Il giorno 22 dicembre 2021 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (G.U. n. 303) il Decreto del 18 novembre 2021 che approva le “Linee guida per l’identificazione delle aree definibili come boschi vetusti” e la conseguente creazione della Rete Nazionale dei Boschi Vetusti (come da art.7 comma 13-bis, del decreto legislativo 3 aprile 2018, n. 34; Testo unico in materia di foreste e filiere forestali - TUFF). Le linee guida allegate al Decreto delineano i requisiti fondamentali che devono avere i popolamenti forestali per essere considerati boschi vetusti, ovvero:
- superficie di almeno 10 ha;
- presenza di specie autoctone spontanee coerenti con il contesto biogeografico;
- biodiversità caratteristica conseguente all’assenza di disturbi da almeno sessant’anni [1];
- presenza di stadi seriali legati alla rigenerazione e alla senescenza spontanee.
A questo punto le Regioni e le Province autonome sono chiamate a stabilire, in relazione al proprio assetto amministrativo, l’iter di riconoscimento dei “boschi vetusti”, eventualmente con il supporto di commissioni tecnico-scientifiche (Fig. 1).
Fig. 1 - Riserva della Valbona (TN). Le foreste italiane sono state intensamente utilizzate per secoli. Negli ultimi decenni la pressione antropica sulle foreste è diminuita ed alcuni popolamenti hanno riacquistato elementi di naturalità (Foto: R. Motta).
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Il ruolo della comunità scientifica sarà quindi importante sia nel definire le foreste vetuste e sia, in accordo con quanto previsto dalle linee guida allegate al Decreto, nell’effettuare il monitoraggio di queste affinché la rete nazionale costituisca non solo una importante misura di conservazione, ma anche un supporto alla “gestione sostenibile” delle foreste e, più in generale, alle politiche ambientali e climatiche.
A partire dalla fine del secolo scorso le foreste vetuste sono diventate un argomento rilevante nelle ricerche del settore ecologico forestale al quale è corrisposto anche un aumento significativo dei prodotti della ricerca (Fig. 2).
Fig. 2 - Lavori ISI di autori o co-autori italiani caratterizzati dallo studio di old-growth forests dal 1996 al 2021.
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Anche in Italia l’interesse nei confronti delle foreste vetuste è cresciuto di pari passo, sia indirizzato all’analisi dello stato attuale delle foreste italiane e all’individuazione di stadi di vetustà al loro interno, sia con la partecipazione di ricercatori italiani a progetti internazionali. Il contributo sull’argomento da parte dei nostri ricercatori si attesta come uno dei più rilevanti a livello europeo. In questo contributo viene presentato lo stato dell’arte della ricerca italiana sulle foreste vetuste, attraverso l’analisi delle pubblicazioni dei ricercatori italiani sulle foreste vetuste in Italia e all’estero, e vengono discusse le opportunità future e gli ambiti che necessitano di ulteriori approfondimenti. Per fare questo sono stati esaminati i lavori ISI-Scopus di ricercatori italiani (188 lavori iniziando dal 1996 e fino alla data del 31 dicembre 2021) integrati da lavori che sono stati pubblicati su riviste non indicizzate, monografie e report di progetti di ricerca (72 lavori individuati sempre con riferimento temporale 31 dicembre 2021). Questi lavori sono stati analizzati per distribuzione geografica, categoria forestale, tipologia di dati raccolti (quantitativi e qualitativi) con particolare attenzione a tre elementi: (i) analisi strutturale; (ii) utilizzo di bioindicatori per il confronto tra popolamenti vetusti e boschi coltivati; (iii) confronto tra popolamenti italiani e popolamenti di riferimento dell’Europa centro-orientale caratterizzati da elevato livello di vetustà.
Tra i settori di ricerca (secondo le Web of Science categories - Fig. 3) prevalgono gli studi legati alle scienze forestali e all’ecologia forestale, ma emerge una buona rappresentatività di studi legati alla scienza della vegetazione ed allo studio e conservazione della biodiversità.
Fig. 3 - Settori di ricerca ISI per gli studi su foreste vetuste fatti da ricercatori italiani.
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Analisi della distribuzione geografica dei siti italiani
Dall’analisi della letteratura è stato possibile mappare 165 siti oggetto di studio (Fig. 4). I siti individuati includono sia popolamenti che hanno oggettivamente caratteristiche di foreste vetuste (dal punto di vista scientifico e dal punto di vista dei requisiti richiesti dal Decreto), sia popolamenti che hanno una limitata ma significativa presenza di caratteristiche strutturali e/o indicatori biologici di vetustà, ma anche popolamenti che sono stati definiti vetusti dagli autori senza riferimenti a caratteristiche strutturali e/o a condizioni di pregressa assenza di disturbi e che non hanno i requisiti indicati dal decreto istitutivo dell’Albo.
