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Basic principles, mosaic of knowledges and adaptive silviculture

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 9, Pages 166-169 (2012)
doi: https://doi.org/10.3832/efor0699-009
Published: Jul 23, 2012 - Copyright © 2012 SISEF

Editorials

Abstract

Achievements of ecological science and direct experience are of great help for the interpretation of forest ecosystem dynamics and the definition of adaptive procedures for forest manipulation, i.e. adaptive silviculture.

Keywords

Forest, Science, Forest Ecology, Adaptive Silviculture

Premessa 

Da qualche tempo, leggendo i numerosi scritti sulle magnifiche sorti e progressive della gestione forestale sostenibile, conversando con i colleghi, informandomi su progetti applicativi di varia natura e importanza e, di tanto in tanto, partecipando a incontri in cui si argomenta de silva colenda e dell’uso sostenibile delle risorse forestali, vado sviluppando la sensazione che, nella pianificazione forestale così come nella selvicoltura, stia prevalendo l’abitudine a seguire linee guida improntate ad aspetti di carattere prescrittivo e regolamentare piuttosto che a principi fondanti che scaturiscano da studi ecologici di base.

Non posso escludere che quest’impressione sia accresciuta dal diletto con cui, nell’età che coincide per i più con la maturità, si è propensi a riconsiderare quegli aspetti disciplinari di carattere generale che la baldanza degli studi giovanili porta, talvolta, ad assimilare con un certo grado di precipitazione; ma che poi, rinnovati e approfonditi nella riflessione della ricerca, nuovamente si propongono come insostituibili fondamenta anche per le scelte operative.

Il punto mi appare rilevante alla luce dei progressi della ricerca. E’ facile, infatti, riconoscere, per chi è familiare con la letteratura scientifica, che il fiorire, notevole anche nel nostro paese, degli studi di ecologia forestale ha permesso di confutare, modificare e aggiornare importanti ipotesi riguardanti (cito a memoria) i processi di acquisizione e ridistribuzione delle risorse, anche in funzione dei cambiamenti ambientali in atto, quelli di competizione interspecifica e intraspecifica, i meccanismi di esclusione competitiva, la strutturazione dei geni, del soma e delle funzioni degli organismi nello spazio e nel tempo, le relazioni fra stabilità e biodiversità alle diverse scale, e via dicendo. Questi progressi scientifici hanno consentito di rivedere consolidati paradigmi, rilevanti anche a fini di gestione e conservazione ambientale.

Si è quindi rinnovato un corpus di principi fondanti e un “mosaico delle conoscenze” che ci possono aiutare ad affrontare la complessità dell’ecosistema forestale e a “raccontarne”, anche con obiettivi di carattere colturale, il suo dispiegarsi nello spazio e il suo cammino attraverso il tempo.

La complessità, il mosaico delle conoscenze e il cammino della foresta 

In un bel film di qualche anno fa, interpretato da una molto glam Gwyneth Paltrow, una ragazza inglese, Kate, sperimenta inconsapevolmente il concetto di “biforcazione”. Un bel mattino, le sliding doors della metropolitana londinese le schiudono (e nello stesso tempo le chiudono) due scenari di vita assolutamente divaricati, quanto apparentemente simili nell’intreccio dei personaggi e delle loro vicende. La vita o la morte di Kate sono l’esito finale di due storie parallele e biforcate, innescate da un evento casuale e imprevedibile. Consiglio il film ai pochi che non l’avessero visto.

Il concetto di biforcazione è ricorrente nell’analisi di quei sistemi complessi (qual’è la società che incornicia la vita di Kate, come quella di tutti noi) la cui dinamica, a rigore, deve essere affrontata con gli strumenti di quella matematica della complessità (meccanica stocastica, teoria del caos, ecc.) che cerca, fra le altre cose, di rappresentare i punti di rottura (singolarità) e le dinamiche “sliding doors” inerenti a questi sistemi.

Strumenti matematici di cui il sottoscritto, da ecologo sperimentale, ammette senza remore di non sapere quasi nulla, tranne il fatto che essi si dibattono, soprattutto con riferimento ai sistemi viventi, intorno ai concetti di (im)predicibilità, incertezza, punti di rottura, stabilità, proprietà emergenti, ecc. (fate “scholar-googling” su questi argomenti e sarete accontentati).

Ebbene, le foreste sono sicuramente da considerare come ecosistemi complessi, di tipo adattativo (nel senso che si adattano all’ambiente nel corso della loro storia), organizzati in una pluralità di parti che interagiscono fra loro generando frequentemente dinamiche non lineari, con potenziali singolarità, biforcazioni, proprietà di emergenza, ecc. Sarebbero quindi sistemi intrinsecamente impredicibili, così com’era impredicibile la vita di Kate e com’è impredicibile quella di tutti noi.

Come nella vita, però, anche nell’approccio agli ecosistemi complessi l’enfasi su ipotesi di scuola e il ragionamento per casi limite (singolarità), può portare a posizioni in parte paralizzanti, generando ambiguità circa le prospettive della ricerca scientifica, perlomeno nei non esperti.

