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Silvicultural aspects of black pine plantations: analysis of Italian regional laws

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 15, Pages 99-111 (2018)
doi: https://doi.org/10.3832/efor2985-015
Published: Nov 22, 2018 - Copyright © 2018 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

During the last century, afforestation programmes were planned in most of the Italian regions and black pine plantations have represented one of the main public policy effort in mountain areas. The afforestation tecniques has been generally similar throughout Italy, producing nowadays artificial back pine forests showing similar age and structures. Nevertheless, contrasting forestry legislations and decision making both theoretically and technically are adopted at regional scale specifically on black pine forest management. Because of these heterogeneity of laws and regulation, a reference knowledge base can standardise and harmonise the different terms and technical-management aspects often involved in the forestry sector. The aim of this work is to provide a legislative history concerning afforestation at the National level, with a synoptic framework of the current regional forest legislation on the treatment of black pine forests.

Keywords

Black Pine, Silviculture, Forest Regulations, Forest Laws, High Forests

Introduzione 

Secondo i dati dell’Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi forestali di Carbonio del 2005 ([13]) i boschi di pino nero e di pino laricio in Italia coprono una superficie di oltre 235.000 ettari (pari al 2.7 % della superficie forestale nazionale). Di questi circa i 2/3 sono si trovano in Calabria, in Friuli-Venezia Giulia, in Abruzzo, in Toscana ed in Emilia Romagna (Fig. 1).

Fig. 1 - Distribuzione percentuale dei boschi di pino nero e di pino laricio in Italia. Fonte: Rielaborazione CREA su dati INFC 2005.

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Il 56% (ca. 130.000 ettari) del totale dei soprassuoli appartenenti a questa sottocategoria forestale è classificato come di origine artificiale, mentre solo il 13.9% (ca. 30.000 ettari) è di origine naturale e si trova per la quasi sua totalità in Calabria, Friuli-Venezia Giulia ed Abruzzo (Tab. 1).

Tab. 1 - Distribuzione dei boschi di pino nero e di pino laricio in Italia in base alla loro origine (INFC 2005).

Regione Origine pinete di pino nero, laricio e loricato (superficie)
Naturale
(ha)
Seminaturale
(ha)
Artificiale
(ha)
Non classificata
(ha)
Totale
(ha)
Piemonte 404 808 1 616 0 2 828
Valle d’Aosta 0 0 385 0 385
Lombardia 441 882 3 527 0 4 850
Alto Adige 0 378 0 0 378
Trentino 0 3 604 1 441 1 081 6 126
Veneto 0 1 121 1 494 890 3 505
Friuli - Venezia Giulia 8 547 4 459 6 317 11 520 30 843
Liguria 0 2 565 2 565 366 5 496
Emilia Romagna 736 3 310 11 402 1 103 16.551
Toscana 361 5 420 11 200 1 445 18 426
Umbria 369 1 106 4 424 0 5 899
Marche 0 2 600 7 432 372 10 404
Lazio 0 369 7 369 737 8 475
Abruzzo 2 895 2 895 12 642 724 19 156
Molise 0 0 2 343 0 2 343
Campania 0 1 841 3 314 1 105 6 260
Puglia 0 0 1 554 0 1 554
Basilicata 0 746 1 119 746 2 611
Calabria 16 418 17 164 39 924 1 119 74 625
Sicilia 2 621 379 4 170 0 7 170
Sardegna 0 373 8 209 0 8 582
Italia 32 792 50 020 132 447 21 208 236 467

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Più del 75% (ca. 155.000 ettari) delle pinete di pino nero e di pino laricio sono fustaie coetanee, e di queste più del 90% si trova negli stadi evolutivi compresi tra la fustaia giovane e la fustaia stramatura. Degno di nota è il fatto che secondo i dati inventariali del 2005 solo lo 0.2% delle fustaie coetanee, peraltro presente nella sola Calabria, si trova in fase di rinnovazione (Fig. 2).

Fig. 2 - Distribuzione percentuale delle fustaie coetanee di pino nero e di pino laricio in Italia in base allo stadio evolutivo. Fonte: Rielaborazione CREA su dati INFC 2005.

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L’ulteriore spostamento verso stadi sempre più maturi delle pinete impone oggi una particolare attenzione all’evoluzione e ai processi di rinnovazione di questi soprassuoli, in particolare alla luce dei cambiamenti climatici in atto e all’elevata vulnerabilità di questi in relazione ai rischi fitosanitari e di incendio che potrebbero minacciarle, minandone la struttura e la stabilità. Vi è quindi l’urgenza di poterne garantire la salvaguardia, in primo luogo attraverso analisi puntuali dei dinamismi spazio-temporali in atto per comprendere le problematiche gestionali e quindi poter individuare azioni selvicolturali volte non solo al miglioramento strutturale e funzionale e alla prevenzione dei rischi (stabilità, incendi, fitopatie, ecc.), ma anche alla facilitazione dei processi di rinnovazione e rinaturalizzazione.

Il presente contributo, in continuità con il lavoro di Cutini et al. ([8]) relativo all’analisi delle normative regionali italiane in materia di boschi cedui, propone un quadro sinottico della legislazione forestale a scala regionale in materia di fustaie di pino nero, con particolare attenzione agli impianti di origine artificiale. L’obiettivo è quello di costruire una base conoscitiva, ed una visione di insieme, in un settore nel quale molto spesso si registrano eterogeneità non solo a livello terminologico, ma anche dal punto di vista degli aspetti tecnico-gestionali. L’analisi delle legislazioni attuali è preceduta da un’indagine storica della legislazione nazionale in materia di rimboschimenti.

La politica dei rimboschimenti in Italia: analisi storica delle legislazioni nazionali 

Per comprendere meglio le disposizioni previste dalle legislazioni regionali vigenti e orientare oggi le politiche di gestione e conservazione dei popolamenti artificiali di pino nero in Italia è opportuno analizzare e ripercorrere le fasi storiche della “riforestazione nazionale”, realizzata con leggi e contributi specifici, e che hanno caratterizzato la politica forestale nazionale dall’Unità d’Italia fino a metà degli anni settanta.

Gli interventi di imboschimento realizzati nel corso del tempo lungo tutto l’Appennino, ma in generale in tutte le zone collinari e montane d’Italia, vennero previsti per rispondere principalmente alle specifiche problematiche di erosione, ruscellamento superficiale e dissesto idrogeologico che caratterizzavano il territorio, fortemente sfruttato a fini energetici e agro-pascolivi dall’uomo tra il XVIII e XIX secolo con diffusi disboscamenti e dissodamenti, incendi ed eccessivo pascolamento anche in stazioni non idonee.

Dall’Unità d’Italia fino agli anni cinquanta con diversi atti normativi sono stati assicurati i finanziamenti e sono state dettate le norme per il riassetto dei territori montani, realizzando importanti opere di rimboschimento per il consolidamento del suolo ed il ripristino dei soprassuoli degradati. Con i rimboschimenti si prevedeva anche di soddisfare le necessità socioeconomiche del tempo, utilizzando quindi in primo luogo specie capaci di sfruttare al meglio le scarse risorse disponibili, di ricoprire rapidamente il suolo e di produrre legna e legname; in secondo luogo si voleva anche generare nuova occupazione nell’impianto e nelle successive fasi di trasformazione del materiale. Tra le specie maggiormente impiegate un ruolo fondamentale e primario è rivestito dal pino nero (Pinus nigra ssp. austriaca, italica e calabrica), per le sue capacità adattative e di crescita rapida anche su suoli poveri di nutrienti e con uno scarso apporto di acqua. Con la Legge 20 giugno 1877 n. 3917 (“Norme relative alle foreste”, Gazz. Uff. 11 luglio 1877, n.161), il Senatore Salvatore Majorana Calatabiano, Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio del Regno d’Italia per primo comincia operativamente ad affrontare la problematica dei “boschi e delle terre spogliate di piante legnose sulle cime e pendici dei monti”. Questa Legge rappresenta il primo passo dello Stato unitario verso l’organizzazione della materia forestale introducendo all’Art.1 il “vincolo forestale”, con divieto di disboscamento e di dissodamento per tutte le terre interessate dalla presenza di boschi, o dall’assenza di piante legnose ma coincidenti con cime e pendii montuosi, sopra il limite superiore della zona del castagno (700-800 metri), e per tutti quei territori che “per la loro specie e situazione possono, disboscandosi o dissodandosi, dar luogo a sconscendimenti, smottamenti, interramenti, frane, valanghe, e, con danno pubblico, disordinare il corso delle acque, o alterare la consistenza del suolo, oppure danneggiare le condizioni igieniche locali.”.

La Legge nasce dal bisogno di consolidare e difendere una grande estensione di “terreni disboscati e dissodati”, da individuare e sottoporre a vincolo forestale sulle “vette e sul pendio”, e “che influenzano il disordine del corso delle acque e producono danni e provvedere al loro rimboschimento”, attraverso l’azione autonoma o congiunta del Ministero, delle Province e dei Comuni “nel fine di garantire la consistenza del suolo e di regolare il corso delle acque” (Art. 11). Tali azioni prevedevano la costituzione, anche coatta, di consorzi tra i proprietari privati, con la sola opzione per il Ministero di procedere all’espropriazione dei terreni in caso di mancata costituzione o di inattività dei consorzi medesimi (Art. 13).

Per le limitate risorse disponibili le azioni di rimboschimento furono realizzate su piccole superfici e con uno scopo principalmente dimostrativo, come ricorda la Circolare Ministeriale del 21 agosto 1878 n. 229: “Ciascun rimboschimento si limiterà quindi da principio a pochi ettari di scoscese pendici, per le quali l’acqua scorre oggi precipitosa a ingrossare fiumi e torrenti, trascinando al piano terre o altre materie, […] regolando la coltura forestale in simili terreni si arrecherà un vantaggio immediato, comunque forse limitato, al corso delle acque e si insegna, colla scuola efficace dell’esempio che in tale condizione il bosco è anche più utile delle colture. I risultamenti conseguiti ci daranno lena a estendere il campo d’azione, e io confido che non mancheranno i mezzi a un’opera che, se non m’inganno, è desiderio generale che venga iniziata e proseguita con perseverante attività”.

Le conseguenze di questa prima fase di attuazione della norma non furono molto impattanti in termini di interventi realizzati, ma si diede comunque avvio ad una identificazione e perimetrazione dei boschi e territori sottoposti a vincolo forestale secondo quanto previsto all’Art. 8, lasciando però i boschi situati al disotto della zona del castagno (700-800 metri) ad un incontrollato sfruttamento.

