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Forest management and complexity: towards a new silviculture?

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 8, Pages 126-129 (2011)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0660-008
Published: Jul 19, 2011 - Copyright © 2011 SISEF

Book Reviews

Abstract

After summarizing the main topics of the book “A Critique of Silviculture - Managing for Complexity” ([15]), some aspects of interest on the management of forests as complex, adaptive systems, are briefly discussed in order to contribute to the ongoing debate dividing silviculturists, researchers and scholars in Italy.

Keywords

Adaptive complex systems, Forest management, Silviculture, Forestry

 

Il recente testo A Critique of Silviculture - Managing for Complexity, scritto da Klaus Puettmann, K. David Coates e Christian Messier ([15]), sembra destinato ad avere un ruolo importante nel dibattito sulla selvicoltura e sulla ricerca forestale ([16]). Trattati in forma rigorosa dal punto di vista scientifico, trovano spazio molti argomenti di attualità: l’analisi degli elementi caratterizzanti la complessità degli ecosistemi forestali, le implicazioni per la selvicoltura e la ricerca forestale, le differenze di una gestione forestale per la complessità rispetto alla selvicoltura tradizionale, i rapporti della selvicoltura con l’ecologia e le diverse interpretazioni che queste discipline offrono di un bosco.

Il percorso svolto dagli Autori inizia con una sintetica, ma efficace, ricostruzione storica della selvicoltura, nella quale viene argomentata in maniera convincente la tesi, non nuova, che i sistemi selvicolturali si siano sviluppati, a partire da circa 250 anni fa, come conseguenza di fattori economico-sociali e culturali, sia di carattere locale che generale. Proprio per questi motivi, tali sistemi non rispondono necessariamente alle problematiche attuali e future. Se, ad un estremo, il sistema del taglio raso su ampie superfici è collegato direttamente all’affermazione dell’industrializzazione e del liberismo economico nel 18. secolo in Europa e poi si è diffuso in molte regioni del mondo sostanzialmente con le medesime finalità, a quello opposto, il sistema del taglio saltuario per albero (Plenterwald) o per gruppo di alberi nasce in alcune particolari situazioni del Centro Europa (ad es., in alcune regioni di Svizzera e Germania) dove i (piccoli) proprietari boschivi avevano l’interesse di ottenere frequenti ricavi monetari, ottimizzando l’impiego di manodopera qualificata e la produzione di legname richiesto dalle segherie. In forme diverse, anche un’idea culturale come quella espressa da chi auspicava un “ritorno alla natura” ha influenzato la selvicoltura fino ai nostri giorni, espandendosi a fasi alterne nel corso della storia dell’ultimo secolo e mezzo in Europa, ma in grado di riflettersi anche in paesi di altri continenti. Non è solo il Centro-Europa il fulcro di espansione per tutto ciò che riguarda la gestione dei boschi: le pratiche di ecosystem management, volte a mantenere valori e funzioni delle foreste a livello di paesaggio, sono nate in Nord-America e da qui hanno influenzato la selvicoltura altrove, a conferma di una tendenza più volte seguita in campo forestale, consistita nel generalizzare soluzioni risultate efficaci in particolari contesti locali.

La “critica” sostanziale alla selvicoltura tradizionale nelle sue diverse sfaccettature è rivolta, dagli Autori, all’esclusiva attenzione all’albero ed al popolamento forestale, piuttosto che alle diverse componenti dell’ecosistema. Ciò si riflette non solo nelle modalità di descrivere una foresta (ad es., incremento medio annuale, area basimetrica per unità di superficie, provvigione totale), che a loro volta influenzano gli interventi effettuati sulla base di condizioni “medie” del popolamento, ma anche nel favorire, ad esempio nelle utilizzazioni, specie ed assortimenti più remunerativi, con l’effetto di semplificare la composizione dei popolamenti. La stessa ricerca scientifica forestale, applicando criteri mutuati da quella in agricoltura, e promuovendo studi che prendono in esame un ristretto intervallo di condizioni (ad es., stazionali, specie, ecc.), produce risultati con una ridotta applicabilità generale. Infine, la scarsa importanza rivolta alle diverse scale spaziali entro cui si svolgono i fenomeni e l’idea di poter effettuare previsioni sui popolamenti senza considerare gli eventi di disturbo imprevedibili o che agiscono su scale diverse da quelle del popolamento, assieme ai fattori precedentemente citati, contribuiscono a rendere omogenea la struttura delle foreste, secondo un approccio prevalente di tipo top-down o di “comando e controllo” che rende le foreste meno capaci di adattarsi a nuove condizioni biotiche ed abiotiche.