Invero, nella nostra quotidianità nessuno di noi intraprende un viaggio senza un minimo di programma, comunque sfiduciati di fronte alla possibilità che un “battito d’ali di farfalla” possa improvvisamente sconvolgerlo. Tutti noi cerchiamo invece di immaginare una traiettoria per le nostre azioni, di breve o lunga durata che essa sia, e inconsapevolmente o meno, cerchiamo di tracciarla sulla scorta di una ricostruzione, il più possibile raziocinante, della nostra storia, del nostro stato attuale, delle nostre aspirazioni, mettendo insieme la nostra conoscenza e i pezzi, frammentari quanto si vuole ma reali, della nostra esperienza.

In altre parole, nessuno di noi resta paralizzato dalla considerazione, fondata sì, ma un po’ a rischio di pedanteria, che per qualsiasi intervallo di tempo Δt > 0 il nostro stato sia impredicibile e che l’unica situazione sotto il nostro controllo sia quella dello stato iniziale (Δt =0).

In termini assoluti ci illudiamo? Forse sì, ma non possiamo farne a meno, e l’esperienza ci dice che facciamo bene a fare così.

Considerazioni simili le possiamo fare per la foresta. Anche “il viaggio” nel tempo dell’ecosistema (forestale) può, almeno entro certi limiti, essere “raccontato”, attraverso una combinazione adeguata di principi fondanti, ipotesi funzionali, modelli ecologici, risultati sperimentali: un “mosaico della conoscenze” in grado di illustrare una storia conseguente, anche se non predefinita a priori.

Come ogni sistema è l’immagine della sua storia, così la storia è la sua contro-immagine, riflette il sistema stesso: osservandolo e descrivendolo scientificamente possiamo cercare di raccontarla.

Altro aspetto che merita una breve riflessione è quello che riguarda la relazione fra complessità e stabilità. Per stabilità, vado a memoria, s’intende la conservazione dello stato del sistema nel tempo o, dicendo forse meglio, la forte dipendenza dello stato del sistema dalle sue condizioni iniziali. A prima vista, il concetto di stabilità sembrerebbe quindi collidere con quello d’impredicibilità, che riflette invece la tendenza del sistema a discostarsi, anche in modo casuale, anche attraverso casualità disconnesse, dalle proprie condizioni iniziali (la biforcazione tipo sliding doors di cui si è detto sopra). Nondimeno, impredicibilità e stabilità sono considerate entrambe proprietà (emergenti) legate alla complessità.

Quest’apparente contraddizione si può attenuare se ragioniamo in termini relativi, vale a dire se ci rapportiamo alle opportune scale di spazio e di tempo e se, in relazione ad esse, consideriamo gli effettivi comportamenti dei sistemi (forestali), valutati su basi sperimentali. Nella letteratura ecologica sono diversi i casi in cui complessità (considerata anche in termini di diversità biologica) e stabilità concordano oppure divergono. Ad esempio, nel corso del processo evolutivo dell’ecosistema (successione) gli stadi serali (definitivi) possono sì esibire notevole stabilità e resilienza ma al contempo anche livelli decrescenti di biodiversità rispetto a stadi precedenti (fasi pioniere). Negli ambienti temperati è il caso, ad esempio, di formazioni definitive come la faggeta e la pecceta che sono spesso caratterizzate da livelli non alti di biodiversità specifica e/o strutturale rispetto alle formazioni che le precedono; così come, in ambiente mediterraneo, si osserva frequentemente una riduzione del numero di specie tra gli stadi di macchia bassa e la foresta di leccio. E’ noto, inoltre, come dopo disturbi (es. tagli) di notevole intensità ci possa essere un apparente aumento della biodiversità intesa come ricchezza a livello di specie (riscoppio di specie ruderali, pioniere, ecc.) che però non può essere interpretato tout-court in termini di funzionalità e stabilità dell’ecosistema.

Mi avventuro in qualche congettura. Rappresentata sulle tre dimensioni (con spazio, o tempo, sull’asse z) la relazione fra complessità e stabilità potrebbe variare alquanto d’intensità a seconda delle scale che si prendono in considerazione. Ad esempio, la relazione potrebbe essere stretta a scala spaziale ridotta (piccole superfici) e lassa, fino ad appiattirsi, sulle grandi, con un parallelo aumento del grado di predicibilità del sistema. A parità di scala spaziale, l’aumento della complessità potrebbe determinare una relazione meno stretta fra il livello d’impredicibilità e il tempo che trascorre. In altre parole: considerare le relazioni fra complessità, stabilità e (im)predicibilità come fossero “invarianti” potrebbe risultare illusorio quanto fuorviante.

