incrementi del tasso medio annuale di ceduazione, assai prevedibili almeno per i prossimi anni, nel qual caso l’area dei cedui a regime subirebbe ulteriori notevoli incrementi.

Attendibilità dei dati 

Riguardo all’attendibilità dei dati utilizzati per le statistiche sui prelievi, è comunque utile evidenziare il fatto che tali dati siano considerati da taluni assai sottostimati, soprattutto per quanto concerne il legname da combustibile ([14], [19], [12], in [13]). Un’analisi sperimentale ([13]) ha permesso di riscontrare, per un’area di circa 18 000 km2 tra le Regioni Lazio, Abruzzo, Campania, Molise e Puglia, per gli anni 2002-2005, differenze significative tra quanto noto a livello amministrativo a fini statistici (essenzialmente ai comandi stazione del Corpo Forestale dello Stato) e quanto realmente eseguito. Tale differenza è risultata pari a 1006 ha su circa 3243 ha utilizzati ovvero, nel complesso, la superficie nota soggetta al taglio sarebbe appena i 2/3 di quella realmente utilizzata. È importante sottolineare che non sono state riscontrate differenze significative tra le varie Province e Regioni considerate, a dimostrazione di una dimensione generale del fenomeno. Gli Autori della suddetta analisi individuano probabilmente nel regime autorizzativo semplificato, come avviene prevalentemente nel caso dei cedui, la principale motivazione della sottostima, cosa del resto già evidenziata anche da Macrì ([24]). La semplice dichiarazione può infatti incentivare il proprietario boschivo a dichiarare superfici volutamente inferiori a quelle che fanno sorgere l’obbligo di autorizzazione.

Per il territorio toscano tale verifica non è stata mai fatta.

Chi scrive ha provato ad eseguire un controllo speditivo e a scopo puramente esplorativo (quindi senza la pretesa di ottenere dati scientificamente incontrovertibili ma con il solo obiettivo di “farsi un’idea” più o meno indicativa del fenomeno) attraverso l’utilizzo in ambiente GIS di foto aeree scattate nel 2007 di un’area di circa 4250 ettari, scelta in modo del tutto casuale all’interno di un comprensorio (quello delle Province di Grosseto e Siena) noto per essere stato, fin da epoca storica, sottoposto a frequenti utilizzazioni. In base al Corine Land Cover 2006 l’area presa in esame, posta a cavallo tra i Comuni di Massa Marittima e Chiusdino, è costituita principalmente da formazioni di “Boschi a prevalenza di querce caducifoglie” (Cod. Corine 3112) e “Boschi misti a prevalenza di latifoglie mesofile e mesotermofile” (Cod. Corine 3113).

Ebbene, la digitalizzazione delle aree utilizzate negli ultimi 3-4 anni, rilevabili con una certa facilità mediante la semplice osservazione a video dei confini delle tagliate, ha prodotto i seguenti risultati:

  • superficie totale fotointerpretata = 4.250 ha
  • superficie interessata da agricoltura e/o pascolo = 540 ha
  • superficie totale interessata da boschi = 3.700 ha
  • superficie interessata da utilizzazioni (ceduazioni) recenti (entro 3-4 anni) = 880 ha
  • rapporto tra superficie utilizzata negli ultimi 3-4 anni e superficie boscata = 24%
  • numero di tagliate individuate = 78
  • ampiezza media della tagliata = 11.3 ha

Frequenza del numero delle tagliate per classi di ampiezza:

  • < 5 ha= 19 (24%)
  • Tra 5 e 10 ha= 23 (29%)
  • Tra 10 e 15 ha= 19 (24%)
  • Tra 15 e 20 ha= 7 (9%)
  • Oltre 20 ettari= 10 (13%)

Si precisa, inoltre, che non si è voluto prendere in esame eventuali accorpamenti di superfici adiacenti riferite a tagliate distinte eseguite a distanza di meno di 3 anni tra loro.

