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Riflessioni su paesaggio forestale e tutela dei beni culturali

Forest@ - Rivista di Selvicoltura ed Ecologia Forestale, Volume 17, Pagine 109-113 (2020)
doi: https://doi.org/10.3832/efor3690-017
Pubblicato: Nov 05, 2020 - Copyright © 2020 SISEF

Commenti & Prospettive

Abstract

According to the European Landscape Convention (ELC), a landscape means “an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors”. Therefore, both human actions and natural processes play a role in shaping the landscape, which is, by this definition, ever changing. “Protecting” the landscape therefore means understanding, accepting and preserving such agents of change that have created it. Conversely, protective measures should not be designed to “freeze time”, nor to restore natural or human-influenced landscape features that have long ceased to exist. These basic concepts, delineated 20 years ago in Florence, are met in some parts of Italy by a dubious interpretation. Landscape protection agencies (Soprintendenze Archeologia Belle Arti e Paesaggio) seem to be oriented towards stopping or limiting the traditional activities that have shaped the current Italian forest landscape, with the purpose of increasing the forest cover for “aesthetic” reasons. Such narrow view contradicts the aims of the ELC and of the related national rules and mechanisms of landscape conservation.

Keywords

Landscape, Coppice, Chestnut, Silviculture, Landscape Constraint

 

Esattamente 20 anni orsono è stata firmata la Convenzione Europea del Paesaggio[1] (CEP), che è stata ratificata dallo Stato italiano nel 2006 (L. 14, 9 gennaio 2006). Secondo questa Convenzione il “Paesaggio” designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni. Queste interrelazioni hanno modificato nel tempo, anche profondamente, il “contesto naturale” (che avremmo in assenza della presenza e dell’azione dell’uomo) per dare vita al “paesaggio” ([14]). Nella prospettiva della CEP, poi ripresa all’art. 131 del Codice Urbani (CU - DL 22 gennaio 2004, n. 42)[2] la componente culturale del paesaggio, sintetizzata dalle azioni, dirette e indirette, e dalle decisioni (trasformative o conservative) delle comunità umane, è quindi fondamentale. Potremmo dire imprescindibile.

Un ulteriore passaggio fondamentale della convenzione è l’assunto che il “paesaggio” non sia statico, bensì dinamico, e quindi oggetto e soggetto di trasformazioni nel breve e nel lungo periodo. Infatti da un lato la “componente naturale” del paesaggio è sempre dinamica, con cambiamenti dai tempi lunghissimi (come quelli geologici), graduali (come i processi di successione innescati dai disturbi naturali o antropici) o anche repentini (come quelli di una frana o di un’eruzione vulcanica, o del crollo degli alberi di una foresta in seguito a disturbi da vento). Dall’altro, anche l’uso del suolo da parte dell’uomo e le sue esigenze economiche e sociali sono soggetti a mutamenti nel tempo, alla stregua di quelli che riguardano i fattori e dei processi ecologici.

Il valore del “paesaggio”, tutelato anche dall’art. 9 della Costituzione Italiana, consiste quindi proprio nelle relazioni intime fra componenti naturali ed antropiche in una prospettiva “culturale”.

Gli ambienti naturali a basso o nullo impatto antropico sono certamente importanti per i loro valori naturalistici, ecologici, culturali e scientifici. Inoltre costituiscono ambiti referenziali preziosissimi per comprendere quanto intensamente l’azione dell’uomo abbia modificato le funzionalità ed i processi naturali e, in modo ancor più importante, ci aiutano a comprendere la direzione, il significato e la reversibilità delle trasformazioni indotte ([20]). Essi sono quasi scomparsi in ampie parti del mondo, in particolare dove l’uomo è presente da tanto tempo e dove la densità di popolazione è elevata. La conservazione dei “lembi” di territorio naturale e seminaturale, quando presenti, è quindi una priorità assoluta, ma non può e non deve essere confusa o sovrapposta con la conservazione/valorizzazione dei paesaggi. Si tratta di ambiti ben distinti anche se in stretta relazione fra loro.