Il “concorso finanziario dello Stato nei rimboschimenti” che inizialmente era pari alla metà della spesa prevista, venne dal 1880 viene portato fino a due quinti della spesa, ma solo per i terreni incolti di proprietà patrimoniale dei Comuni, mentre per i terreni incolti privati continuò a limitarsi alla somministrazione gratuita di semi e piantine, oltre alla compilazione del progetto e alla direzione dei lavori ([7]).

Nel 1884 il Ministero dichiara l’inefficacia dei rimboschimenti isolati, saltuari e di piccola estensione fino ad allora eseguiti, e che avevano comunque solo uno scopo dimostrativo, e invita al fine di rendere palesi gli effetti dell’imboschimento “a ricostituire le selve in un’intera pendice di montagna e in più versanti che facciano capo a una sola vallata e che interessino il sistema idrografico di un determinato bacino”. Sulla base di questa consapevolezza, è con la Legge 1 marzo 1888 n. 5238, “portante disposizioni intese a promuovere i rimboschimenti volti a garantire lo sviluppo del suolo e regolare il corso delle acque” che si diede avvio ad un organico intervento di sistemazione montana, finalizzato non solo a consolidare e difendere i terreni sottoposti a vincolo forestale, ma a garantire anche lo sviluppo del suolo e a regolare il corso delle acque “in un bacino principale o secondario o sopra parte di essi”, prevedendo di sottoporre a vincolo forestale anche nuove superfici da rimboschire o rinsaldare. Viene inoltre introdotto il principio secondo cui nei terreni rimboschiti e rinsaldati la coltura boschiva, il taglio del bosco, come ogni altra operazione forestale, deve compiersi secondo un “piano di coltura e conservazione” redatto dall’Amministrazione forestale (Art. 18). Anche in questo caso, per l’inadeguatezza degli strumenti di legge e delle scarse risorse finanziarie si registrarono scarsi risultati e il concetto di pubblica utilità delle opere forestali di sistemazione montana rimase limitato unicamente alle vere e proprie opere idrauliche, come evidenziato dalla Circolare Ministeriale settembre 1889 relativa alle Competenze dell’amministrazione forestale nella sistemazione dei bacini montani: “Le opere forestali dirette al rinsodamento e rimboschimento delle pendici e generalmente della Regione che forma il bacino idrografico di riunione, debbono essere fatte dai proprietari dei terreni di questa Regione, poiché essi risentono il vantaggio di prepararsi a un bosco stabile, dove prima non erano che lavine e frane”.

Una nuova fase si apre con l’inizio del ’900, quando con la crescita industriale e l’espansione urbana cresce anche lo sfruttamento industriale del bosco e le richieste di carbone, legna da ardere, traversine ferroviarie, legno da opera e carpenteria diventano sempre maggiori. La normativa forestale riceve un importante impulso a partire dalla Legge Luzzatti del 2 giugno 1910 n. 277 “Provvedimenti per il demanio forestale di Stato e per la tutela e l’incoraggiamento della silvicoltura” (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, 8 giugno 1910, n. 134), che ridefinisce l’amministrazione riorganizzando il Reale Corpo delle Foreste, istituendo il Demanio forestale dello Stato e l’inalienabilità del bosco pubblico, introducendo provvedimenti per la tutela e l’incoraggiamento della selvicoltura, in particolare attraverso aiuti per il rimboschimento non solo come mezzo di difesa contro il dissesto, ma anche come fattore produttivo. I rimboschimenti eseguiti tra il 1867 e il 1911 dallo Stato a totale suo carico o col suo concorso raggiunsero complessivamente 38.000 ettari circa ([20]).

Con la Legge 13 luglio 1911 n. 774 e il successivo Testo Unico approvato con Legge 21 marzo 1912 n. 442 “Normativa organica delle disposizioni in materia di sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani” si delinea finalmente una normativa organica delle disposizioni in materia di sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani, in cui tutti i lavori di rimboschimento e di rinsaldamento dei bacini vengono posti a totale carico dello Stato (Art. 1), ove “le condizioni dei terreni siano tali da compromettere, con danno pubblico, la consistenza del suolo, la sicurezza degli abitati e il buon regime delle acque” (Art.2).

Nello stesso periodo storico altri settori prendono coscienza dell’importanza dell’attività di rimboschimento e di rinsaldamento dei terreni montani ai fini idrogeologici, prevedendo norme, procedure e percentuali di intervento dello Stato per l’esecuzione di tali opere in collegamento e coordinamento alle opere idrauliche (Legge 30 marzo 1893, n. 173; Legge 7 luglio 1902, n. 304; Testo Unico 25 luglio 1904, n. 523; Legge 22 dicembre 1910, n. 919) e di bonifica (Legge 25 giugno 1882; Legge 18 giugno 1889; Testo Unico 22 marzo 1900, n. 195). Si ebbe così una progressiva intensificazione dei lavori di rimboschimento anche se in generale l’attuazione dei nuovi provvedimenti forestali fu sicuramente ostacolata dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e dalla grave crisi economica del successivo dopoguerra. Tra il 1912 e il 1922 furono realizzati interventi su circa 13.000 ettari di superfici pubbliche e ai privati e ad enti vari furono distribuite piantine e semi in tale quantità che si calcola siano stati rimboschiti altri 20-25.000 ettari ([20]).

Un nuovo impulso alle opere di rimboschimento e sistemazione montane giunge a metà degli anni venti con il Regio Decreto del 30 dicembre 1923 n. 3267 e il relativo regolamento di attuazione del 16 maggio 1926 n. 23, nonché dalla Legge sulla Bonifica Integrale del 23 febbraio 1933 n. 215. Parallelamente, su iniziativa di Italo Balbo con il Regio Decreto legge 16 maggio 1926 n. 1066, viene istituita la Milizia Forestale che contestualmente sopprimeva il Corpo reale delle Foreste.

Con la Legge n. 3267 del ’23 (legge Serpieri), viene previsto il riordino e la riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani, istituendo il “vincolo idrogeologico” sui terreni saldi (di qualsiasi natura e destinazione) e specifiche limitazioni e prescrizioni alle pratiche selvicolturali per garantire la stabilità del territorio e la regimentazione delle acque, salvaguardando e valorizzando inoltre le formazioni boschive di maggiore interesse che con il Regio Decreto di applicazione, (n. 1126 del 16 maggio 1926), vengono normate da parte dei Comitati Forestali nelle Prescrizioni di Massima e di Polizia Forestale (P.M.P.F.) ancora oggi vigenti e che regimano le utilizzazioni boschive in ogni provincia.

La Legge Serpieri si pone come obiettivo di conciliare la funzione produttiva del bosco con quella protettiva, in funzione della stabilità dei versanti e del corretto deflusso delle acque meteoriche, riconoscendo il bosco come presidio dell’equilibrio idrogeologico del territorio. Il “vincolo forestale” previsto dalla legge del 1877 viene sostituito dal nuovo “vincolo idrogeologico” e nell’ambito di una più organica azione per la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani, vengono anche previste misure per la realizzazione di rimboschimenti, rinsaldamenti ed opere costruttive immediatamente connesse. In materia di sistemazione idraulico-forestale vengono ripresi i principi del Testo Unico del 1912, estese le previsioni della Legge n. 3917 del 1877 e della Legge n. 5238 del 1888 per la ricostituzione dei boschi degradati e sul ruolo dei Consorzi di rimboschimento costituiti tra privati proprietari. Viene introdotta una più organica definizione delle procedure di attuazione con interventi legati a: individuazione e approvazione dei perimetri dei bacini da sistemare e dei progetti delle opere idraulico-forestali da realizzare; rimboschimento dei terreni vincolati e ricostituzione dei boschi estremamente deteriorati da parte dell’Amministrazione forestale, delle Province e dei Comuni, soli o riuniti in consorzio (Art. 75). Elemento innovativo ai fini dell’incoraggiamento a favore della selvicoltura è la concessione di contributi per la formazione di nuovi boschi o per la ricostituzione di quelli estremamente deteriorati (Art. 91). Il sostegno prevede un contributo fino ad un massimo di due terzi della spesa, oltre alla direzione tecnica dei lavori e alla fornitura gratuita dei semi e delle piantine occorrenti, esclusivamente per i terreni vincolati o vincolabili a fini idrogeologi per la realizzazione di soprassuoli a carattere prevalentemente protettivo. Viene anche introdotto il divieto di trasformazione a coltura agraria dei terreni rimboschiti (Art. 54), con l’obbligo per i proprietari (Art. 91), di compiere le “operazioni di governo boschivo” in conformità al “piano di coltura e conservazione” approvato dal Ministero.

Inoltre, viene previsto il vincolo protettivo (Art. 17) con cui “i boschi che difendono terreni o fabbricati e quelli ritenuti utili per le condizioni igieniche locali possono essere sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione” e per la diminuzione di reddito “sarà dovuto ai proprietari di questi un congruo indennizzo”.

In continuità con le disposizioni già previste nei primi del ’900 con il R.D. 13 febbraio 1933 n. 215 recante “Nuove norme per la bonifica integrale”, le opere di rimboschimento e di ricostituzione di boschi degradati connesse a quelle di bonifica vengono inserite tra le opere di competenza dello Stato “in quanto necessarie ai fini generali della bonifica” e da realizzare “in base ad un piano generale di lavori e di attività con rilevanti vantaggi igienici, demografici ed economici”. Il riconoscimento di pubblica utilità del rimboschimento è ancora una volta legato a motivazioni di difesa idrogeologica specificando che deve trattarsi di opere “volte ai fini pubblici della stabilità del terreno e del buon regime delle acque”.

Secondo quanto riportato da Aldo Pavari ([20]), “mentre dal 1867 al 1922 la superficie annualmente rimboschita per azione diretta dello Stato era di 926 ettari, nel periodo fascista anteriore alla creazione della Milizia forestale (1922-1926) tale cifra si elevò a 2.629 ettari e nel periodo 1926-1934 è passata a 7.593 ettari. L’istituzione della Milizia forestale segnò l’inizio di un’opera ancora più vasta. Crebbero i consorzi di rimboschimento, furono iniziati i lavori di sistemazione idraulico-forestale in numerosi perimetri montani, e si intensificò la produzione delle piantine nei vivai forestali. Nel primo dodicennio fascista sono stati rimboschiti 71.260 ettari di terreni, cifra che supera di oltre 20.000 ettari quella dei 55 anni anteriori all’avvento del fascismo. Nell’anno 1933-34 la superficie dei rimboschimenti è aumentata di 12.774 ettari. Le quantità di piantine collocate a dimora e di semi affidati al suolo hanno subito anch’esse un incremento notevolissimo; così, per limitarci agli ultimi anni, si passa da 17.775.000 piantine e 96.660 kg di semi dell’anno 1929-30, rispettivamente a 42.308.000 e 254.550 nell’anno 1930-31; 49.743.000 e 270.154 nell’anno 1931-32; 59.737.000 e 485.115 nel 1932-33; 60.395.000 e 587.639 nel 1933-34. Le cifre riportate sono globali e si riferiscono anche a rimboschimenti privati, a Boschi del Littorio, Parchi della rimembranza, ecc.”.