Questi dati, per quanto parziali e bisognosi di una verifica rigorosa della correttezza del metodo anche mediante controlli in campo, mi inducono a riflettere sulla necessità non solo di un maggior controllo del rispetto della normativa vigente (es. estensione delle tagliate) ma anche di una pianificazione degli interventi a scala di paesaggio. Nel caso sopra riportato, anche senza addentrarsi nel rispetto o meno dell’art. 43 del Regolamento Forestale della Regione Toscana (“Determinazione delle superfici territorialmente ammesse annualmente al taglio”, che dovrebbe disciplinare l’estensione massima complessiva delle tagliate a scala di bacino), appare assai rilevante l’estensione complessiva delle aree utilizzate nell’arco di un periodo così breve, anche in considerazione del fatto che le aree risparmiate sono comunque per lo più interessate da boschi cedui, utilizzati in precedenza o potenzialmente utilizzabili negli anni a venire. In contesti di questo tipo ritengo che occorra valutare attentamente il rischio che possano esserci seri problemi di frammentazione degli habitat forestali di maggior pregio conservazionistico e delle specie che da essi dipendono.

La valutazione degli effetti ambientali della ceduazione: tra difficoltà oggettive e “avventurose” interpretazioni dei dati 

Sebbene la bibliografia dedicata al tema della sostenibilità ecologica della ceduazione sia sempre maggiore, si evidenzia una sostanziale incapacità di valutare in modo scientificamente valido gli effetti che tale pratica, in diversi contesti, può produrre sulle componenti naturali. Quello che infatti potrebbe apparire come l’analisi di un intervento avente caratteristiche certe di estensione (area e geometria della tagliata), biomassa asportata (legname prelevato), biomassa rilasciata (numero e dimensione media delle matricine rilasciate) e di tutta un’altra serie di variabili quantificabili (ad es. distribuzione delle matricine, forma della tagliata, pendenza, quota ed esposizione dell’area, ecc.), assume nella realtà un livello di complessità tale da rendere troppo rischioso e aleatorio ogni tentativo di semplificazione.

Vi è innanzitutto un problema di indicatori. In molti casi si è fatto ricorso ad indici di biodiversità , pur coscienti di quanto questo nella pratica si riduca ad essere la misura di una sola minima parte di questa. Sarebbe come pretendere di voler osservare l’oceano dall’oblò di una nave: si avrà sempre una percezione limitata. Nei consueti processi di analisi, adottati comunemente per studi mirati a valutare la qualità ambientale di territori, si riesce a stilare elenchi floristici e faunistici con un sufficiente livello di attendibilità soltanto per alcuni taxa, le cui conoscenze e il loro livello di divulgazione è divenuto negli ultimi anni soddisfacente. Basti pensare a quanto sono ancora lacunose, tra i soli Vertebrati, le conoscenze sulla distribuzione di molte specie di Rettili e Mammiferi; mentre ancora pochissimo sappiamo per gran parte dei taxa di Invertebrati. Analogamente, per il Regno vegetale le conoscenze su briofite e licheni risultano limitatissime. Per non parlare della biodiversità edafica di cui solo da poco si è cominciato a parlare ma che per il momento appare ancora del tutto ignorata nei vari processi di analisi e monitoraggio.

Un limite dell’utilizzo esclusivo di indici di biodiversità è quello di non tenere in giusta considerazione l’importanza conservazionistica delle specie. Un classico esempio ci viene proprio dalle utilizzazioni forestali dei boschi cedui, il cui numero di specie floristiche rilevabili all’interno di una particella aumenta rapidamente negli anni successivi al taglio per poi ritornare sui livelli precedenti all’intervento. Vi sono però specie rare, forse perché minacciate, che non necessariamente si accompagnano ad una elevata biodiversità (o almeno a quella che riusciamo a misurare noi). L’indice di biodiversità è fortemente influenzato dal numero di specie comuni e generaliste che sono per lo più di scarso valore conservazionistico, solitamente vagili e legate ad ambienti disturbati e poco evoluti.