L’attuale paesaggio italiano, in particolare quello forestale, è di origine culturale ([3]) ed è eredità e parte integrante di quel paesaggio modellato dall’uomo che i viaggiatori d’Europa hanno iniziato ad apprezzare fin dal Rinascimento per poi portare all’esperienza del Grand Tour nell’ambito della quale, a partire dal XVII secolo, proprio quel “paesaggio culturale” è ampiamente descritto e ammirato. È il paesaggio per cui l’Italia è famosa nel mondo, al pari dei suoi monumenti e delle sue città d’arte, e che produce valori economici grazie ad attività quali il turismo rurale e l’agriturismo. Già nel periodo romano erano rare le foreste ancora considerabili come “primeve”. E se da un lato la conservazione della biodiversità e la mitigazione della crisi climatica richiedono senz’altro una gestione forestale responsabile e attenta a questi aspetti, dall’altro l’idea astratta di “ritorno alla natura” su cui si appoggiano alcune delle attuali correnti di pensiero ambientalista, ma che ha preso corpo già dalla fine dell’800, è stata artificiosamente sovrapposta alla matrice culturale del paesaggio italiano.

Contrariamente ai luoghi comuni, l’interazione dell’uomo con il sistema naturale ha addirittura contribuito a creare anche aree ad elevata biodiversità, oggi tutelate dalla Rete Natura 2000 ([7]). Certamente, conciliare le esigenze del paesaggio, della biodiversità, del clima e della produzione di beni non è sempre facile, anche perché in Italia esiste un mosaico di competenze che richiede una delicata azione di coordinamento ([19]). Infatti, mentre la competenza primaria relativa al paesaggio spetta al Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo (e quindi alle Soprintendenze), le normative e le politiche ambientali di conservazione della biodiversità (che oltre alle Aree Natura 2000 comprendono tutto il sistema delle aree protette) sono competenza primaria del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, mentre la competenza primaria degli aspetti patrimoniali è delle Regioni e delle Province Autonome, con il coordinamento del Ministero delle politiche Agricole, Alimentari e Forestali.

Nella regione mediterranea, il bosco ceduo rappresenta una delle principali interazioni dell’uomo con il sistema naturale ed è utilizzato fin dal periodo etrusco-romano. L’intensità e la frequenza dei tagli è stata, in diversi periodi storici, molto superiore a quello attuale o a quello degli ultimi decenni. A titolo di esempio, Lorenzo Carniani nel 1772 protestava contro la riduzione del turno dei boschi cedui da nove a sette anni introdotta delle leggi del Granducato di Toscana. Non solo il taglio era più intenso, ma il bosco era sempre abbinato alla pastorizia. Nel Granducato di Toscana nella prima metà del 1800 i cedui occupavano notevoli superfici ed erano strettamente connessi al pascolo. Sono infatti descritti molti boschi il cui prodotto principale è il seme - ghianda, faggiola - destinato all’alimentazione animale.

La macchia mediterranea della costa toscana così come altri tipi di vegetazione forestale, alcuni dei quali oggi tutelati dal piano paesaggistico, sono originati da pratiche di ceduazione secolari. Il paesaggio dominante fino alla metà del XX secolo, era costituito da paesi contornati di campi coltivati e da boschi in lontananza. Anche l’agricoltura era molto più diffusa tanto che, come si può ancora oggi osservare in molti paesi in via di sviluppo, c’era una forte interconnessione e a volte sovrapposizione tra il bosco ed i terreni agricoli. Viene infatti riportato l’obbligo in alcuni casi (Statuto di S. Gimignano) di innestare meli e peri e di favorire la crescita dei noccioli presenti nel bosco. Una pratica non infrequente era la temporanea coltivazione dei terreni boscati dopo il taglio. Il termine “cetine” o “cesine” in Toscana come in molte località dell’Italia meridionale, indica la presenza di boschi cedui in cui era uso bruciare gli arbusti e i residui del taglio per praticare temporaneamente la coltura agraria e, in questo modo, sfruttare la fertilità accumulata dal bosco. Tale pratica implica che la presenza di boschi radi o molto radi, magistralmente dipinta da Giovanni Fattori e dai pittori macchiaioli, fosse dovuta anche alla coltivazione agraria praticata successivamente al taglio di maturità oltre che all’esercizio del pascolo (Fig. 1). Dalla lunga storia di questa pratica forestale tradizionale si comprende non solo come il paesaggio forestale italiano sia essenzialmente un prodotto culturale, ma che il paesaggio del bosco ceduo è il prodotto di una sedimentazione storica di lungo periodo, considerabile come un tratto identitario della cultura delle popolazioni locali, rappresentando esattamente il senso della definizione di paesaggio della CEP e dell’articolo 9 della Costituzione Repubblicana ([16], [23], [22], [18], [1], [4], [5], [17], [9], [13], [2]).