Fig. 4 - Distribuzione geografica dei siti individuati nella letteratura esaminata come foreste recanti caratteri di vetustà.
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Da un punto di vista geografico il 54% dei siti si trova nell’Italia meridionale, il 28% al nord, il 13% al centro e l’8% nelle isole. Le regioni Abruzzo e Sicilia registrano il maggior numero di siti (29 e 23 rispettivamente); l’Umbria e la Liguria non hanno evidenziato siti oggetto di ricerche sulle foreste vetuste (Fig. 5). I boschi a dominanza di faggio risultano i maggiormente rappresentati (38%), seguiti dalle abetine con e senza faggio (13%) e dalle peccete (7%). Alcune categorie forestali sono invece poco rappresentate o del tutto assenti (ad es., i querceti ed i boschi di latifoglie). Faggete ed abetine pur rappresentando circa il 21% delle foreste italiane (in termini di volume - dati INFC 2015) sono oggetto di oltre il 50% delle ricerche sulle foreste vetuste rappresentando quindi la categoria forestale di gran lunga più importante e rappresentata a livello nazionale.
Fig. 5 - Categorie forestali maggiormente rappresentate dall’analisi bibliografica sulle foreste vetuste. Nell’inserto in alto a destra viene riportato un grafico recante l’importanza percentuale delle diverse regioni italiane.
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Analisi strutturale
La caratterizzazione delle foreste vetuste attraverso parametri strutturali risulta essere un comune denominatore nella maggior parte delle ricerche condotte sull’argomento e circa il 60% dei lavori ha descritto e/o utilizzato caratteri strutturali. Meno della metà di questi lavori ha però raccolto dati quantitativi dei parametri strutturali utilizzati. Con il termine struttura forestale si fa riferimento alla modalità con la quale le diverse parti di un popolamento si distribuiscono nello spazio, nel tempo o si organizzano funzionalmente. L’analisi strutturale è particolarmente importante in quanto una foresta vetusta presenta caratteristiche strutturali peculiari che la differenziano dai popolamenti forestali gestiti e/o più giovani. Definizioni basate unicamente sugli attributi strutturali, in ogni caso, non tengono conto della variabilità dei tipi forestali, caratteristica delle foreste italiane. I tipi forestali, oltre ai fattori climatici, disturbi naturali, e caratteristiche stazionali, possono infatti influenzare l’età alla quale una foresta diventa vetusta e quindi sviluppa i relativi attributi strutturali.
Dall’analisi svolta emerge che i principali elementi relativi alla struttura forestale considerati nella valutazione e caratterizzazione della vetustà di popolamenti forestali in Italia e in ambiti biogeografici comparabili sono riconducibili principalmente alle seguenti componenti:
- dimensione delle piante;
- distribuzione verticale e orizzontale;
- area basimetrica e volume;
- distribuzione spaziale degli alberi e delle aperture (gap).
La dimensione temporale ha un ruolo rilevante nello sviluppo delle caratteristiche strutturali di vetustà in quanto i principali elementi strutturali necessitano di un certo numero di anni per potersi manifestare, sia in riferimento all’ultimo disturbo naturale o antropico che si è manifestato (meno del 10% dei lavori cita questo dato), sia in riferimento all’età degli alberi (meno del 20% dei lavori esamina l’età degli alberi per la costruzione della struttura dell’età o almeno l’età degli alberi dominanti o più vecchi). Il decreto fa riferimento ad un tempo minimo di 60 anni in assenza di disturbi [2]. Tale periodo deve essere sufficientemente lungo da permettere alle dinamiche naturali di manifestarsi, consentendo al sistema di accumulare necromassa (legata sia a processi di competizione endogeni e sia a disturbi su piccola scala provocati da fattori esogeni) e agli alberi di raggiungere dimensioni ed età prossimi ai valori massimi delle specie. In tal senso, l’uso di indicatori è sicuramente d’aiuto per caratterizzare il grado di vetustà e misurarne lo stadio di sviluppo. La necromassa è quindi universalmente utilizzata come un importante indicatore di vetustà ed è un fattore analizzato, qualitativamente e quantitativamente, dal 24% dei lavori esaminati. Nonostante l’importanza di questo parametro, l’analisi quantitativa è limitata al 16% dei lavori. A titolo esemplificativo, il rapporto tra necromassa e biomassa viva nelle foreste italiane studiate varia tra il 10 ed il 20%, mentre questo rapporto raggiunge valori molto più elevati (30-50%) nelle foreste vetuste primarie e secondarie della penisola balcanica.