Generalizzando, si può affermare quindi che la ceduazione tende a favorire l’ingresso di specie di flora anemocora adattata a sfruttare le particolari condizioni micro-ambientali che si instaurano a livello del suolo per i primi anni dopo il taglio (maggior assolazione, maggior escursione termica, minore umidità relativa, maggior dilavamento superficiale, maggior disponibilità di risorse minerali, ecc.). Di contro si ha una riduzione (fino a poter arrivare all’estinzione locale) delle specie legate alle condizioni mesofile che possiedono una capacità di dispersione ridotta, elevato grado di isolamento, ecc. Pertanto, se tra i risultati di uno studio finalizzato a valutare gli effetti della ceduazione si evidenzia quello dell’aumento della biodiversità a seguito del taglio, si corre il rischio di affermare una ovvietà insignificante. Le specie che subentrano sono capaci di muoversi rapidamente in un raggio vastissimo a partire da nuclei isolati, al contrario delle specie nemorali. Nell’ambito di una pianificazione di rete ecologica a scala di paesaggio, questo gruppo di specie non dovrebbe necessitare di ripristino di corridoi ecologici, perché capaci di fdiffondersi, da sempre, per conto proprio.

A tale limite si potrebbe porre rimedio utilizzando indici di rarità (ricchezza di specie rare) o comunque di interesse conservazionistico (ricchezza di specie di interesse conservazionistico), sforzandosi di considerare parametri quanto più oggettivi possibile, anche se talora di difficile applicazione: ad esempio considerando l’ampiezza di areale occupato alle varie scale (continentale, nazionale, regionale, bacino, SIC o area protetta, ecc.), la tendenza nel tempo della distribuzione, l’abbondanza degli effettivi, il livello di vulnerabilità riscontrato a fattori antropici o naturali, ecc. È chiaro però che anche questo indice risente necessariamente del livello di conoscenza generale che sarà più elevato per alcuni taxa (ed es. Uccelli), da cui necessariamente ne consegue che le liste di specie considerate rare e/o minacciate saranno più attendibili e aggiornate solo per i gruppi maggiormente conosciuti.

Vi è poi un problema di scala. Infatti se per biodiversità si intende “l’insieme della pluralità delle specie e della complessità delle catene alimentari all’interno di un sistema, alla grande (microcosmo) come alla piccola scala (paesaggio, regione geografica) in cui le specie si muovono e con cui reagiscono” ([31]), risulta evidente come la scala ed i caratteri della struttura spaziale del paesaggio non siano estranei alla nozione stessa di biodiversità ([25]).

Non si può pertanto effettuare una valutazione degli effetti della ceduazione, anche di singole particelle, senza correre il rischio che “disturbi” agenti a scale diverse da quelle analizzate (particella forestale) rendano aleatorie, quando del tutto inattendibili, le conclusioni.

Molti studi sui rapporti tra gestione selvicolturale e componenti naturali sono lacunosi proprio perché entrano in gioco variabili sconosciute o difficilmente misurabili. La presenza/assenza di una specie può essere il risultato di una quantità enorme di fattori che agiscono oggi o che hanno agito in passato.

Il fattore “tempo” poi è fondamentale, se si pensa che i tempi dei sistemi forestali sono molto lunghi per poter apprezzare cambiamenti significativi nell’arco della vita di un ricercatore, figuriamoci di uno studio che abbraccia pochi anni.

Le semplificazioni, che in certi casi siamo costretti a commettere per cercare di analizzare l’influenza di alcune variabili su alcune specie, possono risultare eccessive e inficiare tutto il lavoro. Provo a fare un esempio, tra i tanti possibili, fondato sulla mia esperienza di circa quindici anni di osservazioni, studi e monitoraggi sugli Uccelli. È assai frequente rilevare un indice di ricchezza ornitica significativamente più elevato in aree di margine “bosco/area aperta” piuttosto che in aree interne alla matrice forestale anche quando questa copre ininterrottamente vaste porzioni di territorio (si veda ad es. [33]). L’analisi del popolamento permetterebbe infatti di rilevare nelle aree di margine gran parte delle specie tipicamente forestali (intese come interior nella terminologia comunemente utilizzata per definire le specie sensibili all’effetto margine - [7]) che sono presenti anche nella porzione più interna della matrice, a cui si aggiungono quelle tipiche degli ecosistemi di transizione (arbusteti e ambienti ecotonali) e di ambiente aperto, quest’ultime invece assenti nelle aree forestali interne. Ebbene, la frequenza con cui tale risultato si verifica, che potrebbe anche indurci a ritenere poco significativo l’effetto margine quale fattore limitante per le specie forestali interior, dovrebbe a mio avviso farci riflettere sulla selezione delle variabili considerate. Se l’unica variabile valutata è la distanza dal margine, omettendo di considerare la complessità strutturale derivante ad esempio dalla dimensione e distribuzione degli esemplari arborei presenti o dalla loro variabilità specifica, si può correre il rischio di commettere una grossolana semplificazione. In molte aree del Centro Italia, infatti, dove la mezzadria ha plasmato la struttura e le forme del paesaggio, talora cristallizzandole per secoli, è assai comune che le piante poste sul confine tra una superficie forestale e un area agricola siano risparmiate dal taglio per svariati decenni assumendo dimensioni notevoli anche in virtù della loro felice collocazione (possiedono un lato della chioma libera dalla concorrenza per la luce e, in aree collinari, il confine dei boschi si colloca spesso al piede della scarpata dove normalmente si accumula una maggiore quantità di suolo fertile). La presenza di alberi di grandi dimensioni, anche se collocate sul margine, è sufficiente ad assicurare microhabitat idonei per l’alimentazione e la riproduzione di quasi tutte le specie ornitiche forestali. Indagini più approfondite, in simili contesti, permetterebbero semmai di valutare il successo riproduttivo di tali popolazioni, a causa dell’eventuale maggior esposizione al rischio di predazione da parte di corvidi o di altre specie che si trovano più frequentemente in aree ecotonali ([6]).