Fig. 1 - Il bosco nel paesaggio storico toscano dipinto dai pittori macchiaioli è sempre un bosco aperto, alternato a campi, prati e con la presenza costante dell’elemento umano (Serafino De Tivoli, Paesaggio “seconda maniera”, Collezione privata - fonte: ⇒ https:/­/­www.pandolfini.it/­it/­asta-0275/­serafino-de-tivoli.asp).

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A questo occorre aggiungere che la copertura forestale in questo ultimo secolo è più che raddoppiata passando da circa 5 a circa 11.5 milioni di ettari (Fig. 2). Il paesaggio tradizionale, con una forte integrazione e sovrapposizione tra bosco, zone agricole e zone aperte pascolive, è stato gradualmente occupato dal bosco che ha attualmente una copertura che non era mai stata raggiunta nell’ultimo millennio ([12]). Ciò va a detrimento della principale caratteristica storica del paesaggio italiano, quella di essere un mosaico di usi del suolo da cui discende non solo la sua straordinaria diversificazione ma anche la sua biodiversità, che UNESCO e Convention on Biological Diversity (CBD) nella dichiarazione di Firenze del 2014 hanno definito “diversità biocolturale”, distinguendola da quella presente in altre zone del mondo dove la presenza dell’uomo è stata meno pervasiva[3]. È dunque evidente che “la conservazione del paesaggio” (sensu CEP - CU) non solo “è compatibile” ma “necessita” della continuazione delle attività agricole e forestali tradizionali in quanto è l’abbandono colturale a comportare la rapida “perdita del paesaggio tradizionale”.

Fig. 2 - Aumento di copertura forestale in Italia negli ultimi 180 anni ([12]). La copertura forestale e quasi triplicata nell’ultimo secolo. L’aumento del bosco è legato all’abbandono dei terreni agricoli marginali, accompagnato negli ultimi decenni anche dalla diminuzione del prelievo.

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Sulla base del quadro delineato è quindi sorprendente leggere in un parere rilasciato da una Soprintendenza toscana per interventi in ceduo di castagno (in riferimento all’articolo 136 del Codice Urbani): “nel caso non auspicabile che si voglia continuare nel governo a ceduo, si ritiene opportuno il «ceduo composto», considerato come una terza forma di governo del bosco, oppure come una variante del ceduo o della fustaia. Tale sistema selvicolturale, infatti, meglio risponde ad esigenze estetiche, poiché attenua la discontinuità delle chiome, grazie al più elevato numero di matricine rilasciate e alle loro maggiori dimensioni, e si avvicina probabilmente di più al sistema selvicolturale storico di gran parte dei boschi della Toscana, prima della loro massiccia conversione a ceduo iniziata a partire dalla seconda metà del XIX Secolo. In ogni caso, non ceduo semplice o matricinato”.

In riferimento al citato parere della Soprintendenza, avanziamo alcune considerazioni:

  1. Per difendere un paesaggio culturale di grandissimo valore il parere della Soprintendenza propone, sulla base di un “criterio estetico”[4], di attenuare la discontinuità delle chiome (e quindi aumentare la copertura forestale), e definisce “non auspicabili” quelle pratiche tradizionali che hanno portato alla creazione dello stesso paesaggio tutelato sensu CEP e CU.
  2. Per giustificare la cessazione delle pratiche tradizionali la Soprintendenza prende come riferimento un paesaggio della metà del XIX secolo. Questo riferimento non è storicamente corretto (la storia del paesaggio forestale della Toscana non trova conferma nelle interpretazioni della Soprintendenza) e non trova alcuna giustificazione nella legge. Il parere non tiene conto delle Raccomandazioni relative all’applicazione della Convenzione del paesaggio (CM/Rec(2008)3[5] che al punto 1.5 citano “Misure di protezione non devono essere designate per ripristinare caratteristiche naturali o antropiche che non sono più presenti”. Utilizzare il paesaggio (per altro non correttamente descritto) della metà del XIX secolo, o di ogni altro periodo del passato, come riferimento è una modalità che è in palese contraddizione con la CEP.
  3. La Soprintendenza propone come modelli colturali la conversione dei cedui all’alto fusto e il ceduo composto. Dai documenti storici disponibili per la Toscana il governo ad alto fusto non è mai stato utilizzato nei boschi di castagno (diverso è l’utilizzo dei castagneti da frutto che per la legislazione italiana non sono bosco), mentre l’utilizzo del ceduo composto è stato nel passato sporadico ed utilizzato in categorie forestali diverse dal castagneto (Fig. 3).
  4. Fig. 3 - Il prodotto tradizionale dei cedui di castagno del monte Amiata è la paleria. La produzione di paleria di castagno non solo è funzionale alla conservazione del paesaggio tradizionale del Monte Amiata ma anche al mantenimento di altri paesaggi tradizionali toscani, come ad esempio i vigneti del Chianti che utilizzano questo prodotto.

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  5. La Soprintendenza associa il ceduo composto alla “attenuazione della discontinuità” della copertura delle chiome, fatto che non corrisponde alla realtà dal punto di vista tecnico, applicativo e gestionale. Il ceduo composto ([15]) è un tipo di governo che prevede la coesistenza nello stesso soprassuolo di individui di origine agamica ed individui di origine gamica. Per la componente di origine agamica (la parte a ceduo) si effettua una ceduazione semplice, cioè al momento dell’utilizzazione si tagliano tutti i polloni presenti sulle ceppaie. Per la componente di origine gamica (alto fusto) si prevedono interventi assimilabili ai tagli di curazione in quanto questa componente è suddivisa in 3-5 classi di età. Al termine dell’utilizzazione (che prevede sia la ceduazione che il taglio di curazione) sul soprassuolo restano un numero di “allievi” (polloni) variabile da 70 a più di 100[6]. Quindi dopo l’utilizzazione del ceduo composto la copertura residua non è sostanzialmente diversa da quella rilasciata in un ceduo matricinato (Fig. 4).
  6. Fig. 4 - Castagneti del Monte Amiata a turno lungo che producono pali di grandi dimensioni e travi. Questi boschi a maturità hanno una densità ed una struttura simile a quella dei boschi d’alto fusto.

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  7. Le modalità operative proposte dal parere non sono sostenibili dal punto di vista economico e sono avulse dal tessuto sociale. Nel preambolo della CEP è indicato che “il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica, e che, se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro”. Al contrario, una delle conseguenze dell’applicazione delle modalità operative proposte dalla Soprintendenza potrebbe essere la chiusura di ditte ed aziende legate alla filiera legno, la perdita di posti di lavoro e di benessere nelle comunità locali[7], oltre ad un abbandono delle attività tradizionali che sono, in ordine di importanza, il primo elemento necessario per la conservazione del paesaggio.
  8. Il lemma “ceduo composto” non solo non è pertinente alla ricostruzione storica ma non è citato neppure una volta nel “Piano di Indirizzo territoriale con valenza di Piano Paesaggistico”[8] della Toscana sia nel capitolo “I paesaggi rurali storici della Toscana” e sia nel capitolo “Ambito 19. Amiata”. In quest’ultimo capitolo, al contrario, il Piano indica come primo “obiettivo di qualità” quello di “salvaguardare i caratteri idrogeomorfologici, ecosistemici, culturali ed identitari del paesaggio alto collinare e montano amiatino interessato da diffusi fenomeni di marginalizzazione, abbandono e spopolamento” e tra le direttive correlate (2.5) c’è quella di promuovere “un equilibrato e sostenibile utilizzo dei sistemi forestali, con particolare riferimento ai castagneti per paleria dei versanti meridionali e orientali del M.te Amiata e alle utilizzazioni dei querceti collinari”.
  9. Il Decreto Ministeriale che impose il vincolo sul bene (“Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona del monte Amiata, sita nell’ambito dei comuni di Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso e Santa Fiora (Grosseto)”, Decreto Ministeriale 22 maggio 1959, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 129 del 1° giugno 1959) precisò che “il vincolo non significa divieto assoluto di costruibilità […], e né significa divieto di abbattimento di piante o al taglio di maturità dei boschi, per i quali restano invariate le vigenti norme dell’Ispettorato ripartimentale delle foreste”. Tale passaggio è significativo in quanto è evidente che il legislatore avesse constatato che “l’abbattimento di piante” o “il taglio di maturità” del bosco non erano in conflitto con la conservazione del “quadro naturale di non comune bellezza panoramica” che è alla base della dichiarazione dell’interesse pubblico. Ne consegue che: (i) in accordo con quanto previsto dal DM citato, per gli interventi di abbattimento e di taglio di maturità non è necessaria l’autorizzazione paesaggistica anche ai sensi degli art. 134 e 136 del CU; e (ii) per queste attività è comunque esplicitamente indicato che il riferimento sono “le vigenti norme dell’Ispettorato ripartimentale delle foreste” e quindi ad oggi il “taglio colturale” previsto dal Testo Unico Forestale (art. 7, comma 13, DL 34, 3/04/2018).