Con la Repubblica il problema del rimboschimento delle montagne assume nuove considerazioni alla luce della profonda crisi economico-sociale del dopo-guerra. Se sotto gli aspetti idrogeologici il rimboschimento viene ancora considerato quale unico mezzo di sistemazione delle pendici montane e di raggiungimento dell’equilibrio idrico, connesso alla fissazione delle pendici e le opere idrauliche da costruirsi lungo il corso del torrente (briglie, difese di sponda, arginature, ecc.) come mezzi provvisori, sebbene utili e talvolta indispensabili, per il raggiungimento dei fini, gli interventi normativi degli anni ’40 e ’50 vengono rivolti anche a compensare le enormi necessità occupazionali del momento storico. In questa direzione si è infatti mossa la Legge del 29 marzo 1949 n. 264 (c.d. Legge Fanfani), sui cantieri di lavoro, promuovendo “per il lavoro e la previdenza sociale, […] in zone ove la disoccupazione sia particolarmente accentuata, l’apertura di cantieri-scuola per disoccupati, per l’attività forestale e vivaistica, di rimboschimento, di sistemazione montana e di costruzione di opere pubbliche”. A questa legge seguono la Legge sulla Montagna del 27 luglio 1952 n. 991, oltre agli interventi disposti dalla Legge 10 agosto 1950 n. 646 “Cassa del Mezzogiorno” e dalla Legge 25 luglio 1952 n. 991 “Provvedimenti in favore dei territori montani”, che prevedono come obiettivo generale la copertura del suolo e il riassetto del territorio, la stabilità dei versanti dei rilievi, il corretto (ovvero economicamente conveniente) deflusso delle acque meteoriche e l’occupazione di manodopera non qualificata. La legge Fanfani ha consentito di operare, per la prima volta, anche rimboschimenti in pianura, prevalentemente di conifere e specie esotiche, e mediante l’istituzione di diversi cantieri di connotazione “keynesiana” sono stati imboschiti circa 30.000 ha/anno per quasi 20 anni, con l’utilizzazione soprattutto di pino nero, duglasia ed eucalipto. La legge sulla montagna stabilisce invece che “i territori montani, che, a causa del degradamento fisico o del grave dissesto economico, non siano suscettibili di una proficua sistemazione produttiva […] possono essere delimitati e classificati in comprensori di bonifica montana” per i quali sono previste “opere di miglioramento fondiario, con particolare riguardo alle opere di consolidamento del suolo e regimazione delle acque”, affrontando organicamente e con adeguate risorse finanziarie il tema della bonifica dei territori montani, con un approccio rivolto anche allo sviluppo economico e sociale della montagna.

Le opere di rimboschimento e di ricostituzione dei boschi degradati, in linea con la precedente normativa, vengono definite tra le “opere pubbliche di competenza dello Stato” nell’ambito dei territori montani da classificare come “comprensori di bonifica montana” in ragione dell’esigenza di un intervento straordinario per rimuovere il degrado fisico o il grave dissesto economico che impedivano una “proficua sistemazione produttiva” ([7]). In base a questa legge iniziarono così a operare i Consorzi di bonifica montana e i contributi previsti dall’Art. 91 del Regio Decreto n. 3267 del 1923 per l’incoraggiamento della selvicoltura vengono elevati al 75% della spesa ed estesi a qualsiasi terreno anche non vincolato o vincolabile ai fini idrogeologici, per “la formazione di boschi richiesti per la difesa di terreni o fabbricati” e “per la tutela delle condizioni igieniche”. I finanziamenti vennero prorogati fino al 1966, quando entrò in vigore il Secondo Piano Verde previsto dalla Legge 27 ottobre 1966 n. 910 con ulteriori finanziamenti per l’attività di rimboschimento. Con la Legge n. 646, che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno (successivamente ISMEZ), venivano destinate altre cospicue risorse ad opere per la sistemazione dei bacini montani, nell’area d’azione della stessa Cassa. Questo periodo fu in assoluto quello di maggiore attività nel campo dei rimboschimenti con una superficie rimboschita a livello nazionale in poco più di 15 anni (1952-1968) pari a quasi tre volte il valore di quella ottenuta negli oltre ottant’anni precedenti (dal 1867 al 1950). A conferma che il settore forestale era dominato dalla presenza pubblica, i rimboschimenti effettuati fino al 1968 con contributi privati risultavano esigui e i boschi di proprietà privata, come in precedenza, erano sottoposti ad una domanda pressante di prelievo legnoso.

Per il rapido sviluppo economico e la forte richiesta di materie prime incominciavano per i rimboschimenti a emergere anche chiare finalità di carattere produttivo con importanti investimenti pubblici, ma soprattutto privati che con una prospettiva imprenditoriale potessero fornire derivati del legno, quali cellulose e paste di legno. Per il mutare delle condizioni di mercato rispetto alle previsioni dell’epoca, i suddetti investimenti non hanno realizzato gli obiettivi prefissati, rimanendo nella gran parte dei casi, soprassuoli in grado di esplicare ottime azioni di difesa idrogeologica e di valorizzazione paesaggistica, con notevoli potenzialità anche per la produzione di legname da lavoro.

Con le Leggi n. 454 del 1961 e n. 910 del 1966 vengono introdotti il Primo e Secondo Piano Verde, le cui misure di intervento forestale, ancora oggi, sono prive di concreti effetti normativi. A queste segue la legge del 27 dicembre 1977 n. 984 detta “Quadrifoglio”, che traccia linee di indirizzo generale in materia agro-forestale e in cui gli obiettivi forestali risultano nel complesso marginali prevedendo solamente specifici aiuti per investimenti volti alla conversione dei cedui ad alto fusto, per impianti di specie pregiate e il finanziamento di piantagioni con specie a rapido accrescimento secondo un approccio prevalentemente produttivo.

L’interesse nazionale ai rimboschimenti cambia e con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e il trasferimento di funzioni disposto dal Decreto del Presidente della Repubblica del 15 gennaio 1972 n. 11, la competenza in materia di rimboschimenti passa alle Regioni; nella politica forestale nazionale si assiste a una graduale riduzione di interesse nei rimboschimenti, nelle esigenze di sistemazione montana. Alla luce delle notevoli estensioni rimboschite nei decenni precedenti e del progressivo aumento dei boschi di neoformazione su terreni agricoli e pascolivi abbandonati, ci si sarebbe aspettato dalla gestione regionale una maggiore attenzione al miglioramento e al mantenimento dell’accresciuto patrimonio forestale e alla difesa dagli incendi boschivi, fenomeno che, proprio negli anni settanta, emergeva con drammaticità.

Dopo gli anni ’70 la politica forestale sui rimboschimenti si concentra quindi sulla produzione legnosa con specie a rapido accrescimento. In continuità con le azioni realizzate dallo Stato sul finire del secolo scorso, interessanti progetti di elevato investimento sono stati promossi con la Cassa del Mezzogiorno, che si prefiggeva, attraverso il rimboschimento pubblico e privato, un’integrazione intersettoriale tra il settore della produzione legnosa e la sua utilizzazione industriale, raggiungendo però solo in parte i suoi obiettivi in quanto sono stati interessati terreni marginali e non sono state eseguite le cure colturali successive.

Dagli anni ’80 in poi subentrano le misure predisposte dall’Unione Europea con i primi Regolamenti (Reg. 269 del 1979, Reg. 2088 del 1985 - Piani Integrati Mediterranei) che hanno contribuito ad una, seppur modesta, espansione della superficie rimboschita. Solo nei primi anni ’90, ritorna un interesse nelle opere di “riforestazione” con l’applicazione del Regolamento CEE 2080 del 1992 che vede in sette anni la realizzazione di 104.000 ettari di boschi, ma su terreni agricoli per i quali rimane (nella maggior parte dei casi) un uso del suolo che comporta il ritorno a coltura agraria al termine del periodo di impegno (15 anni). Tale misura, rivolta inizialmente alla sottrazione di terreni agricoli alla produzione ai fini del contenimento delle produzioni eccedentarie, è stata poi riproposta nell’ambito dei successivi provvedimenti di Politica Agricola Comunitaria per i periodi di programmazione 2000-2006, 2007-2013 e 2014-2020 in attuazione della politica europea di Sviluppo Rurale, in cui il rimboschimento delle superfici agricole rimane un intervento costante insieme al rimboschimento delle superfici non agricole. Obiettivo principale dell’azione europea rivolta al rimboschimento rimane quello ambientale e in particolare la conservazione e miglioramento del paesaggio, la tutela della biodiversità e la mitigazione e il contrasto ai cambiamenti climatici. In Italia i rimboschimenti realizzati nel nuovo millennio con i contributi unionali riguardano principalmente impianti di arboricoltura da legno su terreno agricolo (Pioppo, Noce, Ciliegio) che hanno visto dal 2000 ad oggi la realizzazione di impianti su terreno agricolo per circa di 60.000 ettari, e di impianti forestali su terreni non agricoli per circa 15.000 ettari. Sempre di più la funzione primaria di indirizzo dei rimboschimenti rimane quella naturalistica e ricreativa, legata ai nuovi concetti di tutela della biodiversità e gestione forestale sostenibile, anche se in Italia il principale scopo è stato produttivo con la realizzazione di impianti di arboricoltura da legno (principalmente pioppo). La realizzazione di rimboschimenti rimane quindi limitata o ad azioni localizzate di ripristino ambientale (sistemazione di cave, discariche, interventi di ingegneria naturalistica, aree percorse da incendio, ecc.) o all’impianto di colture legnose specializzate (biomassa ad uso energetico, legname di qualità, ecc) su superfici che rimangono comunque ad uso agricolo.

Nel lungo percorso tracciato dalla fine dell’Ottocento ad oggi, l’attività di rimboschimento ha assunto ruoli e obiettivi diversi, ma sempre di grande importanza per risanare e difendere un territorio degradato dall’eccessivo e indiscriminato sfruttamento agricolo e forestale. Oggi in un contesto completamente diverso rispetto al secolo scorso in termini di superficie e copertura forestale presente, i rimboschimenti assumono comunque un importante ruolo di conservazione e di miglioramento dell’ambiente e dell’assetto idrogeologico nell’ambito delle politiche regionali, nazionali, comunitarie e internazionali.