La scala di analisi è fondamentale e presuppone la disponibilità di informazioni che al giorno d’oggi siamo ancora lontani dal possedere (ad es., cartografie di dettaglio di uso del suolo/vegetazione, caratteristiche dendrometriche delle aree indagate, dati puntuali su parametri demografici e distributivi delle specie utilizzate come indicatrici, ecc.). In assenza di informazioni come quelle sopraindicate e di lunghi periodi di monitoraggio delle variabili selezionate, appare difficile arrivare a conclusioni soddisfacenti.

Eterogeneità ambientale  

Attualmente si palesa, da una parte del mondo accademico forestale, la tendenza a giudicare positivamente questo nuovo e recente incremento delle utilizzazioni nel ceduo mettendo in relazione tale fenomeno con la necessità di aumentare a scala di paesaggio l’eterogeneità ambientale ([25]). Secondo tali ipotesi l’attività di ceduazione effettuata a mosaico su particelle all’interno di un’ampia matrice forestale porterebbe ad un aumento della biodiversità e conseguentemente ad un miglioramento complessivo della qualità ambientale. Tuttavia, come ho appena messo in evidenza, a tali conclusioni si arriva senza il supporto di dati oggettivi, senza fornire elementi quantitativi di sostenibilità (ad es., dati che mettano in correlazione il rapporto tra “superfici utilizzate/superfici non utilizzate” con gli indici di qualità ambientale) e soprattutto senza una reale condivisione all’interno del mondo scientifico dei criteri da considerare (indicatori, scala di analisi, ecc.).

Sempre Fabbio ([15]) fa notare, a parer mio giustamente, che: “L’analisi attuale della sostenibilità della forma di governo non può prescindere da un fatto essenziale: è spesso impossibile separare gli effetti delle tecniche colturali dalla gestione complessiva del suolo e del soprassuolo. Nel ceduo si sono sovrapposti infatti numerosi usi multipli (legna, frasca per foraggio, pascolo, raccolta della lettiera, colture agrarie intercalari, utilizzazione degli arbusti del sottobosco, dicioccatura, raccolta del legno morto, etc. [...]. È pertanto difficile distinguere a posteriori gli effetti della forma di governo da quelli collegati alla somma degli usi e dei disturbi complementari operati insieme e per periodi anche molto lunghi sul suolo e sul soprassuolo”.

In quest’ottica sembrerebbe pertanto ancora più difficile fare previsioni sugli effetti che il governo a ceduo avrebbe nei confronti delle componenti naturalistiche. Se è vero, ad esempio, che una specie come il picchio rosso mezzano (Dendrocopos medius), un tempo presente in Toscana[1] si è poi estinto agli inizi del secolo scorso probabilmente per la scomparsa degli habitat di foresta matura, appare del tutto azzardato oggi fare una qualsiasi valutazione sull’idoneità dei boschi attuali ad ospitarne una popolazione stabile. Certo è che alcune dinamiche, come quella espansionistica del picchio nero - (Dryocopus martius), tornato ad abitare i boschi dell’Appennino tosco-emiliano dopo decenni di totale assenza - possono suggerire alcune indicazioni in proposito.