L’invecchiamento degli alberi e la mortalità, soprattutto di esemplari del piano dominante, aumenta anche la quantità di microhabitat (analizzati solo dal 4% dei lavori), che favoriscono la presenza di specie animali e vegetali tipiche delle fasi mature e stramature. Infine, le foreste vetuste sono tendenzialmente caratterizzate da un’elevata eterogeneità spaziale (esaminata dal 9% dei lavori), che si può esprimere a scale spazio-temporali differenti.
Analisi degli indicatori biologici
Le foreste vetuste, nella loro complessità strutturale, rappresentano un habitat di nicchia per numerose specie che sono tipiche, e a volte esclusive, delle fasi più mature della dinamica forestale. La presenza di queste specie è legata a caratteristiche strutturali tra le quali le più importanti sono la presenza dei microhabitat e la quantità e la qualità della necromassa che ospita specie saproxiliche. Molte caratteristiche strutturali contribuiscono a favorire la presenza di taxa che possono essere utilizzati come indicatori biologici del grado di vetustà di un popolamento forestale. Nel complesso oltre il 40% dei lavori analizzati fa riferimento all’importante ruolo della biodiversità nelle foreste vetuste mentre lo studio e l’utilizzo di indicatori biologici ha riguardato il 32% dei lavori esaminati.
Dalla letteratura scientifica italiana è emerso che gli insetti saproxilici siano stati utilizzati nel 13% dei lavori, in linea con la letteratura internazionale che privilegia i coleotteri carabidi come indicatori biologici per valutare lo stato di conservazione delle comunità forestali.
Anche la diversità e ricchezza floristica è stata oggetto di studi in foreste vetuste con particolare attenzione alla diversità lichenica (il 13% dei lavori esaminati) anche per il confronto tra queste e popolamenti intensamente utilizzati. L’uso di tali indicatori richiede il contributo di esperti e la combinazione con altri indicatori legati alla quantificazione delle specie indicatrici di vetustà dei popolamenti.
Analisi e confronti tra foreste vetuste e foreste gestite e tra foreste italiane con elementi di vetustà e foreste vetuste europee
Uno degli errori più frequenti che riguardano la definizione di “foreste vetuste” è quello di confondere le foreste vetuste con le foreste primarie o foreste vergini. Esistono decine di definizioni di foreste vetuste che quasi sempre partono dai parametri strutturali ma che spesso, anche per l’oggettiva difficoltà legata all’eterogeneità delle caratteristiche strutturali e stazionali, non tengono conto di un elemento di fondamentale importanza e cioè che una foresta vetusta non è definibile di per sé se non è collocata all’interno di un processo o gradiente di “dinamica forestale”. Le foreste vetuste rappresentano infatti uno “stadio” della dinamica forestale che, come tutti gli stadi, è comunque transitorio, e può permanere per un periodo di tempo più o meno lungo in funzione del tipo di bioma, ecosistema e regime di disturbi naturali. Le caratteristiche strutturali dello stadio di vetustà si possono sviluppare durante lunghi periodi di tempo in cui non si verificano disturbi sia di carattere naturale che di carattere antropico ed è quindi evidente che esistono foreste primarie che non sono foreste vetuste perché si trovano in uno stadio del processo dinamico precoce (ad esempio la fase di ricolonizzazione dopo un disturbo naturale) ed al contrario esistono foreste vetuste (e tutti i lembi di foresta vetusta presenti in Europa occidentale ne sono un esempio) che nel passato oltre a disturbi naturali hanno subito disturbi antropici (ad es., tagli o uso pascolivo) ma che dopo questi disturbi, se questi non sono stati così intensi da uscire dal range naturale di variabilità, hanno avuto un tempo sufficiente per sviluppare le caratteristiche strutturali tipiche dello stadio di vetustà.
A questo proposito è molto esplicativa la definizione di foresta vetusta della FAO e della Convenzione sulla Diversità biologica (⇒ https://www.cbd.int/forest/definitions.shtml): “le foreste vetuste sono popolamenti primari o secondari che hanno sviluppato una composizione ed una struttura tipica delle fasi più mature delle foreste primarie in modo da potere essere qualitativamente e quantitativamente distinto da ogni popolamento di età più giovane”. Secondo questa definizione, quindi, non è importante se la foresta è primaria o secondaria né la struttura del popolamento analizzata di per sé, ma il fattore discriminante è la “differenza significativa” della struttura e della composizione rispetto agli stadi giovanili ed alle foreste coltivate.