Le normative forestali regionali in materia di trattamento delle pinete 

Con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e il trasferimento di funzioni disposto dal Decreto del Presidente della Repubblica del 15 gennaio 1972 n. 11, la competenza in materia forestale viene affidata alle Regioni. In Tab. 2 vengono riportate le normative regionali vigenti in materia aggiornate al settembre 2018. Il quadro delle fonti normative, come già evidenziato da Cutini et al. ([8]), risulta essere eterogeneo da regione a regione.

Tab. 2 - Normative regionali/provinciali in materia di gestione forestale oggetto di analisi in questo studio (aggiornamento: agosto 2018).

Regione Normative
Abruzzo P.M.P.F. dell’Aquila n. 43 del 1965; Legge Regionale n. 3 del 2014 (Legge organica in materia di tutela e valorizzazione delle foreste, dei pascoli e del patrimonio arboreo della Regione Abruzzo)
Basilicata Legge Regionale n. 42 del 1998 (Norme in materia forestale) e successive modifiche; Regolamento Regionale n. 956 del 2004 in attuazione dell’Art. 15 della L.R. n. 42 del 1998
Calabria P.M.P.F. n. 218 del 2011; Legge Regionale n. 45 del 2012 (Gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio forestale)
Campania Legge Regionale n. 11 del 1996 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 28 febbraio 1987, n. 13, concernente la delega in materia di economia, bonifica montana e difesa del suolo) e successive modifiche; Regolamento Regionale 24 settembre 2018, n. 8. "Modifiche al Regolamento regionale 28 settembre 2017, n.
Emilia Romagna Legge Regionale n. 30 del 1981 (Incentivi per lo sviluppo e la valorizzazione delle risorse forestali, con particolare riferimento al territorio montano) e successive modifiche; Regolamento Regionale n. 3 del 2018 (Regolamento forestale regionale in attuazione dell’Art. 13 della L.R. n . 30 del 1981)
Friuli - Venezia Giulia Legge Regionale n. 9 del 2007 (Norme in materia di risorse forestali); Regolamento Regionale n. 274 del 2012 in attuazione dell’Art. 95 della L.R. n.9 del 2007
Lazio Legge Regionale n. 39 del 2002 (Norme in materia di gestione delle risorse forestali); Regolamento Regionale n. 7 del 2005 in attuazione dell’Art. 36 della L.R. 39 del 2002
Liguria Legge Regionale n. 4 del 1999 (Norme in materia di foreste ed assetto idrogeologico); Regolamento Regionale n. 1 del 1999 in attuazione dell’Art. 48 della L.R. n. 4 del 1999
Lombardia Legge Regionale n. 31 del 2008 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foresta, pesca e sviluppo rurale); Regolamento Regionale n. 5 del 20 luglio 2007 (Norme forestali regionali), in attuazione dell’articolo 50, comma 4, della L.R. n. 31 del 2008
Marche Legge Regionale n. 6 del 2005 (Legge forestale regionale); P.M.P.F. D.G.R. n. 2585 del 2001
Molise Legge Regionale n. 6 del 2000 (Legge forestale della Regione Molise); P.M.P.F. n. 488 del 1964 (Isernia); P.M.P.F. n. 290 del 1973 (Campobasso)
Piemonte Legge Regionale n. 4 del 2009 (Gestione e promozione economica delle foreste); Regolamento Regionale n. 8 del 2011 in attuazione dell’Art. 13 della L.R. n.4 del 2009
Puglia L.R. n. 18 del 2000 e modifiche L.R. n. 12 del 2012; PMPF n. 891 del 1969 (Bari); PMPF n. 483 del 1968 (Brindisi); PMPF n. 188 del 1968 (Foggia); PMPF n. 384 del 1969 (Lecce); PMPF n. 188 del 1968 (Taranto)
Sardegna Legge Regionale n. 8 del 2016 (Legge forestale della Sardegna); P.M.P.F. D.G.R. n. 24/CFVA del 2006
Sicilia Legge Regionale n. 271 del 2016 (Riordino della legislazione in materia forestale, rurale e territoriale); P.M.P.F. D.A. n. 13 del 2006 (Agrigento); P.M.P.F. D.A. n. 12 del 2006 (Caltanissetta); P.M.P.F. D.A. n. 11 del 2006 (Catania); P.M.P.F. D.A. n. 10 del 2006 (Enna); P.M.P.F. D.A. n. 9 del 2006 (Messina); P.M.P.F. D.A. n. 8 del 2006 (Palermo); P.M.P.F. D.A. n. 7 del 2006 (Ragusa); P.M.P.F. D.A. n. 6 del 2006 (Siracusa); P.M.P.F. D.A. n. 5 del 2006 (Trapani);
Toscana Legge Regionale n. 39 del 2000 (Legge forestale della Toscana); Regolamento Regionale n. 48 del 2003 (Regolamento forestale in attuazione della L.R. n. 39 del 2000)
Trentino Alto Adige - Prov. Autonoma di Trento Legge Provinciale n. 11 del 2007 (Governo del territorio forestale e montano, dei corsi d’acqua e delle aree protette); D.P.P. n. 8 del 2011 (Regolamento concernente le disposizioni forestali in attuazione degli articoli 98 e 111 della L.P. n.11 del 2007)
Trentino Alto Adige - Prov. Autonoma di Trento Legge Provinciale n. 21 del 1996 (Ordinamento forestale); Decreto Presidente della Giunta Provinciale n. 29 del 31 luglio 2000 (Regolamento all’ordinamento forestale)
Umbria Legge Regionale n. 28 del 2001 (Testo unico regionale per le foreste); Regolamento Regionale n. 11 del 2012 (Modificazioni ed integrazioni al regolamento regionale n. 7 del 2002 in attuazione all’Art. 2 della L.R. n. 28 del 2001)
Valle d’Aosta Legge Regionale n. 4 del 1958
Veneto Legge Regionale n. 52 del 1978 (Legge forestale regionale); P.M.P.F. 51 del 2003

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In questo contributo, con lo scopo di metter in evidenza le principali differenze e criticità presenti, vengono presi in considerazione, e trattati singolarmente, i principali aspetti tecnico-selvicolturali e procedurali riguardanti le fustaie di pino nero e laricio; in particolare: il turno, i tagli intercalari, i tagli di maturità, la rinaturalizzazione.

L’impianto normativo in materia forestale di gran parte delle Regioni è concepito secondo la distinzione procedurale tra dichiarazione/comunicazione ed autorizzazione. In Tab. S1 (Materiale supplementare) si riportano i procedimenti amministrativi previsti per le modalità degli interventi selvicolturali relativamente ai boschi di alto fusto.

Vengono prese in considerazione le normative forestali regionali rispetto alle diverse fasi del trattamento selvicolturale, in funzione del livello di dettaglio dell’oggetto a cui queste si riferiscono: in alcuni casi le normative fanno esplicito riferimento ai boschi di pino nero e laricio, in altri invece alle fustaie di conifere o genericamente ai boschi d’alto fusto. Vengono analizzate le modalità di esecuzione dei trattamenti previste per i boschi in regime di dichiarazione/autorizzazione, laddove esplicitato, e limitatamente ai boschi non soggetti a pianificazione forestale approvata.

I turni 

L’età minima del turno delle fustaie di pino nero e laricio nella legislazione forestale regionale italiana è assai variabile, con una media intorno a 70 anni ma con un range molto esteso, dai 40 anni della Toscana ai 120 del Piemonte (Tab. 3).

Tab. 3 - Prescrizioni a livello regionale per quanto riguarda i turni minimi per le fustaie di pino nero e laricio.

Regione Turni minimi per le fustaie di pino nero e laricio
Abruzzo 70 anni per pino nero e laricio (P.M.P.F.)
Basilicata 80 anni per pino nero e pini mediterranei (L.R. n. 42 del 1998)
Calabria Nessuna indicazione specifica
Campania 70 anni per le fustaie di pino d’Aleppo ed altre conifere (Reg. n. 3 del 2017)
Emilia Romagna 70 anni per le fustaie di pini (Reg. n. 3 del 2018)
Friuli-Venezia Giulia 50 anni (turno minimo) o il diametro delle cento piante più grosse ad ettaro è maggiore di 30 cm, per le fustaie di pino silvestre e di pino nerodi origine naturale o artificiale e pinete naturalizzate del Carso (D.P.R. n. 274 del 2012)
Lazio 70 anni per fustaie di altre conifere (douglasia 50 anni) (Reg. n. 7 del 2005)
Liguria 60 anni per pino nero e laricio (P.M.P.F.)
Lombardia 50 anni per formazioni di pino nero di origine artificiale (Reg. n. 5 del 2007)
Marche 70 anni per tutti i pini (P.M.P.F.)
Molise 70 anni per pino nero e laricio (P.M.P.F.)
Piemonte 70 anni a quote inferiori a 1.000 m s.l.m.; 90 anni tra 1.000 e 1.500 m s.l.m.;120 anni oltre i 1.500 m s.l.m. (Reg. n. 8 del 2011)
Puglia 70 anni per pino nero e laricio (P.M.P.F.)
Sardegna 80 anni per pino laricio (P.M.P.F.)
Sicilia 70 anni per pino laricio (P.M.P.F.)
Toscana 40 anni per pino nero e laricio (Reg. n. 48 del 2003)
Trentino Alto Adige Nessuna indicazione
Umbria 60 anni per pino nero (Reg. n. 11 del 2012)
Valle d’Aosta Nessuna indicazione specifica
Veneto Nessuna indicazione specifica

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Le Regioni che non normano specificatamente i turni per le pinete di pino nero sono la Calabria, la Valle d’Aosta, il Trentino e il Veneto (che non esprimono indicazioni sul turno), la Campania e il Lazio, che fanno riferimento genericamente ai boschi di conifere. Il Piemonte dettaglia i turni (70, 90 e 120 anni) in funzione delle fasce altimetriche (rispettivamente: pinete a quote inferiori a 1.000 metri, a quote comprese fra 1.000 e 1.500 metri, e a quote superiori a 1.500 metri s.l.m.).

In letteratura il De Philippis ([9]) prevede per le pinete artificiali di pino nero turni intorno a 100 anni. Bernetti ([1]) dal punto di vista produttivo riporta 70 anni come età della culminazione dell’incremento medio per le pinete da rimboschimento e specifica come fino al 1990 le prescrizioni amministrative in Italia imponessero in genere un turno minimo di 70 anni.