Ma cosa succederebbe se si tornasse ai livelli di utilizzazione praticati agli inizi del secolo scorso? Cosa succederebbe se alla pratica della ceduazione si accompagnasse tout court anche la raccolta della ramaglia per soddisfare le richieste di biomassa a scopo energetico? La comunità scientifica è pronta a sostenere che gli attuali tassi di prelievo mediante le attuali modalità esecutive delle più comuni forme di utilizzazione (ceduo semplice matricinato) possono essere considerati adeguati a mantenere un livello di conservazione soddisfacente delle risorse naturalistiche dei nostri boschi? E con tassi superiori?

Alcune proposte 

Personalmente, anche per ridurre la quota di importazione che ritengo assolutamente insostenibile sotto tutti i punti di vista, propenderei per il motto “tagliare di più ma tagliare meglio!”, cercando si di incentivare l’utilizzo a scopo energetico di una risorsa rinnovabile come il legname, ma applicando una selvicoltura più responsabile, libera da certi canoni colturali che credo ormai in buona parte superati e, al tempo stesso, più accorta, in una parola più “professionale”. Per fare questo penso ci sia ancora molto da lavorare. Innanzitutto ritengo sia indispensabile riconoscere al tecnico forestale un ruolo di responsabilità diretta nella gestione di ogni forma di utilizzazione atta a produrre un reddito per il proprietario (tenderei ad escludere, chiaramente, tutte le attività riferibili al semplice autoconsumo). Responsabilità che dovrebbe essere sancita per legge e comportare l’assunzione di obblighi anche legalmente perseguibili nei casi di non corretta esecuzione dei lavori dovuti alla negligenza o alla inosservanza dei regolamenti, così come normalmente si fa per ogni lavoro in cui è riconosciuta la figura di un Direttore dei Lavori. Così facendo si potrebbe riuscire a garantire un livello minimo di qualità delle utilizzazioni forestali, sopperendo almeno in parte anche alla grave lacuna formativa che caratterizza una quota non trascurabile delle ditte che si trovano ad operare in diversi contesti territoriali della Toscana e non solo.

Ritengo inoltre che vi sia un margine, talora ampio, di miglioramento dell’attuale legislazione forestale. Volendo ancora riferirmi, in questa trattazione, al contesto toscano (pur nella convinzione che molte di queste criticità abbiamo valenza nazionale), occorre dare atto che la Legge Forestale Toscana n.39/2000 e il successivo Regolamento (n.48/2003 e succ. mod. e integr.) mettono fine a un lunghissimo periodo di anacronistica regolamentazione della gestione del patrimonio forestale, avendo anche il grandissimo merito di introdurre importanti elementi di conservazione della biodiversità e di riduzione della frammentazione ecologica. Ciò nonostante, fermo restando che molte delle minacce nei confronti della flora e fauna forestale di interesse conservazionistico derivano proprio dal mancato rispetto di tale legislazione, sono ancora diversi gli aspetti critici che sono contenuti nel testo riferibili essenzialmente ai seguenti punti:

  1. Tutela delle specie sporadiche e del legno morto in foresta
  2. Estensione delle tagliate
  3. Turni
  4. Tagli di utilizzazione dei cedui semplici
  5. Taglio dei cedui invecchiati
  6. Boschi in situazione speciale

Tutela delle specie sporadiche

La legge contiene una lista di specie forestali sporadiche, come aceri, frassini, ciliegio e diverse altre. Si ritiene opportuno valutare l’inserimento dell’ontano nero (Alnus glutinosa) e del carpino bianco (Carpinus betulus), entrambe specie tipiche di ambienti mesofili che risentono negativamente della ceduazione, soprattutto quando questa si accompagna alla presenza della robinia (Robinia pseudacacia) che tende a prenderne il posto con estrema facilità .