Selvicoltura adattativa: riapprodo a un metodo 

Breve riassunto delle idee che ho espresso nei paragrafi precedenti: (a) l’ecosistema foresta può essere, almeno in parte, “raccontato”, nel senso che possiamo cercare, attingendo ai principi fondanti e al “mosaico delle conoscenze” che scaturiscono dalla ricerca scientifica, di congetturare sulle traiettorie del suo futuro prossimo. La qual cosa, in termini applicativi, si traduce nella possibilità di immaginare un’ipotetica meta per una manipolazione colturale; (b) la definizione di opportuni ambiti di spazio e di tempo è importante per valutare le relazioni fra le proprietà“emergenti” del sistema. Riassunto del riassunto: la scienza può aiutarci a “semplificare” l’interpretazione dell’ecosistema forestale e della sua complessità.

In rapporto a queste idee vediamo ora quale può essere lo strumento minimo da adottare per la gestione forestale sostenibile, ovvero per un tipo di gestione che preveda comunque un’azione, diretta o indiretta, all’interno del sistema.

Non ce ne sarebbe bisogno, essendo il concetto ormai di ampia diffusione, ma mi pare opportuno, giunti a questo punto, ricordare che con gestione forestale sostenibile si intende, in accordo con i processi di Helsinki e Lisbona degli scorsi anni ’˜90, quel tipo di gestione che elettivamente tende al mantenimento e alla promozione delle primarie funzioni dell’ecosistema forestale: diversità biologica, assorbimento del carbonio, produzione di risorse rinnovabili, valori paesaggistici, storici, spirituali, di fruizione, ecc. Come tale, si tratta di uno strumento bon a tout faire, che cioè può essere applicata ovunque, sia al di fuori che all’interno delle aree protette, anche se in quest’ultimo caso ne può essere prevista una particolare e specifica declinazione.

Quale può essere il metodo colturale adatto per l’implementazione di una siffatta multiforme gestione, particolarmente nelle aree protette? La prima cosa che mi viene da dire, e qui concordo con un’ampia corrente di pensiero, è che debba essere un metodo in grado di interagire con l’inevitabile incertezza che caratterizza la dinamica del sistema forestale (e il suo contorno) nel corso del tempo. Fatta salva, come si diceva prima, la possibilità di immaginare un cammino e una meta, si deve pensare una procedura in cui l’azione all’interno del sistema è sottoposta a verifiche e aggiustamenti in funzione della meta da raggiungere.

Si riapproda in questo modo all’idea di una selvicoltura adattativa (niente di nuovo: in ambito ecologico-gestionale il termine adattativo è in voga da una ventina d’anni e nel mondo della pianificazione forestale ha sostanziali precedenti fra i cosiddetti “controllisti”, di cui meglio e più di altri hanno scritto Orazio Ciancio e Susanna Nocentini) nell’ambito della quale valga l’algoritmo circolare “obbiettivo, azione, controllo, correzione, azione”.

E’ da notare che, così descritto, il modello concettuale e l’algoritmo della selvicoltura adattativa è sostanzialmente “neutro” in rapporto agli obbiettivi della manipolazione colturale e, fissati questi, in rapporto ai mezzi per raggiungerlo. Si configura primariamente come un metodo flessibile per agire nel sistema, tenendo conto delle modificazioni del contorno esterno (disturbi ambientali, condizioni di mercato, ecc.).

Sarà invece compito del “mosaico delle conoscenze” assegnare contenuti specifici ai diversi passaggi dell’algoritmo della selvicoltura adattativa, sia per quanto riguarda la definizione delle mete, che le modalità di intervento e le procedure di controllo. Contenuti che, in questo modo, non rappresentano delle “invarianti” dogmatiche ma sono naturalmente collegati al progresso delle conoscenze, sia quelle di base sia quelle applicate.

Così inteso un aggiornato "mosaico delle conoscenze", rapportato sia all’individuazione degli obbiettivi, sia alla definizione delle modalità di azione che delle procedure di controllo acquisisce il significato di "strumento minimo" per la gestione sostenibile nelle aree protette.

Post-scriptum  

Come i principi fondanti e il mosaico delle conoscenze sono indispensabili per formulare le ipotesi che innervano la selvicoltura adattativa, così la tecnologia e le professionalità lo sono per poterla applicare. Più il settore forestale tende a una gestione forestale sostenibile, più ha la necessità di supporti in termini di organizzazione imprenditoriale, mezzi tecnici, organizzazione e, ovviamente, intelletto professionale. Risorse finanziarie, senza dubbio, ma bene investite: perché i frutti, diretti e indiretti, di una buona gestione forestale possono essere elevatissimi, come gli economisti ben sanno. Altrimenti la selvicoltura adattativa rischia di essere puro esercizio di retorica accademica.

Note dell’autore 

Questo articolo ricalca un lavoro pubblicato negli Atti del Convegno "Foreste e Parchi, Gestione Tutela e Conservazione " (a cura di Anna Rita Rivelli, Aldo Schettino, Giuseppe Devivo), Ente Parco Nazionale del Pollino, Rotonda 8 Novembre 2011, ISBN 978 889 550 834, Tipografia ZACCARA - Lagonegro - 0973 41300.

 
 
 

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