Turni minimi sotto i 60 anni, quindi inferiori a quelli previsti dalla selvicoltura classica, si hanno attualmente in Umbria ed in Liguria (60 anni), in Lombardia e Friuli Venezia Giulia (50 anni) e in Toscana (40 anni). I regolamenti forestali regionali che prevedono turni molto brevi per i popolamenti artificiali di pino nero sono relativamente recenti (dal 1999 della Liguria ad oggi). In queste normative i turni minimi sono indicati espressamente in riferimento alla specie pino nero. Ad una prima analisi, in considerazione del fatto che le pinete di età inferiore a 60 anni si trovano per lo più in fase evolutiva giovanile (generalmente di giovane fustaia), spesso colturalmente non ancora pronte alla fase di rinnovazione/successione, ciò rifletterebbe la volontà gestionale del legislatore di incidere per favorire la rapida sostituzione delle pinete, riflettendo quel “fervore antipino” (efficace espressione coniata da [2]) che si è registrato negli ultimi decenni in Italia.

I tagli intercalari 

In merito ai tempi ed alle modalità di esecuzione dei tagli intercalari nelle fustaie coetanee, ed in particolare in quelle di pino nero, si registra una spiccata eterogeneità tra le diverse normative regionali. Nel tentativo di voler fare ordine tra le diverse disposizioni, si possono individuare due criteri fondamentali: la distanza minima tra le chiome delle piante superstiti (o la copertura delle chiome minima da rilasciare dopo gli interventi) e la percentuale di prelievo ammessa, in termini di numero di piante, di area basimetrica o di massa legnosa. Tuttavia, anche all’interno degli stessi criteri, le normative regionali prevedono valori soglia tra loro molto variabili.

Ad esempio, per quanto riguarda la “distanza tra le chiome delle piante superstiti” sono previste distanze non superiori a 0.70 m (Abruzzo, Molise), 1 m (Emilia Romagna, Liguria, Marche, Puglia, Sicilia), 1.5-2 m in Sardegna e 3.5 m nel Lazio, mentre le Regioni Calabria e Campania prevedono che le chiome, dopo i diradamenti, debbano essere a contatto tra loro. Più nel dettaglio scende il Regolamento forestale dell’Umbria, il quale prevede una distinzione tra diradamenti in boschi di età inferiore a 50 anni (distanza tra le chiome delle piante che rimangono in piedi non superiore a 1.5 m) e diradamenti in boschi di età superiore a 50 anni (distanza tra le chiome delle piante che rimangono in piedi non superiore a 3 m). In entrambi i casi il Regolamento prevede l’ammissibilità di eventuali aperture nella copertura delle chiome in un numero massimo di 5 per ettaro e, rispettivamente non superiori a 200 e 400 m².

Altre Regioni fanno riferimento al grado di copertura minimo da garantire a seguito degli interventi intercalari; in particolare la Regione Piemonte impone di rilasciare un grado di copertura minimo non inferiore al 50%, il Trentino Alto Adige dispone che gli interventi di diradamento assicurino comunque una copertura arborea superiore al 60% nell’area di intervento e la Regione Veneto prevede, più genericamente, che i tagli debbano di norma essere eseguiti in modo da evitare lacune nella copertura delle chiome.

Altre normative regionali individuano come criterio di riferimento per l’esecuzione degli interventi di diradamento la percentuale di prelievo ammissibile espressa sia in termini di piante sia in termini di area basimetrica o di massa legnosa asportata. A questo riguardo, mentre la Regione Lazio si limita a disporre che gli interventi di diradamento non possano prelevare più del 30% delle piante presenti, la Calabria, la Campania e, soprattutto la Toscana, hanno all’interno delle loro normative regionali indicazioni molto più dettagliate. La Regione Calabria, oltre a stabilire, come già sottolineato, che a seguito degli interventi di diradamento le chiome delle piante dominanti restino a leggero contatto tra loro, prevede per i boschi di età inferiore a 30 anni interventi di intensità inferiore al 15% dell’area basimetrica, mentre per gli interventi successivi (distanziati di almeno 10 anni uno dall’altro), e fino all’età di 60 anni, prelievi di intensità non superiore al 20% dell’area basimetrica. Il recente Regolamento regionale n. 3 del 2017 della Campania fissa, alle stesse età, percentuali di prelievo rispettivamente del 15-20% e del 20-30%.

Il Regolamento forestale della Toscana consente tagli di diradamento che comportino l’asportazione di un massimo del 40% delle piante vive presenti (25% ai margini del bosco) in modo, comunque, da determinare una copertura residua di almeno il 75%, quanto più possibile uniforme e senza creare rilevanti chiarie. Il Regolamento inoltre fa riferimento alla possibilità di diradamenti di tipo geometrico, con diverse modalità di esecuzione in funzione dell’età dei popolamenti nelle fustaie a densità colma che derivano da rimboschimento con impianto a file ed in cui tali file risultano ancora facilmente individuabili.

Il Regolamento forestale lombardo (che prevede per le formazioni di pino nero di origine artificiale un turno minimo di 50 anni), norma che i diradamenti siano permessi solo fino allo stadio evolutivo di perticaia, con la possibilità di tagliare fino al 50% delle piante o il 30% della massa legnosa.

Il recente Regolamento forestale dell’Emilia Romagna prevede, previa autorizzazione, la possibilità di eseguire diradamenti di fustaie coetanee con rilascio di piante le cui chiome siano distanziate tra loro tra 1 e 3 metri e con la percentuale di prelievo massima pari al 40% del numero delle piante; per distanze tra le chiome superiori a 3 metri e prelievi compresi tra il 40% e il 60% l’autorizzazione deve essere accompagnata da uno specifico progetto di utilizzazione. Il Regolamento specifica che nei giovani rimboschimenti la densità dopo il diradamento non debba essere inferiore a 800 piante ad ettaro (sfollo entro i 15 anni di età dell’impianto) e 600 piante ad ettaro (entro i 35 anni di età). Sono permessi anche diradamenti geometrici (a strisce o “a buche”) per facilitare la meccanizzazione degli interventi.

Altro aspetto importante, che concorre ad evidenziare la disomogeneità con cui le diverse Regioni italiane normano la materia, è l’età minima alla quale è possibile eseguire i diradamenti. I valori sono molto variabili: ad esempio, 15 anni (Liguria, Toscana), 20 anni (Basilicata, Sicilia), 25 anni (Abruzzo, Molise), 30 anni (Veneto, Friuli-Venezia Giulia). Diverse Regioni prevedono comunque la possibilità di eseguire sfolli e ripuliture, ovvero interventi che abbiano luogo prima di 10 anni di età, nei limiti delle esigenze colturali.

Maggiore corrispondenza tra le normative risulta esserci nei confronti dell’intervallo minimo di tempo tra un taglio intercalare ed il successivo (frequenza dei diradamenti), il quale è fissato generalmente in 10 anni (5 anni in Basilicata e Toscana).

Inoltre, è interessante notare come la maggior parte delle normative regionali preveda, con forme diverse da regione a regione, i “tagli di diradamento a carico di piante dominate, danneggiate o malformate, deperienti e soprannumerarie…” ad indicare quindi una predilezione nei confronti degli interventi selvicolturali a carattere fitosanitario o, comunque, di diradamenti di tipo basso. Si discostano da questa linea: (i) il Regolamento regionale n.11 del 2012 della Regione Umbria, il quale prevede la possibilità di interventi che abbiano lo scopo principale di aumentare la stabilità e l’efficienza funzionale “selezionando le piante migliori”; (ii) il Regolamento regionale n. 48 del 2003 della Regione Toscana, nel quale i tagli di diradamento hanno l’obiettivo di “rilasciare le piante di migliore sviluppo e conformazione candidate a costituire la fustaia matura”, facendo intendere la possibilità di una “selezione positiva”, in fase di diradamento, da parte del selvicoltore; (iii) il Decreto P.G.R. n. 247 del 2012 del Friuli-Venezia Giulia, nel quale è prevista all’Art. 27 la possibilità di diradamenti definiti “selettivi” i quali consistono nello “scegliere i soggetti migliori e togliere quelli vicini che, prima del successivo intervento, entrano in concorrenza con quelli scelti”; (iv) il Decreto del Presidente della Provincia di Trento n. 8 del 2011, nel quale l’allegato 1 “Buone tecniche colturali per i beni silvo-pastorali della provincia di Trento” definisce il “dirado selettivo”, ovvero una tipologia di diradamento che ha come scopo quello di ridurre “la densità del popolamento con gli obiettivi sia di rafforzarne la stabilita rispetto alle avversità climatiche e biotiche, sia di selezionare determinati alberi su cui si concentra la produzione e si articola la struttura, nonché di eliminare le piante compromesse o di favorire l’insediamento e l’affermazione della rinnovazione”.

Nessuna Regione pone limiti rispetto all’epoca dei tagli intercalari.

Dal punto di vista selvicolturale, la differenza fondamentale delle misure previste per i diradamenti sta tra le normative che prevedono specifiche modalità di prelievo (sia dal punto di vista della classe sociale delle piante da tagliare, sia in termini di percentuale di prelievo) e quelle che prevedono definite strutture del popolamento post intervento (soprattutto a carico del piano delle chiome).

Nell’ultimo decennio alcune normative regionali tendono a superare il classico schema dei diradamenti dal basso, offrendo la possibilità di “selezionare” il soprassuolo tramite il diradamento, favorendo i migliori fenotipi. D’altro canto, altre recenti normative regionali prevedono per le modalità e le intensità di prelievo dei diradamenti misure maggiormente ispirate a principi di cautela.

È interessante notare come proprio le Regioni che permettono il diradamento selettivo nei popolamenti artificiali di pino nero, sono quelle che prevedono pure il turno più breve. Se da un lato la selezione positiva a favore delle specie consociate permette di favorire le piante portaseme per la successione naturale della pineta (vedi ad esempio il Regolamento forestale della Toscana, che prevede il rilascio di tutte le latifoglie autoctone in buono stato vegetativo), dall’altro la selezione dei pini più vigorosi, vista la naturale longevità del pino nero, permetterebbe di avere una fustaia in buono stato vegetativo per un lungo periodo di tempo ([1]).