Per quanto riguarda le piante da rilasciare a sviluppo indefinito, si ritiene insufficiente una sola pianta ad ettaro. In un’ottica di matricinatura a gruppi (altamente auspicabile come verrà ribadito anche più avanti), si potrebbe invece pensare al rilascio di “isole di biodiversità ” che comprendano piccoli nuclei ad elevata concentrazione di specie accessorie. In alternativa, il numero di esemplari a sviluppo indefinito dovrebbe essere decisamente più elevato (ad es., tra 5 e 10).

Estensione delle tagliate

Estensioni di 20 ettari, ammesse per i cedui, potrebbero risultare eccessive, soprattutto in contesti forestali frammentati o in aree caratterizzate da un elevato tasso di utilizzazione boschiva. Anche la determinazione delle superfici territoriali ammesse annualmente al taglio (art. 43), non garantisce un’adeguata limitazione nelle estensioni complessive oggetto di taglio a scala di bacino o sottobacino, essendo il limite massimo teorico annuale calcolato sulla base del turno minimo per tipologia di bosco e forma di governo, come se si ritenesse plausibile che tutta la superficie forestale di un bacino potesse cadere al taglio nell’arco di un solo turno minimo.

Turni

I boschi cedui puri o misti a dominanza di castagno, robinia, ontano, salice, nocciolo, pioppo, sono ceduabili, in base al regolamento, con turni di 8 anni. Anche se nella pratica il turno perseguito è normalmente più lungo, di fatto si legittima una gestione che non tiene in giusta considerazione né i valori ambientali che caratterizzano alcune di queste formazioni, né il reale pericolo di diffusione della robinia, specie aliena e invasiva.

Le formazioni a dominanza di ontano, e in particolare quelle di dimensioni sufficienti da essere assimilati all’habitat di interesse regionale e comunitario (prioritario) “Boschi palustri a ontano (Cod. Natura 2000: 91E0)”, hanno una grande valenza naturalistica e non dovrebbero essere sottoposti a ceduazione, tanto meno con turni così brevi. In caso di presenza della robinia, anche in aree adiacenti a quelle oggetto di taglio, l’applicazione di turni così brevi tendono a favorire la sua diffusione, trasformando un semplice intervento di ceduazione in uno, assai grave, di vera e propria sostituzione di specie.

Il crescente interesse nei confronti della vegetazione di alveo come serbatoio di biomasse rappresenta, a mio avviso, una forte criticità per gli habitat ripariali e per le specie di flora e fauna ad essi legati, a seguito di interventi intensivi e/o effettuati in contesti di alto valore ambientale, motivati in ragione di sicurezza idraulica ma quasi sempre senza il supporto di adeguate basi conoscitive e pianificatorie.

Tagli di utilizzazione dei cedui semplici matricinati

Si ritiene che l’indicazione di numeri minimi, frequenze di età e distribuzione delle matricine siano criteri che possano essere ampliati e in parte rivisti. Il solo numero delle matricine non basta a definire una adeguata copertura del suolo e, tanto meno, la disponibilità di biomassa per le componenti biologiche. Ciò che invece dovrebbe interessare è la dimensione media delle matricine lasciate. Il rilascio di una percentuale (anche cospicua) delle matricine di vecchio turno non consente di tutelare in futuro gli individui selezionati che potranno essere liberamente tagliati al turno successivo (ad es., dopo 36 anni per un querceto, età che si ritiene del tutto insufficiente a garantire un adeguato sviluppo di chioma e una conseguente produzione di seme). Da un punto di vista strettamente forestale, la funzione delle matricine deve essere quella di rinnovare il patrimonio genetico del soprassuolo dove prevalgono nettamente esemplari rinnovati per via agamica; da un punto di vista ecologico sarebbe auspicabile che le matricine assolvessero alla funzione di tutela della biodiversità forestale, fino a sperare che possano divenire veri e propri “alberi habitat”. Pertanto, anche alla luce delle recenti sperimentazioni (si veda ad es. i noti progetti SUMMACOP e RECOFORME) e del crescente interesse di molta parte dei tecnici del settore e del mondo accademico forestale, si ritiene estremamente utile indirizzare la norma relativa al rilascio delle matricine secondo criteri fondati soprattutto sulla qualità , piuttosto che sulla quantità , peraltro da molti (e da chi scrive) ritenuta eccessiva.

