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Urban forests at the time of COVID-19 protect us from fine dust

Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 17, Pages 48-51 (2020)
doi: https://doi.org/10.3832/efor3494-017
Published: May 06, 2020 - Copyright © 2020 SISEF

Commentaries & Perspectives

Abstract

In these days, the role that fine particles in urban areas could play in facilitating the pandemic spread of the COVID-19 virus is becoming increasingly important. It is also well known that exposure to air pollution and in particular to fine dust favors diseases involving the respiratory system. In this context of strong concern, we argue that urban forests can contribute to reduce the concentrations of particulates or in any increase their dispersion. Not all tree species have the same performance in removing particulates. In this short article, recent works are commented that classify urban forest species according to their ability to reduce particulate matter ambient concentrations, and we conclude highlighting the significant role that urban forests could play in improving air quality and human wellbeing in the future.

Keywords

Urban Forests, Air pollution, Particulate matter, PM2.5, COVID-19

Possibili legami tra particolato ed infezione da COVID-19 

I processi di deforestazione, urbanizzazione e frammentazione ecologica e del paesaggio, con le dovute differenze che esistono nelle diverse zone del pianeta, sono riconosciuti come predisponenti e ora determinanti nella trasmissione e fors’anche nella diffusione delle zoonosi. Ma che l’aria delle città non sia particolarmente buona non è una scoperta recente. A partire da venerdì 26 novembre 1948 quando una densissima nebbia iniziò ad avviluppare Londra e avvolse la città per 6 giorni, vi è una ampia letteratura scientifica sull’inquinamento nelle aree urbane e sulle problematicità che le diverse componenti inquinanti determinano per la salute e la qualità della vita dei cittadini ([7]). Fra questi, le polveri sottili sono fra le componenti maggiormente sotto attenzione nell’indagine sulle cause predisponenti ed i fattori di facilitazione della diffusione pandemica del virus COVID-19.

Uno degli effetti indiretti dei provvedimenti di contenimento del COVID-19 è stato quello di limitare il traffico veicolare e molte attività produttive, principali fonti di emissione di inquinanti atmosferici come ossidi azoto, ozono e polveri sottili. Sulla base delle osservazioni finora registrate, sembra possa esserci una correlazione tra la diffusione e la letalità dell’infezione da COVID-19 e il livello di inquinamento atmosferico cronico o acuto, anche tenendo conto di altri fattori confondenti ([9]). In effetti, aree come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, dove il virus ha presentato la maggiore diffusione, fanno registrare generalmente le maggiori concentrazioni degli inquinanti atmosferici misurati e controllati secondo quanto indicato e prescritto dalla legislazione di settore (DLgs 155/2010). È ben noto che l’esposizione ad inquinamento atmosferico ed in particolare alle polveri sottili, l’ozono e gli ossidi di azoto (NOx) favorisce malattie che coinvolgono l’apparato respiratorio e comunque determinano un peggioramento dello stato di salute, pur con numeri che sono difficilmente calcolabili. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WMO) riporta 7 milioni di morti premature all’anno (550.000 morti premature in Europa), numeri ben superiori ai decessi causati direttamente dal COVID-19. L’Agenzia Ambientale Europea (EEA) ogni anno produce un report sul rischio di decesso a causa dell’inquinamento basandosi su una fitta rete di centraline di monitoraggio dell’aria presenti nei diversi paesi, stimando per l’Italia circa 60.000 morti premature per esposizione a PM2.5. Questo infatti, subito dopo dieta, fumo, ipertensione e diabete pare essere un fattore di rischio tra i più importanti, e si stima causi ogni anno 2.9 milioni di morti premature in tutto il mondo (⇒ https:/­/­www.stateofglobalair.org/­report). Nel nostro paese, l’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del COVID-19 e l’inquinamento atmosferico deriva dall’elevata presenza di COVID-19 nella pianura padana riconosciuta come una delle aree geografiche più inquinate d’Europa ([5]). Un recente studio effettuato da ricercatori dell’Università di Bari, Bologna e Trieste, e dell’ateneo di Napoli “Federico II” ha anche riscontrato la presenza di materiale genetico del COVID-19 sul particolato atmosferico campionato in aree particolarmente affette dalla diffusione del virus nel nord Italia. Futuri studi dovranno stabilire se il particolato può essere vettore del virus nella sua forma attiva e se la traccia del virus riscontrata sulle particelle rappresenta una dose di inoculo sufficiente ad infettare.