Se da un lato questi sono i limiti della selvicoltura, l’ecologia ha mostrato, secondo gli Autori, progressi assai più significativi nella comprensione della complessità del funzionamento degli ecosistemi, anche grazie allo sviluppo di nuove teorie in grado di interpretare i fenomeni naturali e di nuovi approcci di ricerca. Tuttavia, non sempre le nuove conoscenze in campo ecologico si sono tradotte nella pratica selvicolturale. È come se alcuni concetti ecologici fossero “filtrati” o interpretati dai selvicoltori, che resterebbero in definitiva in linea con l’approccio tradizionale, col risultato che ecologi e selvicoltori occupano tuttora nicchie diverse nella gestione delle risorse naturali. Solo in tempi recenti, esperimenti selvicolturali che prendono in esame fenomeni a scala diversa (dal micro-habitat al paesaggio), di cui gli autori citano vari esempi per il Nord America, punterebbero a superare questa separazione fra le due discipline, studiando l’eterogeneità e la complessità delle foreste ed i meccanismi che controllano la produttività e la resilienza dei sistemi.

Le foreste, con la moltitudine di organismi e processi che interagiscono fra loro e con l’ambiente circostante in diversi orizzonti spaziali e temporali, modificandosi in seguito ai cambiamenti sono un esempio di sistema adattativo complesso. La complessità si sviluppa in diversi modi, e gli Autori forniscono una chiave di lettura “forestale” di alcune importanti caratteristiche dei sistemi complessi: le relazioni non lineari tra parametri dell’ecosistema, l’influenza dei fattori esterni (che comporta una difficile definizione di veri confini del sistema), i meccanismi di feedback che tendono a stabilizzare o de-stabilizzare il sistema (autoregolazione, resilienza ed adattamento), l’impossibilità di raggiungere uno stato di equilibrio, l’emergenza di nuove proprietà nel sistema, ma anche il “ricordo” di precedenti stati che influenzano il suo sviluppo. Queste caratteristiche, nell’insieme, garantiscono l’adattamento delle foreste a fattori esterni e interni di cambiamento, come i disturbi di natura biotica ed abiotica.

Gestire la complessità negli ecosistemi forestali richiede un cambiamento profondo, secondo gli Autori, negli approcci di base della selvicoltura, che, è bene specificarlo, non viene intesa unicamente come metodo di rinnovazione del bosco, ma come insieme di attività che definiscono la gestione forestale nel suo insieme. Le azioni concrete che propongono, in parte già oggetto di discussione più o meno consapevole della gestione forestale negli ultimi decenni, riguardano: (a) l’attenzione verso le diverse componenti dell’ecosistema, ovvero la necessità di guardare “oltre gli alberi”, con una nuova definizione del concetto di “popolamento forestale”, nelle sue relazioni con la variabilità spaziale e l’eterogeneità; (b) l’accettare la variabilità nello spazio e nel tempo come caratteristica intrinseca delle foreste per adattarsi ai cambiamenti; (c) il mantenimento “attivo” dell’eterogeneità strutturale, compositiva e funzionale per ricreare la variabilità naturale delle foreste; (d) il consentire ai popolamenti di evolversi in un “insieme” di possibili condizioni, prevedendo e misurando il risultato della gestione a scala di paesaggio, piuttosto che di popolamento. Indubbiamente ciò comporta anche sostanziali cambiamenti nel modo di analizzare il bosco, dal considerare gli effetti del trattamento selvicolturale alle diverse scale spaziali e temporali, alle nuove tecnologie in grado di osservare le diverse componenti dell’ecosistema, fino all’inclusione di elementi di rischio ed imprevedibilità nella gestione e di nuovi criteri di ricerca selvicolturale.