Anche rispetto all’intensità degli interventi intercalari si evidenzia una notevole variabilità nelle normative regionali. In riferimento, ad esempio, alla percentuale massima di piante asportabili in fase di diradamento si passa dal 15% (Calabria) al 40% (Toscana, Emilia Romagna), in entrambi i casi indipendentemente dalla densità iniziale dei soprassuoli e dal fatto che questi abbiano subito o meno interventi intercalari precedenti. Solo poche Regioni definiscono l’intensità ammissibile di prelievo in termini di area basimetrica o volume. Questi parametri, pur essendo più difficili da verificare in fase di controllo dell’esecuzione degli interventi, risulterebbero più utili dal punto di vista selvicolturale in quanto più efficaci nel descrivere la modalità di diradamento eseguita.

Le normative regionali che valutano la struttura del piano delle chiome e gli effetti su di esso dopo gli interventi intercalari risultano particolarmente interessanti. Prendere in considerazione gli interventi selvicolturali non solo dal punto di vista quantitativo ma anche qualitativo è sicuramente un approccio selvicolturalmente più corretto. Rimane il limite della difficoltà di controllo dei parametri strutturali del bosco post-intervento (valutazione della distanza tra le chiome, misurazione della superficie dei gap nella copertura arborea, ecc.).

I tagli di maturità 

Non tutte le legislazioni regionali italiane specificano le modalità dei tagli di maturità espressamente per il pino nero. In particolare, il livello di dettaglio riguardo il trattamento specifico per le fustaie di pino nero è espresso nelle legislazioni di Friuli-Venezia Giulia, Calabria, Campania, Lombardia, Puglia e Liguria. Un livello di dettaglio riguardo i popolamenti artificiali di conifere si ha nella legislazione di Toscana, Marche, Sicilia, Lazio, Piemonte ed Emilia Romagna. Le altre Regioni fanno riferimento ad un generico trattamento per i boschi di alto fusto indipendentemente dalla loro composizione specifica. Nelle norme delle Regioni che prescrivono le modalità dei tagli di maturità relativamente alle pinete ed alle fustaie di conifere, il trattamento ricalca quello generalmente previsto per i metodi selvicolturali classici delle le fustaie coetenanee e monoplane ([21], [9], [22], [1], [6], [4]).

Le legislazioni regionali non pongono limiti rispetto all’epoca di taglio per le utilizzazioni delle fustaie, eccetto il Lazio che prevede che gli interventi siano consentiti nel periodo compreso tra il 1 ottobre e il 15 aprile.

I tagli raso

La maggior parte delle normative regionali in materia di esecuzione dei tagli raso fa riferimento genericamente alla categoria boschi di alto fusto, indipendentemente dalla specie.

Alcune Regioni vietano espressamente a livello di legge forestale la possibilità di effettuare il taglio raso a fine turno nei boschi di alto fusto. Il taglio raso delle fustaie è vietato in Abruzzo (L.R. n. 3 del 2014), salvo quando finalizzato al ripristino di habitat naturali elencati nell’allegato I della Direttiva 92/43/CEE e quando volto al “restauro forestale di boschi ed aree degradate”. Attualmente, in attesa del regolamento attuativo della Legge, vige quanto previsto dalle P.M.P.F. che prevedono il taglio raso in rispetto ai turni e alle modalità previste dalla legge.

La Calabria vieta il taglio raso (L.R. n. 45 del 2012), tranne quando previsto da piani di gestione approvati, per difesa fitosanitaria o per motivi di rilevante interesse pubblico.

Il taglio raso è vietato in Umbria, salvo gli interventi ai fini della difesa fitosanitaria o disposti dalla Regione per altri motivi (L.R. n. 28 del 2001).

A livello di regolamento forestale il taglio raso è vietato in Campania e in Lombardia, laddove le tecniche selvicolturali non siano finalizzate alla rinnovazione naturale (la rinnovazione artificiale è obbligatoria se entro un anno dalla fine del taglio di utilizzazione ci si trovi in assenza di rinnovazione naturale).

In Veneto è di norma escluso il taglio raso, ad eccezione: “(i) delle fustaie di specie a rapido accrescimento; (ii) dei boschi in particolari situazioni fitopatologiche, di rinnovazione e comunque per comprovate ragioni tecniche su insindacabile giudizio dell’Ispettorato Ripartimentale delle Foreste” (P.M.P.F.).

Il taglio raso è permesso secondo diverse modalità per i boschi di alto fusto di tutte le specie dalle Regioni; Liguria: su superfici inferiori a 2.000 m2, distanza minima tra le tagliate 50 m periodo minimo tra tagliate contigue di 20 anni e - nel caso in cui la rinnovazione naturale “risulti improbabile” - è prescritta la rinnovazione artificiale (P.M. P.F.); Marche: su superfici inferiori a 5.000 m2 (P.M.P.F.). Nelle Regioni Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia secondo le P.M.P.F. il taglio raso si effettua “con rispetto dei turni minimi stabiliti e secondo le modalità previste dalla legge o dai rispettivi servizi forestali regionali; gli appezzamenti di bosco nei quali è eseguito il taglio raso debbono essere sgombrati ed anche rimboschiti, qualora non si verifichi la rinnovazione naturale”.

In Toscana (Reg. n. 48 del 2003) i tagli raso sono permessi purché: “(a) siano finalizzati alla rinnovazione naturale; (b) siano previsti da piani di gestione, da piani di taglio o di assestamento regolarmente approvati e in corso di validità; (c) siano effettuati ai fini della difesa fitosanitaria o siano motivati dalle caratteristiche di instabilità e senescenza del soprassuolo associate ad assenza di rinnovazione naturale e alla prevedibile assenza della stessa a seguito dell’esecuzione di tagli successivi; (d) siano motivati da interesse pubblico e in particolare da finalità paesaggistiche quando il taglio a raso costituisce l’unico intervento selvicolturale di utilizzazione idoneo a mantenere una determinata tipologia di fustaia di particolare rilevanza storica, ambientale e paesaggistica. L’estensione massima delle tagliate è pari a 3 ettari con distribuzione delle tagliate tale da evitare la contiguità tra le tagliate prima di 5 anni (o 100 m di larghezza tra tagliate). È necessario il progetto di taglio ed il richiedente deve impegnarsi ad eseguire, entro l’anno silvano successivo a quello del taglio, la rinnovazione artificiale del soprassuolo”. In Emilia Romagna il taglio raso è permesso purché sia garantita una adeguata distribuzione nello spazio delle tagliate e “siano già presenti nel piano sottoposto semenzali e novellame o, in assenza di rinnovazione preesistente, si potrà intervenire solo entro una distanza inferiore a 40 metri da adiacenti aree boscate di margine costituite da piante mature o comunque in grado di fruttificare e riprodursi”. In assenza di rinnovazione naturale la tagliata dovrà essere rimboschita artificialmente.

Altre normative regionali fanno espresso riferimento al trattamento del pino nero (Friuli-Venezia Giulia) e dei rimboschimenti di origine artificiale (Lazio). In Friuli-Venezia Giulia la Legge n. 9 del 2007 vieta il taglio raso nelle fustaie su superfici superiori a 5.000 m2. Il D.P.R. n. 274 del 2012 per le pinete di pino nero però ammette il taglio raso, quando volto alla rinnovazione naturale su superfici inferiori ai 20.000 m2. In Lazio il taglio raso è consentito su superfici inferiori a 25.000 m2 nelle “fustaie coetanee a spiccato temperamento eliofilo e nei rimboschimenti di origine artificiale”, per favorire l’affermazione della rinnovazione naturale (Reg. n. 7 del 2005). A tre anni dall’intervento in assenza di rinnovazione naturale è obbligatoria la rinnovazione artificiale.

Tagli a buche o a strisce

Nove Regioni menzionano, espressamente, nelle loro legislazioni la possibilità di intervenire con tagli di rinnovazione del tipo “a buche” o “a strisce”.

Tra queste, solo tre (Calabria, Friuli-Venezia Giulia e Lombardia) fanno riferimento espressamente ai boschi di pino nero. In particolare, la Calabria prevede, nelle P.M.P.F., che al fine di favorire la rinnovazione naturale nelle fustaie di pino laricio di popolamenti con provvigioni superiori a quella “minimale” pari a 250 m3/ha, si possa intervenire con “tagli a scelta a piccoli gruppi” in modo da creare vuoti di norma inferiori a 200 m2. Le percentuali di prelievo ammesse hanno soglie variabili dal 10% al 25% in funzione di rapporti tra provvigione reale e “provvigione minimale”. La norma inoltre prevede che nei “rimboschimenti di pini e di altre conifere esotiche, gli interventi dovranno favorire l’insediamento e lo sviluppo delle latifoglie autoctone”.

In Friuli-Venezia Giulia il Regolamento forestale prevede per le fustaie di pino nero di età superiore a 60 anni, o con diametro dominante superiore a 30 cm, la possibilità di eseguire tagli a buche o strisce non superiori a 3.000 m2 (1.500 m2 nelle zone con pendenza superiore al 70%). Nelle aree interposte fra due tagliate, distanziate tra loro almeno 70 metri, è consentito prelevare un soggetto ogni tre scelto fra i peggiori, con diradamento basso di intensità pari al 30% del numero delle piante. Il Regolamento forestale della Regione Lombardia prevede per le formazioni di pino nero di origine artificiale la possibilità intervenire mediante tagli a buche di superficie non superiore ad 1 ettaro.

Altre Regioni - Campania, Marche e Toscana - prevedono interventi a buche o a strisce nelle fustaie di conifere di origine artificiale. Nello specifico il Regolamento forestale della Campania prevede la possibilità di intervenire con tagli a buche (“gruppi”) o a strisce nei rimboschimenti di conifere di età superiore a 60 anni, indicando comunque che dovranno essere preferiti “tagli successivi (a piccole buche o a strisce) al fine di ottenere una maggiore diversificazione strutturale dei popolamenti coetanei”. La Regione Marche, pur consentendo tagli raso a buche o a strisce finalizzati alla diffusione di specie autoctone (P.M.P.F.) dispone che questi non abbiano superficie superiore a 5.000 m2, e prevede inoltre il versamento di una specifica somma di importo pari al costo delle presunte spese di rinnovazione che potrà essere svincolata dopo 3 anni dall’intervento, una volta accertata la presenza della rinnovazione. Inoltre, nelle fustaie artificiali a prevalenza di conifere il taglio a raso, con eventuale rilascio di riserve, potrà essere effettuato a buche o strisce di ampiezza non superiore al doppio dell’altezza delle piante dominanti (la forma e la distribuzione delle buche è stabilita caso per caso). Il Regolamento forestale toscano ammette, nelle fustaie di conifere di origine artificiale, il trattamento a tagli a buche o a strisce, su superfici di estensione inferiore ad 1 ettaro, al fine di “ottenere con la rinnovazione naturale o artificiale il mantenimento del soprassuolo”. La legge dispone, nei casi in cui sia prevedibile il mancato o insufficiente insediamento della rinnovazione naturale a seguito degli interventi selvicolturali, l’obbligo di ricorrere alla rinnovazione artificiale da eseguirsi con le specie del soprassuolo maturo.