Come possono aiutarci le nostre foreste urbane? 

Mentre ci si chiede in che maniera il particolato atmosferico possa essere associato alla diffusione e all’impatto del COVID-19, non possiamo che rilevare con certezza che vivere in aree urbane dove l’inquinamento atmosferico è elevato incide sullo stato di salute generale della popolazione, come rilevato da Soggiu e Settimo in un recente comunicato dell’Istituto Superiore di Sanità. Protagonisti nella lotta alla riduzione del particolato diventano gli alberi, i boschi e tutta la vegetazione urbana (Fig. 1), in grado di rimuovere una certa quantità di particolato atmosferico. In che modo? La frazione più grossolana del particolato (PM10) si deposita sulla superficie delle foglie, intrappolata su cuticole, cere e peli di cui molte foglie sono costituite, disperdendosi periodicamente con la pioggia e finendo per la maggior parte nel terreno o nell’acqua superficiale. La frazione più fine (PM2.5) può anche essere immagazzinata e successivamente degradata dalle foglie attraverso vie che coinvolgono gli stomi. Gli studi più recenti hanno messo in luce che la rimozione di particolato è direttamente proporzionale alla quantità di biomassa fogliare, pelosità e contenuto di cere. Inoltre condizioni meteorologiche favorevoli (precipitazione, radiazione solare, umidità, velocità del vento, temperatura e turbolenza) influenzano notevolmente la velocità di deposizione e quindi la capacità delle piante di migliorare la qualità dell’aria ([10]). Recenti campagne sperimentali all’interno di foreste periurbane presso la Tenuta Presidenziale di Castelporziano (Roma) e presso la riserva naturale di Bosco Fontana (Mantova) hanno consentito di misurare direttamente la deposizione di particolato grossolano e ultrafine, mettendo in risalto il ruolo di serbatoi di polveri sottili esercitato da questi preziosi ecosistemi forestali ([6], [4]).

Fig. 1 - Collezione di foto scattate dai soci SISEF all’interno del Parco del Valentino (Torino), città di Pisa, e all’interno della Tenuta Presidenziale di Castelporziano (Roma).

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Come è stato dimostrato, tracce del COVID-19 sono state riscontrate sul particolato atmosferico, ma anche nelle acque di fogna. Perché non utilizzare le foglie degli alberi su cui le polveri sottili si depositano come filtri naturali e quindi sentinelle di possibili focolai di infezione?

Quali sono le specie forestali che ci aiutano a sequestrate una maggiore quantità di particolato? 

Tra i diversi tipi di foresta urbana le differenze nella funzionalità di questo servizio ecosistemico sono legate soprattutto alla specie: le conifere possiedono una maggiore capacità di raccolta di polveri sottili rispetto alle foreste di latifoglie ([11]), grazie alle proprietà di questi alberi di possedere aghi fini e densamente distribuiti. Tra le latifoglie, Yang et al. ([12]) hanno sviluppato un metodo di classificazione per valutare una scala di idoneità alla rimozione del particolato fine delle specie di alberi più comuni in città. Fra le latifoglie, è stata sottolineata in particolare l’efficacia di gledizia (Gleditsia triacanthos), aceri (Acer spp.), platano (Platanus × acerifolia), tiglio (in particolare Tilia cordata) e betulla (Betula pendula). È quindi opportuno, dove l’obiettivo sia di massimizzare il sequestro di particolato, andare ad identificare una miscela di specie di conifere e latifoglie ad elevata efficienza di rimozione di particolato, al contempo ecologicamente coerenti, in grado di adattarsi alle caratteristiche climatiche degli ambienti urbani. Sono in corso studi ([8]) per definire strumenti più efficaci di scelta delle specie di alberi più idonee in programmi di selvicoltura urbana sulla base della loro propensione specifica a rimuovere particolato di varie dimensioni, in diverse stagioni e in base a diverse morfologie fogliari e di architettura delle chiome.