Nell’insieme, il testo appare ben scritto e di facile comprensione anche per un lettore non esperto dei diversi sistemi selvicolturali o dei concetti di base dell’ecologia, ma anche per chi opera direttamente in bosco, poiché il tentativo è di trattare un tema teorico in maniera concreta e pratica. Senza dubbio vi è uno sforzo di non affrontare l’argomento in maniera settoriale: si cerca di individuare una “teoria comune” per due discipline, la selvicoltura e l’ecologia forestale, che per molti aspetti sembrano aver preso due percorsi autonomi, non solo dal punto di vista dell’insegnamento universitario o degli argomenti di ricerca, ma anche in ambito applicativo. L’aspetto centrale della trattazione, ovvero il considerare le foreste come sistema ecologico adattativo complesso, non è certamente nuovo nella discussione scientifica in campo ecologico e forestale (ad es., [17], [4], [8], [7], [6]), ma appare ancora attuale rispetto alle sfide che il “sistema forestale”dovrà affrontare, prima fra tutte l’adattamento al cambiamento climatico ([11]). D’altra parte, la lettura del testo offre molti spunti di riflessione, anche alla luce del dibattito che si è sviluppato recentemente nel contesto forestale italiano, ad esempio, sulla struttura degli ecosistemi forestali ([1], [12]), sulla selvicoltura ([18], [2]) e sui rapporti con la società ([13]), o sui metodi di assestamento ([9], [5], [3]), ponendo interrogativi non solo sul modo di fare selvicoltura, ma anche su come viene insegnata questa disciplina all’università e su come viene effettuata, e perfino organizzata, la ricerca.

Emergono, a mio parere, tuttavia, anche alcuni punti di debolezza, in aggiunta a quanto già rilevato da altri ([14], [16], [10]), che evidentemente non tolgono il merito complessivo all’opera. In primo luogo, se è vero che l’obiettivo è proporre un sistema innovativo di gestione di carattere generale, l’esempio proposto dagli Autori come sistema dotato di elevata eterogeneità strutturale, un bosco naturale (non gestito) di latifoglie ad alta ricchezza specifica, con molto legno morto e grande variabilità nel popolamento (densità, dimensioni, copertura, composizione del sottobosco ecc.) del Québec, contrapposto a due boschi a bassa eterogeneità strutturale e compositiva (una piantagione di conifere in Scandinavia e un bosco disetaneo in Centro-Europa), non sembra sufficiente per apprezzare appieno la validità della proposta in contesti molto diversi per ambiente, storia forestale, condizioni socio-economiche e culturali.

Secondariamente, il superamento dell’importanza data al popolamento forestale, per sottolineare l’eterogeneità da conseguire su scale diverse, è senza dubbio un argomento importante, ma non nuovo, nella gestione forestale. È vero che nella intrinseca imprevedibilità (varietà, non-equilibrio ecc.) dei sistemi complessi, gli strumenti di analisi del bosco e dei suoi fenomeni secondo il nuovo approccio, così come i modelli per lo studio della complessità, sono ancora da perfezionare.

Un esempio, forse, chiarisce meglio questo aspetto. Le tipologie forestali sviluppate su base regionale, talvolta anche in forma cartografica (ad es., Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Basilicata), offrono uno strumento importante per valutare l’eterogeneità strutturale e compositiva di un paesaggio forestale. Rappresentano forse un “modello”? Sì, se guardiamo i tipi come elementi statici da conservare nel loro assetto attuale o come mezzi per raggiungere degli stati ideali del sistema. No, se li consideriamo come stati di passaggio, a metà strada fra le condizioni del passato (desunte dai vecchi piani di assestamento o da altra documentazione) ed un ventaglio di possibili stati futuri, come conseguenza dei cambiamenti biotici ed abiotici. La carta dei tipi forestali consente quindi di valutare l’eterogeneità del sistema, ad esempio rispetto alla varietà di specie e strutture presenti, e di agire secondo degli obiettivi definiti, da cui discendono azioni concrete per la gestione forestale. È certamente uno strumento da perfezionare, ma ci consente di sostenere che la via per comprendere alcuni aspetti della complessità del bosco sia già intrapresa.

In conclusione, sebbene negli ultimi tempi si sia aperto un dibattito scientifico sulla close-to-nature forestry, che riflettendo esperienze e risultati di molti decenni sembrerebbe già sufficientemente nota e consolidata, appare necessario approfondire ulteriormente l’argomento dei boschi come sistemi adattativi complessi, soprattutto in relazione alle possibili conseguenze ed applicazioni nelle realtà forestali dei diversi paesi europei, da un lato “culla” dei metodi di selvicoltura tradizionale, dall’altro anche di ben definite identità di paesaggio forestale, interessate da rapidi cambiamenti su scala locale e globale.

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