Per questo motivo le foreste vetuste sono di fondamentale importanza in quanto rappresentano un riferimento per le foreste coltivate e costituiscono dei modelli (sia dal punto di vista dei processi in atto e sia dal punto di vista della eterogeneità strutturale). Ai fini dell’applicazione di una selvicoltura che imita i processi naturali è utile misurare la “differenza” tra foreste vetuste (foreste attualmente nello stadio di vetustà), foreste non più gestite con elementi di vetustà e foreste attualmente coltivate.
L’uso delle foreste vetuste come riferimento per la gestione sostenibile delle foreste coltivate è stato preso in considerazione nel 29% dei lavori esaminati sia negli aspetti strutturali e dinamici e sia nell’analisi di presenza di bioindicatori.
In un territorio come quello italiano, che è stato caratterizzato nel passato da un uso intenso di tutti i popolamenti forestali e dove la gestione forestale attuata per secoli ha mantenuto i popolamenti forestali in stadi relativamente giovani, impedendo di fatto un naturale invecchiamento dei boschi con conseguente scomparsa dei popolamenti più maturi, è però altrettanto importante valutare la “quantità di vetustà” che è presente nelle nostre foreste, anche quelle che hanno potuto svilupparsi in assenza di disturbi naturali ed antropici per un lungo periodo di tempo, in confronto a popolamenti vetusti che hanno un grado di conservazione migliore e che sono assenti in Italia. Questi popolamenti, per affinità stazionali e vegetazionali, si trovano soprattutto nell’Europa orientale dove, nonostante non sia possibile trovare territori in cui la presenza dell’uomo non abbia avuto influenze in tempi antichi, le vicende storiche e socio-economiche, la posizione geografica decentrata e le ridotte densità di popolazione hanno permesso la conservazione di alcuni lembi di foresta vetusta che possono essere considerati dei modelli di riferimento di “vetustà” (Fig. 6).
Fig. 6 - La foresta di Lom (Bosnia-Erzegovina). Nella fascia delle foreste temperate europee restano pochi lembi di foresta che rappresentano la massima espressione dello stadio di vetustà. Le Alpi Dinariche ed i Carpazi ospitano i riferimenti più prossimi ed adeguati per i tipi forestali presenti in Italia (Foto: R. Motta).
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I lavori esaminati che si sono occupati del confronto tra popolamenti vetusti italiani (popolamenti che rappresentano l’attuale massimo stadio di invecchiamento in Italia) e popolamenti di riferimento dell’Europa centro-orientale sono stati relativamente pochi (4%).
Discussione
Negli ultimi 24 anni la ricerca sulle foreste vetuste, in Italia e da parte di ricercatori italiani, ha visto un notevole aumento di interesse e la pubblicazione di numerosi prodotti di ricerca.
I popolamenti italiani oggetto di studio nell’ambito di ricerche che hanno riguardato “popolamenti vetusti” sono stati numerosi (n = 165 dei quali è stato possibile definire le coordinate).
Da un punto di vista della distribuzione territoriale e da un punto di vista della distribuzione tra le categorie forestali, come peraltro ci si poteva aspettare, non c’è una distribuzione uniforme. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale esistono aree che sono particolarmente ricche, per ragioni storiche, ambientali e socio-economiche, di foreste che hanno caratteristiche di vetustà (ad esempio l’Abruzzo), ma anche regioni dove non sono state svolte ricerche specifiche per l’assenza di foreste vetuste oppure per mancanza di attenzione da parte dei diversi gruppi di ricerca. Per quanto riguarda le categorie forestali, le faggete, con o senza abete bianco, sono state le foreste di gran lunga più studiate.
Per quanto concerne l’utilizzo dei parametri strutturali quali elementi diagnostici per l’individuazione dello stadio di vetustà all’interno dei popolamenti forestali italiani, i lavori che hanno utilizzato parametri o indicatori quantitativi per giustificare la definizione di vetustà sono un numero relativamente limitato, sia per quanto riguarda gli alberi vivi, sia per quanto riguarda la necromassa. Sulla base dell’analisi dei dati disponibili emerge che una buona parte di questi popolamenti non rientra nei criteri stabiliti dal Decreto istitutivo dell’Albo delle foreste vetuste e che l’utilizzo del termine vetusto da parte degli autori non è sempre stato rigoroso e giustificato.