Infine, il Trentino Alto-Adige (provincia di Trento), l’Umbria ed il Piemonte prevedono la possibilità di eseguire tagli a buche nei boschi d’alto fusto rispettivamente: (i) su superfici non superiori al 30% dell’area di intervento (Provincia di Trento); (ii) su superfici non superiori al 25% dell’area di intervento e con buche di ampiezza massima di 2.000 m2 (Umbria); (iii) su superfici non superiori al 30% dell’area di intervento e con buche di ampiezza massima di 3.000 m2 (Piemonte)

Tagli successivi

Specifico riferimento ai boschi di pino nero rispetto al trattamento per tagli successivi viene fatto laddove il taglio di sementazione viene normato rispetto al rilascio di una “provvigione minimale”. In Liguria (artt. 31 e 32 delle P.M.P.F.) per i boschi di pino nero e laricio è previsto il rilascio di almeno 80 m3/ha, ed in ogni caso il taglio di sementazione non deve interessare le latifoglie presenti. In Puglia (Art. 42 delle P.M.P.F.) devono essere rilasciati almeno 230 m3/ha nei boschi di pino nero e laricio nelle province di Foggia e Taranto e 250 m3/ha nelle province di Bari, Brindisi e Lecce. In Sicilia (P.M.P.F.) è previsto il rilascio di almeno 100 m3/ha nei boschi di pino nero ed altre resinose in tutte le province tranne quella di Palermo, per la quale è prevista una provvigione minimale di 150 m3/ha per i boschi di conifere. In tutti i casi il taglio di sgombero, preceduto o meno da tagli secondari, è consentito solo quando la rinnovazione del bosco è “assicurata”.

Il Friuli-Venezia Giulia consente (Art. 30 del Reg. n. 274 del 2012) per le fustaie di pino nero che hanno un’età media non inferiore a 50 anni o con il diametro medio delle 100 piante di maggior diametro ad ettaro maggiore di 30 cm, il taglio di sementazione con rilascio di almeno 100 alberi per ettaro, scelti tra i migliori. Inoltre, nei boschi in cui si eseguono i tagli di maturità, sono sempre consentite le seguenti operazioni (Art. 28): “(a) il taglio dei soggetti di minore diametro sottomessi agli alberi dominanti di maggiore diametro; (b) il taglio parziale delle piante mature che limitano lo sviluppo della rinnovazione affermata; (c) il taglio integrale delle piante mature che sovrastano la rinnovazione affermata”.

Le normative forestali di altre Regioni hanno invece indicazioni di “provvigione minimale”, da rilasciare a seguito del taglio di sementazione delle fustaie, non specifiche per i boschi di pino nero: (i) nel Lazio (Art. 31 del Reg. n. 7 del 2005) la provvigione minima da rilasciare è pari a 150 m3/ha per i boschi di conifere, con estensione massima della tagliata pari a 5 ettari; (ii) in Piemonte (Art. 24 del Reg. n. 8 del 2011) la provvigione minima è di 90 m3/ha per le pinete con estensione massima delle tagliate non superiore a 10 ettari accorpati; (iii) nelle Marche (Art. 17 delle P.M.P.F.) si fa riferimento al caso di boschi a prevalenza di specie eliofile per i quali la massa da rilasciare non deve essere inferiore alla metà di quella totale; (iv) in Umbria (Art. 43 del Reg. n. 11 del 2012) si può asportare il 25% della massa in piedi presente, se è già stato eseguito il taglio di preparazione, ed il 30% se non è stato eseguito il taglio di preparazione; (v) in Emilia Romagna (Art. 28 del Reg. n. 244 del 2018) la provvigione minima da rilasciare per i boschi di pini è pari a 150 m3/ha.

Altre Regioni (Abruzzo, Basilicata, Lombardia, Molise, Sardegna, Toscana e Veneto) forniscono indicazioni circa le modalità di esecuzione dei tagli successivi nei boschi di alto fusto senza riferimento specifico né alle pinete di pino nero né alle fustaie di conifere.

Relativamente al taglio di sgombero, Toscana, Lazio ed Emilia Romagna fissano un periodo definito variabile dai 10 ai 20 anni, al termine del quale, in assenza di rinnovazione naturale è richiesta la rinnovazione artificiale. Altre Regioni definiscono concluso il periodo di rinnovazione allorquando essa stessa sia assicurata (eventualmente integrata con la rinnovazione artificiale). In Umbria il Regolamento considera rinnovato il bosco (e quindi consentito il taglio di sgombero) quando i valori di altezza della rinnovazione naturale sono compresi tra 1 e 2 metri.

La rinaturalizzazione dei popolamenti artificiali di pino nero

La gestione a favore della rinaturalizzazione dei rimboschimenti è oggi espressamente menzionata all’Art. 7 del Decreto Legislativo del 3 aprile 2018, n.34 (Testo Unico in materia di Foreste e Filiere forestali- TUFF), che prevede che “le Regioni favoriscono la rinaturalizzazione degli imboschimenti artificiali e la tutela delle specie autoctone rare e sporadiche, nonché il rilascio di piante ad invecchiamento indefinito e di necromassa in piedi o al suolo, senza compromettere la stabilità delle formazioni forestali e in particolare la loro resistenza agli incendi boschivi”.

Il riferimento al termine rinaturalizzazione di superfici boscate era comunque già presente nelle legislazioni regionali di Abruzzo, Calabria, Sardegna, Marche, Toscana, Campania, Piemonte e Friuli-Venezia Giulia.

Il significato e l’oggetto stesso della rinaturalizzazione hanno valenze non univoche nelle legislazioni regionali. Ad esempio, nelle leggi regionali di Lombardia e Molise il termine “rinaturalizzazione” è adottato non per definire un obiettivo selvicolturale, ma in riferimento ad operazioni di recupero di aree degradate (relativamente alla fornitura di materiale di propagazione per l’ingegneria naturalistica) e più in generale agli interventi di riqualificazione paesaggistica dello spazio rurale.

In Calabria, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia e Campania le normative fanno espresso riferimento alla “rinaturalizzazione” di rimboschimenti.

In tutti i casi in cui le norme menzionano il termine “rinaturalizzazione” non è però definita espressamente la modalità del trattamento. Fanno eccezione la normativa del Friuli-Venezia Giulia (Reg. 274 del 2012), nella quale si indicano modalità di trattamento specifiche per la rinaturalizzazione degli impianti di conifere a rapido accrescimento o per l’abete rosso, e quella della Campania nella quale si specifica che il trattamento selvicolturale nei rimboschimenti di conifere deve essere teso “prioritariamente” alla rinaturalizzazione, da eseguirsi tramite interventi assimilabili a “diradamenti selettivi”.

Il recente Regolamento forestale dell’Emilia Romagna all’art. 15 (“Rinnovazione anticipata dei boschi per mutarne la composizione specifica”) ammette il cambiamento della composizione specifica del bosco tramite il taglio su piccole superfici (inferiori a 0.5 ettari) e l’introduzione di specie autoctone per via artificiale qualora ci sia carenza di “rinnovazione naturale”. Laddove ci sia “rinnovazione naturale diffusa” è possibile effettuare interventi tesi a “mutare la composizione specifica” con l’accortezza di adottare tecniche di abbattimento ed esbosco tese a salvaguardare le specie autoctone del sottopiano. Gli interventi possono essere anticipati rispetto ai turni minimi stabiliti per il taglio raso. Nei rimboschimenti di conifere “alloctone deperienti” il taglio può essere permesso su superfici superiori.

Interventi volti alla diversificazione strutturale e compositiva e “tutela della biodiversità”

Alcune normative regionali prevedono per le fustaie coetanee trattamenti selvicolturali aventi come obiettivo quello di accrescere il loro grado di diversità strutturale e compositiva o di favorirne il processo di “disetaneizzazione”.

Le normative regionali della Calabria (P.M.P.F.) e delle Campania (Reg. For. n. 3 del 2017) favoriscono per le fustaie coetanee (in Campania con espresso riferimento a popolamenti coetanei di età superiore a 60 anni e fino all’età del turno) interventi eseguiti con criteri colturali tesi a favorire la diversificazione compositiva e strutturale, aumentare la stabilità dei popolamenti, favorire la rinnovazione naturale. In particolare, con tali interventi si dovrà operare per “liberare eventuali gruppi di rinnovazione affermata, ridurre la densità ove questa risulti eccessiva, per consentire un regolare sviluppo degli alberi, anche in relazione alle possibilità di fruttificazione, disseminazione e sviluppo dei semenzali, favorire l’accrescimento dei soggetti meglio conformati”.

In Toscana (Reg. For. n. 48 del 2003) ed in Emilia Romagna (Reg. For. n. 3 del 2018) nelle fustaie coetanee di qualunque specie, si ammettono tagli volti alla trasformazione del trattamento coetaneo in trattamento disetaneo con l’obiettivo a lungo termine di ottenere fustaie miste disetanee, favorendo la rinnovazione naturale ed aumentando la stabilità fisica e biologica del soprassuolo. Tali interventi dovranno essere eseguiti tramite tagli di selezione - distanti 10 anni l’uno dall’altro - che prevedano la permanenza di alberi di grosse dimensioni e favoriscano la rinnovazione naturale laddove presente, perseguendo in tal modo l’obiettivo di diversificazione della struttura verticale.

Nelle fustaie a struttura già disetaneiforme i trattamenti selvicolturali previsti dalla maggior parte delle Regioni prevedono il taglio colturale o a scelta da eseguire con “criteri essenzialmente colturali”. Il periodo di curazione varia generalmente tra i 10 e i 12 anni e la ripresa tra il 20% ed il 30% della massa presente al momento dell’intervento. Diverse Regioni fissano, per questo tipo di intervento, una “provvigione minimale” che per il pino nero varia da 80 m3/ha della Liguria a 250 m3/ha della Calabria. È importante sottolineare come quasi tutte le normative regionali definiscano “boschi irregolari” quei soprassuoli non “decisamente coetanei né disetanei” e prevedano per questi gli stessi trattamenti previsti per le fustaie disetanee.