In particolare si ritiene che sia da preferire una matricinatura per gruppi, finalizzata eventualmente anche a creare delle aree di rilascio indefinito (“isole di biodiversità ”) di dimensione complessivamente modesta (alcune centinaia di metri quadrati ad ettaro), individuata da un tecnico, secondo logiche di conservazione dei nuclei più importanti di specie accessorie o di esemplari di grande dimensione già presenti nella particella. Nella restante particella si potrebbe eseguire il taglio raso senza rilascio delle matricine (magari preservando obbligatoriamente un numero minino di esemplari qualora questi avessero un diametro superiore a una certa soglia prestabilita). Dovrebbero poi essere risparmiate al taglio le fasce (sarebbe sufficiente anche solo 10 metri di lato) adiacenti a corsi d’acqua e fossi. Una simile procedura porterebbe anche indubbi vantaggi di semplificazione dei lavori di utilizzazione ed esbosco, con minor danno per le piante rilasciate.

Relativamente alle piante morte in piedi, nei casi in cui non sia accertato un pericolo per la diffusione di fitopatologie, anziché procedere alla loro totale asportazione, si ritiene oltremodo necessario il mantenimento in ragione di 3-5 piante ad ettaro.

Taglio dei cedui invecchiati

La maggiore semplicità dell’iter procedurale relativo all’utilizzazione di boschi invecchiati a dominanza di robinia rappresenta un fattore limitante ai fini di ridurre la diffusione di questa specie esotica, di cui è noto il temperamento fortemente eliofilo e la scarsa capacità di rinnovazione sotto copertura. Gran parte dei popolamenti invecchiati di questa specie sono caratterizzati da uno spontaneo, e talvolta neppure particolarmente lento, processo di naturalizzazione grazie all’ingresso di numerose latifoglie (castagno, cerro, roverella, carpino bianco, ecc.) che, se avessero il tempo di raggiungere il piano dominante in modo significativo, riuscirebbero a ridurre le capacità espansive della specie. Pertanto, anziché semplificare la procedura autorizzativa, in questi casi sarebbe opportuno, almeno per aree di una certa estensione (es. >3 ha ?), subordinare l’intervento alla presentazione di un progetto di taglio che miri ad aumentare la diffusione delle specie autoctone competitive con la robinia.

Boschi in situazione speciale

La normativa consente alle Province e alle Comunità Montane di individuare i Boschi in situazioni speciali per motivi di carattere idrogeologico, ambientale o paesaggistico.

Purtroppo per il momento in Toscana tale opportunità offerta dalla normativa non è stata ancora sfruttata adeguatamente dagli enti competenti.

Si ritiene utile comprendere negli elenchi dei “boschi in situazione speciale” molte delle formazioni di maggior pregio vegetazionale e faunistico che risiedono al di fuori delle aree protette, come ad esempio le formazioni relitte o eterotopiche (ad es., faggete abissali), le ontanete e i saliceti ben conservati dei medi e alti corsi fluviali, oltre ad alcuni habitat forestali di interesse regionale e/o comunitario come ad esempio:

  • (9180*) Boschi misti di latifoglie mesofile dei macereti e dei valloni su substrato calcareo,
  • (5230*) Boschi umidi a dominanza di Quercus ilex e Laurus nobilis;
  • (9340) Boschi mesofili a dominanza di Quercus ilex con Ostrya carpinifolia e/o Acer spp.;
  • (9160) Querceti di farnia o rovere subatlantici e dell’Europa Centrale del Carpinion betuli;
  • (91B0) Frassineti non alluvionali a Fraxinus oxycarpa;
  • (91E0*) Boschi palustri e ripariali a ontano;
  • (91F0) Boschi planiziari ripariali a farnia, carpino, ontano e frassino meridionale.

Conclusioni 

Nella consapevolezza che occorra fare ancora molta strada per arrivare ad un livello soddisfacente di conoscenza dei rapporti tra gestione selvicolturale e componenti naturalistiche, il principio precauzionale dovrebbe indurci ad assumere un atteggiamento più cauto prima di avvallare gli attuali criteri gestionali dei boschi cedui.