Per quanto riguarda gli indicatori biologici utilizzati, il numero di ricerche che ha interessato licheni ed insetti saproxilici è relativamente elevato, anche se spesso manca un’indicazione strutturale quantitativa che permetterebbe di individuare delle soglie di vetustà (ad esempio il volume della necromassa). Gli indicatori biologici hanno un ruolo molto importante nell’individuare le “soglie” di caratteristiche strutturali di vetustà che sono necessarie per identificare le vere foreste vetuste, le foreste vetuste potenziali ed anche per dare indicazioni sul rilascio di alberi vivi e morti da mantenere nelle foreste coltivate. È quindi auspicabile una maggiore diffusione degli studi sugli indicatori biologici ed una maggiore collaborazione e sinergia tra questi studi e l’applicazione di criteri di gestione forestale sostenibile. Lo studio del ruolo degli “alberi habitat”, sia all’interno delle foreste vetuste che nell’ambito di popolamenti coltivati, è stato avviato solamente in tempi recenti, ma anche in questo caso l’aumento della massa critica delle ricerche potrebbe permettere di individuare una serie di “indicatori di vetustà” che possano contribuire a definire le priorità di inserimento nell’Albo delle foreste candidate, nonché individuare foreste che attualmente non hanno i requisiti ma che potrebbero potenzialmente acquisirli nei prossimi decenni. Nello stesso tempo questa massa critica di informazioni potrebbe anche permettere di individuare elementi e/o caratteristiche che potrebbero essere inseriti/conservati/favoriti nelle foreste coltivate.
Uno degli ambiti di ricerca maggiormente sviluppati è il confronto di popolamenti giovani e coltivati con popolamenti che sono attualmente considerati vetusti o che rappresentano l’attuale massimo stadio di vetustà in Italia. Al contrario, i lavori che hanno effettuato confronti tra foreste italiane con elementi di vetustà e “veri” popolamenti vetusti dell’Europa centro-orientale sono relativamente pochi, ed anche in questo caso limitati a poche categorie forestali (anche se foreste vetuste non sono attualmente disponibili in Europa per tutte le categorie forestali).
Tra i settori di ricerca che sono stati solo recentemente valorizzati nelle ricerche sulle foreste vetuste, ma che avranno grandi potenzialità nei prossimi anni, ci sono sicuramente lo studio dei processi fisiologici e dei cicli degli elementi, in quanto le foreste vetuste rappresentano un riferimento importante per lo studio dell’impatto del cambiamento climatico sui popolamenti forestali (essendo assente o limitato il “rumore” dovuto all’azione antropica). Al momento queste ricerche riguardano meno del 10% dei lavori esaminati, ma sono state in forte crescita negli ultimi 5 anni. Per tale motivo, è auspicabile che l’istituzione della rete di foreste vetuste sia abbinata (come prevedono le Linee guida allegate al Decreto) ad una rete di monitoraggio e osservazione permanente che possa svolgere una funzione importante come riferimento per la gestione naturalistica delle foreste e per lo studio dell’impatto del cambiamento climatico.
In conclusione, lo stato attuale della ricerca in Italia sulle foreste vetuste permette già ora di avere una serie di conoscenze che possono essere utilizzate per la realizzazione di una rete nazionale adeguata sia agli scopi di conservazione che agli scopi di ricerca e supporto alla gestione sostenibile delle risorse naturali, integrando attributi e aree di vetustà in foreste multifunzionali. È opportuno che i ricercatori siano coinvolti sia in sede di individuazione e riconoscimento delle foreste vetuste che nella fase successiva di monitoraggio e conservazione degli attributi di vetustà. Per ottimizzare non solo il ruolo di conservazione ma anche quello di ricerca e supporto alla gestione delle risorse naturali, sarebbe auspicabile sviluppare un protocollo di monitoraggio comune a tutte le foreste inserite nell’Albo o perlomeno ad una quota significativa e rappresentativa, con il coordinamento del DIFOR e la collaborazione delle Regioni e delle Province autonome, che permetterebbe confronti, analisi di lungo periodo ed anche l’inserimento di questa rete in importanti infrastrutture di ricerca come la rete LTER (⇒ http://www.lteritalia.it/).
La costituenda Rete nazionale dei boschi vetusti potrebbe quindi rappresentare un’importante infrastruttura di ricerca, favorire lo sviluppo di collaborazioni interdisciplinari, sviluppare argomenti e settori di ricerca che ad oggi non sono stati adeguatamente presidiati.
Infine, la rete potrebbe essere un’ulteriore occasione di collaborazione tra amministrazioni, gestori delle risorse naturali e ricercatori in modo da raggiungere gli obiettivi previsti dalle strategie sulla biodiversità e sulle foreste italiane e della UE, quali la rigorosa protezione delle foreste vetuste e una migliore gestione sostenibile delle foreste e delle risorse naturali applicando un closer to nature forest management come previsto dalle Strategie biodiversità e foreste della UE.
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