Rispetto alle norme in materia di tutela ed incremento del livello di biodiversità la Regione Abruzzo prevede interventi mirati al “restauro forestale” per i “boschi degradati” ovvero “le formazioni forestali che a causa di disturbi di vario genere presentano indici biometrici notevolmente alterati e perdita della loro naturale resilienza e nei quali le funzioni ecologiche e sociali risultano notevolmente ridotte”. Le Regioni le cui normative prevedono misure espressamente dedicate a favorire la biodiversità sono: la Calabria (Art. 12 della L.R. n. 45 del 2012), il Friuli-Venezia Giulia (Art. 18 della L.R. n. 9 del 2007), Lazio (Reg. reg n. 7/2005). In Piemonte ed in Toscana le normative riconoscono il valore e la tutela delle specie spontanee sporadiche; a tal fine è previsto (in tutti gli interventi selvicolturali) il rilascio delle specie sporadiche (definite in apposite liste) qualora il loro numero non ecceda 20 ad ettaro.

Al fine di incrementare il livello di biodiversità molte normative regionali prevedono il rilascio di un certo numero di alberi da destinare ad invecchiamento indefinito (alberi habitat).

Rispetto alle modalità di trattamento ipotizzabili per i rimboschimenti artificiali di pino nero poche Regioni considerano il taglio raso con “rinnovazione artificiale posticipata” quale una delle opzioni gestionali realmente attuabili. Generalmente vengono privilegiati i trattamenti a favore della rinnovazione naturale (tagli raso su piccole superfici, tagli a buche, tagli a strisce, tagli successivi e interventi tesi alla “rinaturalizzazione”). Indipendentemente da considerazioni circa le modalità dei diversi trattamenti, alcune normative regionali definiscono un arco temporale eccessivamente breve affinché, a seguito dei tagli di maturità, si affermi la rinnovazione naturale. Ciò può costituire un limite dal punto di vista colturale e non consentire l’effettivo successo del trattamento selvicolturale applicato. Se a questo si aggiunge che le normative regionali prevedono in assenza di rinnovazione naturale (oppure qualora questa risulti “improbabile”) l’obbligo di ricorrere a rinnovazione artificiale, la rinnovazione naturale dei soprassuoli, anche se in apparenza privilegiata dalle leggi, risulta alla lunga un obiettivo difficilmente perseguibile.

In merito alle modalità di esecuzione dei tagli di maturità l’eterogeneità delle misure previste dalle diverse normative regionali è senza dubbio l’aspetto di maggiore criticità.

Le tagliate a raso, ove non espressamente vietate, hanno dimensioni e scopi assai variabili nelle diverse normative. Da valori massimi di superficie consentiti pari a 3 ettari della Regione Toscana, e 2.5 ettari del Lazio per i popolamenti artificiali di conifere, si passa a dimensioni molto più contenute previste dalla Liguria che permette tagliate a raso su superfici fino a 2.000 m2. In ogni caso le norme caldeggiano la rinnovazione naturale e, in assenza della quale a poche stagioni vegetative dal taglio, il ricorso alla rinnovazione artificiale. Parimenti, c’è una notevole discrepanza anche nella dimensione delle buche laddove sia permesso il trattamento a buche o strisce. In alcuni casi la dimensione massima delle buche supera quella che altre Regioni stabiliscono per le tagliate a raso (1 ettaro per Toscana e Lombardia). Altre legislazioni permettono buche di dimensioni esigue: ad esempio, in Calabria è prevista la possibilità di aprire lacune nella copertura arborea delle fustaie di pino nero di dimensione massima 200 m2 in fase di taglio colturale.

Notevole variabilità si ha pure nelle prescrizioni che fanno riferimento alle provvigioni minimali da rilasciare in seguito ai “tagli colturali”, i valori delle quali oscillano, per il pino nero, tra gli 80 m3/ha (Liguria) e i 250 m3/ha (Calabria).

Anche riguardo al trattamento per tagli successivi permangono le notevoli differenze tra regioni circa la modalità del taglio di sementazione delle pinete, sia nelle normative che fanno ricorso alle “provvigioni minimali” sia in quelle che definiscono i prelievi massimi in termini di percentuale di massa presente. In tutti i casi non si riscontrano specifiche direttive circa la modalità di esecuzione del taglio di preparazione, che parrebbe quindi assimilato ai normali diradamenti.

La scelta gestionale di “rinaturalizzare” le pinete appare nelle legislazioni forestali regionali più recenti (soprattutto nell’ultimo decennio). In effetti la “rinaturalizzazione” dei rimboschimenti in selvicoltura fa la sua comparsa nella letteratura forestale italiana negli anni ’90 del secolo scorso proprio riguardo i popolamenti artificiali di pino nero ([11], [14], [19], [17]). La definizione selvicolturale del trattamento per favorire la rinaturalizzazione riguarda soprattutto la modalità con cui il selvicoltore guida i fenomeni dinamici di successione, ovvero opera interventi atti a favorire esclusivamente il novellame già presente sottocopertura o la rinnovazione di specie autoctone che si insedieranno dopo gli interventi a carico della pineta ([15], [19], [18]), oppure la possibilità di operare anche interventi attivi per la rinnovazione, quali sottopiantagioni e rinfoltimenti, laddove la successione della pineta sia carente, o piantagioni di nuclei di portaseme ([5], [24]). Il processo di rinaturalizzazione non è mai definito in termini temporali.

Da notare che né Bernetti nel suo Atlante di Selvicoltura ([3]), né Piussi nel manuale “Selvicoltura generale” ([23]) citano il termine “rinaturalizzazione”. Un’analisi del processo di successione in pineta condizionato dalle scelte selvicolturali si ha invece in Del Favero ([10]).

Un possibile elemento di confusione terminologica su “rinaturalizzazione” nelle legislazioni forestali lo si ha laddove le leggi forestali normano anche altri aspetti ambientali quali il ripristino di aree degradate. In questo senso (vedi Art. 53 “Materiale forestale di base e di moltiplicazione” della L.R. Lombardia n.31 del 2008) per rinaturalizzazione si intendono, in senso ingegneristico-ambientale e di sistemazioni idraulico-forestali, le operazioni volte al ripristino a verde di aree nude (ad esempio aree di cava dismesse), ovvero opere di sistemazioni di sponde fluviali, coste marine ecc.

Discussione e conclusioni 

Nonostante i popolamenti artificiali di pino nero presentino caratteristiche strutturali simili in tutto il territorio italiano (derivano infatti da opere di rimboschimento effettuate, generalmente, come opera pubblica gestita dalla medesima amministrazione centrale con simili modalità di impianto) ed assolvano alle medesime funzioni (in primis la funzione originaria di protezione idrogeologica), le norme che regolano la loro gestione sono assai diverse tra Regione e Regione ed in particolare per tutte le fasi del trattamento selvicolturale, dal turno, alle cure colturali, fino agli interventi di utilizzazione.

Resta comunque elemento chiave per la gestione delle pinete, indipendentemente dalle limitazioni imposte dallo strumento legislativo, la possibilità di calibrare le scelte sul metodo e le modalità del trattamento selvicolturale attraverso lo strumento della pianificazione forestale. In assenza di tale strumento e della sua attuazione si assiste spesso alla realizzazione di interventi straordinari e urgenti o alla più frequente mancata gestione di questi soprassuoli, con un aumento della loro vulnerabilità e con il rischio concreto che non possano più assolvere alla loro funzione originaria. Ad accrescere i rischi per queste formazioni artificiali concorrono i profondi mutamenti climatici in atto, i quali si caratterizzano tra l’altro nell’aumento della frequenza ed intensità degli eventi metereologici estremi ([12]). Si evidenzia che la vulnerabilità ai fenomeni atmosferici e alle fitopatie aumenta progressivamente in assenza o in carenza di interventi gestionali di prevenzione ([16]). In questo contesto la gestione dei rimboschimenti di pino nero, per loro natura particolarmente vulnerabili, dovrebbe essere oggi prioritariamente volta a migliorare i parametri strutturali (densità, composizione specifica, distribuzione, ecc.), impedendo un’evoluzione che passi attraverso “crisi” della struttura nello spazio (schianti, incendi e attacchi parassitari su ampie superfici, diffuso deperimento e moria) e nel tempo (carenza di specie forestali autoctone atte alla rinnovazione naturale) in grado di compromettere le funzioni stesse per le quali il rimboschimento fu realizzato, ovvero la difesa e la protezione idrogeologica, o che adesso svolge (produttiva, paesaggistica, ambientale, turistico ricreativa). Inoltre, si deve considerare che il pino nero fu a suo tempo impiegato in quanto conifera pioniera in grado di assicurare oltre alla funzione protettiva anche quella di “preparazione” verso formazioni forestali maggiormente stabili, e dunque oggi la rinaturalizzazione delle pinete artificiali è giustificata in quegli ambiti dove sono già presenti processi di rinaturalizzazione e di insediamento di altre specie in condizioni potenzialmente promettenti a garantire la successione naturale.

Rispetto alle tecniche atte a garantire la rinnovazione o la successione delle pinete, un punto critico comune emerso dall’analisi delle legislazioni regionali riguarda la difficoltà nel normare il processo di rinnovazione naturale, generalmente di medio-lunga durata e comunque soggetto ad incertezze di successo. Si ritiene comunque importante, ai fini della “naturalizzazione” del pino o della successione delle pinete verso formazioni a maggior valore ambientale e resilienza ecologica, uno sforzo per calibrare gli aspetti normativi con le esigenze selvicolturali, in modo da limitare, laddove possibile, il ricorso alla rinnovazione artificiale.

Si ritiene infine auspicabile che si operi urgentemente uno sforzo per giungere ad una coerenza e unicità terminologica nelle definizioni delle modalità e degli obiettivi dei trattamenti selvicolturali previsti nella legislazione in materia forestale dalle diverse Regioni italiane. Tale sforzo rappresenta il primo passo per programmare indirizzi utili, non solo tecnici ma anche politici, per una ormai improcrastinabile gestione di questi popolamenti al fine di garantire la loro tutela e salvaguardia. Si auspica quindi una maggiore attenzione al problema non solo da parte delle Regioni ma anche dei ministeri competenti in materia forestale, a cominciare dal Ministero delle politiche agricole alimentari forestali e del turismo in materia di gestione, del Ministero dell’ambiente in materia di adattamento al cambiamento climatico e tutela della biodiversità e infine del Ministero dei beni culturali in materia di conservazione del paesaggio.

Ringraziamenti 

Lavoro realizzato nell’ambito del Programma Rete Rurale Nazionale - Scheda 22.2 Foreste e con il contributo del Progetto LIFE13 BIO/IT/000282 “Selvicoltura innovativa per accrescere la biodiversità dei suoli in popolamenti artificiali di pino nero” (SelPiBio LIFE)

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