Infine, segnaliamo come il parere della Soprintendenza, in un modo non solo irrituale ma anche poco professionale, riprenda letteralmente ed in modo acritico il contenuto di una nota redatta da una associazione ambientalista locale (Italia Nostra, sezione Maremma Toscana) avente anche indicazioni “di carattere selvicolturale”. Nonostante il contenuto tecnico della nota, la Soprintendenza non ha sentito la necessità di un confronto con referenti istituzionali (competenti per la materia del contenuto della nota), referenti scientifici e portatori di interesse.

La gestione forestale, che è un fattore determinante nella formazione di un paesaggio, non è statica ma è anch’essa soggetta a cambiamenti in funzione delle esigenze economiche, sociali e culturali. Un caso emblematico riguarda proprio il governo a ceduo che, pur essendo ancora il governo prevalente a livello nazionale, negli ultimi decenni ha visto una riduzione di utilizzo sia come conseguenza dell’avviamento ad alto fusto e sia come conseguenza di un invecchiamento naturale. Processi dinamici e scelte gestionali sono però eterogenei in funzione del tipo di bosco, delle filiere locali, delle pratiche e della cultura locale ([6], [10]). Ci sono dei casi, ad esempio i cedui per produzione di paleria del Monte Amiata, in cui il governo a ceduo è ancora un elemento culturalmente, economicamente e socialmente inserito nel paesaggio ed ha una forte connessione “negli usi, nelle ecologie, nelle interazioni, nelle pratiche, nelle credenze, nei concetti e nelle tradizioni delle persone che vivono all’interno dei paesaggi culturali” ([8], [11]).

Non è quindi accettabile che una Soprintendenza detti le linee di gestione selvicolturale nelle aree con vincolo paesaggistico sensu art. 134 e 136 del CU se queste linee non trovano nessun riferimento nel Piano paesaggistico regionale e sono in evidente contraddizione con il DM che istituisce il Vincolo Paesaggistico. Le conseguenze applicative del parere della Soprintendenza vanno, nel caso citato, verso la perdita del paesaggio ([21]), che dovrebbe essere l’obiettivo primario della conservazione, e verso la creazione di un “paesaggio nuovo” meno diversificato e più banale che, nelle intenzioni della Soprintendenza, dovrebbe rispondere a “criteri estetici”, imposti senza ragione né giustificazioni “dall’alto”.

È desolante, a 20 anni dalla firma della Convenzione Europea del paesaggio, vedere da parte di figure professionali che dovrebbero tutelare il paesaggio una visione di questo ancora legata a visioni estetizzanti e urbano-centriche ed a posizioni ideologiche profondamente incoerenti con gli obiettivi della CEP, le norme del CU e con l’art. 9 della Costituzione italiana.

Bibliografia Citata

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La Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale (SISEF), scusandosi anticipatamente per l’involontaria omissione di referenze fotografiche, è disponibile ad assolvere eventuali diritti.
 
 
 

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