Sono pochi gli studi, soprattutto sul nostro territorio, che hanno avuto l’obiettivo di quantificare in che percentuale i boschi urbani riescono a rimuovere il particolato. In uno studio condotto a Firenze, Bottalico et al. ([3]) hanno evidenziato il contributo potenziale delle foreste urbane del capoluogo toscano nel rimuovere PM10. Nel caso specifico di Firenze, le foreste urbane - senza considerare gli alberi lungo i viali o quelli isolati o in piccoli gruppi in piazze, giardini oppure ambiti privati - possono contribuire a rimuovere fino al 15% del particolato presente in atmosfera. Recenti risultati su studi ancora in corso che coinvolgono i parchi urbani del Valentino (Torino) e di Castel di Guido (Roma), hanno dimostrato che un parco di circa 2 ettari annualmente riesce a rimuovere l’equivalente emissivo di almeno 176 autovetture euro 6 che percorrono mediamente 10.000 km in un anno. Se consideriamo il parco macchine che circola nelle nostre città, anche in previsione di una aumentata circolazione di autoveicoli dovuta alla scelta dei cittadini di limitare l’uso dei mezzi pubblici per non rischiare di esporsi al contagio, questi numeri possono sembrare esigui, ma se si valuta l’estensione del verde urbano e l’opportunità di aumentare la copertura forestale di ambiente urbano (oltre al Decreto Clima ci sono numerose altre iniziative in proposito, quali ad esempio ⇒ https:/­/­www.60milionidialberi.it/­), l’azione dei boschi urbani sulla rimozione di particolato acquisisce notevole rilevanza. Come osservato da Baró et al. ([1]), le foreste urbane abbattono il particolato di pochi punti percentuali se si confronta il livello di background con la quantità di particolato effettivamente rimosso dalle foglie, tuttavia dobbiamo considerare che i parchi urbani riescono a veicolare la dispersione del particolato lungo strade e margini dei parchi. L’effetto di dispersione del particolato alcuni giorni fa è stato trattato da Barwise & Kumar ([2]), che hanno messo in luce come una sapiente distribuzione del verde (ad esempio prevedendo una barriera verde alta almeno due metri composta da specie arboree e arbustive piantate ad elevata densità) riesce a creare ambienti a ridotta concentrazione di inquinanti a beneficio dei cittadini che vi transitano. Occorre dunque una adeguata progettazione ad opera di esperti di diverse discipline, come dimostrano recenti esperienze di ricerca, dalla COST Action Greeninurbs (⇒ http:/­/­www.greeninurbs.com/­), ai progetti europei del programma LIFE come VEG-GAP (⇒ https:/­/­www.lifeveggap.eu/­) che offrono ai cittadini strumenti di valutazione dei servizi ecosistemici, fino al recente progetto nazionale PRIN EUFORICC focalizzato sullo studio dei servizi ecosistemici forniti dal verde urbano.

Abbiamo focalizzato l’attenzione sul tema delle relazioni dirette fra la presenza di alberi, boschi e spazi verdi in città e l’incidenza del particolato per mettere in luce come città più verdi possano essere più efficaci nel diminuire la causalità e la vulnerabilità di diffusione epidemica. Non dimentichiamo però che foreste e alberi urbani hanno avuto e possono avere un ruolo importante nella gestione, non solo in fase preventiva ma anche in modalità di supporto terapeutico. La disponibilità e la possibilità di esposizione al verde ha un significato importante nella mitigazione di ansia e stress derivati dalla paura del contagio e dall’isolamento. Ha inoltre un ruolo fondamentale nell’assicurare la possibilità di praticare attività fisica più o meno informale in ambienti con migliore qualità dell’aria. Non è quindi casuale che l’importanza delle foreste urbane e di altri spazi verdi sia ulteriormente cresciuta nelle cronache durante l’attuale pandemia: la possibilità di frequentare liberamente parchi e aree verdi in città è diventata un’icona della libertà negata dalle misure di distanziamento sociale e di quarantena.

Conclusioni 

Concludiamo con una raccomandazione: il patrimonio di verde urbano italiano può e deve essere ampliato non solo per fronteggiare l’attuale emergenza sanitaria, ma anche per un miglioramento della più ampia qualità della vita urbana. Realizzare e mantenere foreste urbane costa relativamente poco e potrebbe attivare una filiera di green jobs efficace anche in grado di riassorbire nel contesto lavorativo parte dei disoccupati determinata dall’emergenza sanitaria che stiamo vivendo.

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