E ciò anche perché ritengo insensato sostenere attualmente validi i modelli gestionali già adottati nei decenni passati solo perché la loro applicazione ha comunque permesso a buona parte[2] della biodiversità forestale di perpetuarsi e arrivare ai nostri giorni. Il contesto ambientale è infatti mutato in modo significativo a partire dal secondo dopoguerra in tutto il nostro Paese e certi meccanismi, come le caratteristiche di resistenza e resilienza insite negli habitat naturali oppure operanti a livello di comunità o di popolazione in specie animali e vegetali, appaiono oggi alterati. Pensiamo ad esempio al paesaggio forestale degli ambienti dunali, fortemente minacciati dall’erosione costiera, o alla tipica vegetazione forestale planiziaria che ha subito una contrazione enorme a seguito dell’irreversibile consumo di suolo. Tali considerazioni assumono ancora più rilevanza se si pensa che i rapidi cambiamenti climatici innescheranno meccanismi adattativi del mondo naturale che ancora siamo lontani dal comprendere e tanto meno dal prevedere.

La sensazione è che, nonostante il (o, forse, a causa del) sempre maggiore livello delle conoscenze naturalistiche avvenuto in Italia negli ultimi trent’anni, si sia formato un sorta di “muro contro muro” che vede da una parte i sostenitori (afferenti a una certa quota del mondo accademico forestale e del settore economico forestale in genere) di una gestione del ceduo che potremmo definire “classica” secondo schemi geometrici di rilascio di matricine e che auspica a una massimizzazione dei benefici socio-economici e, secondariamente, al mantenimento di uno status quo ambientale considerato tutto sommato soddisfacente; dall’altra i sostenitori (afferenti a una buona rappresentanza del mondo accademico delle Scienze naturali e biologiche, ma anche ad una parte significativa della popolazione urbana) di una visione fortemente critica nei confronti dei modelli consolidati di utilizzazione del ceduo, che sostengono ad esempio la necessità di una matricinatura intensa e che, in generale, auspicano a una drastica riduzione delle utilizzazioni in favore di una evoluzione più o meno libera della vegetazione. Ad entrambe le visioni potrei imputare un’eccessiva semplificazione del problema, che per sua natura appare invece estremamente complesso.

Per tutti questi motivi ritengo davvero necessario che il mondo scientifico si affretti a trovare delle sintesi condivise tra le diverse correnti di pensiero, affinché si arrivi a definire dei criteri più oggettivi di sostenibilità ecologica di questa forma indispensabile di utilizzazione boschiva che è il ceduo. Ciò credo si possa raggiungere soltanto aumentando lo sforzo nella ricerca di modelli adeguati a massimizzare entrambi i benefici (ecologici e socio-economici) secondo un approccio scientifico che consenta di mettere a frutto le conoscenze acquisite in campo naturalistico. A questo riguardo preme rimarcare la sempre più pressante urgenza di colmare le gravi lacune conoscitive relative ai quei taxa fino ad oggi poco indagati e, al tempo stesso, la necessità di creare e mantenere nel tempo un adeguato set di indicatori su basi naturalistiche secondo un protocollo di monitoraggio condiviso da tutto il mondo scientifico.

In quest’ottica credo sarebbe davvero assai utile che il suddetto “Rapporto sullo stato delle foreste in Toscana” contenesse anche indicatori naturalistici (ad es., indici demografici e distributivi di popolazioni faunistiche forestali come il Woodland Bird Index, oppure indici di ricchezza e diversità di specie floristiche nemorali o ancora indici di biodiversità del suolo ecc.), per valutare indirettamente la compatibilità ambientale delle utilizzazioni sia a scala regionale che, soprattutto, a scala sub-regionale (ad es., provinciale), vista l’elevata variabilità geografica dell’entità delle utilizzazioni.

Ringraziamenti 

Desidero ringraziare il Dott. Claudio Ottavini, con tutto il gruppo della Commissione “Selvicoltura” dell’Ordine degli Agronomi e Forestali di Firenze, per i preziosi spunti di riflessione sull’argomento. Un sentito ringraziamento anche agli anonimi revisori della rivista Forest@, per gli utilissimi consigli forniti durante la revisione del manoscritto.

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Quanta parte non lo sappiano - Il tasso di perdita di biodiversità nel mondo è in costante aumento. L’Indice del Pianeta Vivente (Living Planet Index) ha registrato un calo del 30% tra il 1970 e il 2005 ([2]).
 
 
 

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