Vegetation, soil, DNA and natural evolution
Forest@ - Journal of Silviculture and Forest Ecology, Volume 20, Pages 10-12 (2023)
doi: https://doi.org/10.3832/efor4285-019
Published: Jan 03, 2023 - Copyright © 2023 SISEF
Commentaries & Perspectives
Abstract
Dialogue with Sandro Pignatti on natural evolution, considering the soil as a living matrix in which the recycling of organic matter and DNA takes place. How vegetation interacts with the soil and how it is not the species that evolve but the ecosystem that contains them. The hypothesis of a still poorly understood genetic exchange in relation to the biodegradation process is raised. Recent research in soil microbiology and biodiversity highlights a functional and primordial collaboration between living beings in the exploitation of natural resources.
Keywords
Natural Evolution, DNA Recycling, Castelporziano, Soil, Biodiversity
Mi trovò in ginocchiato davanti a un profilo di suolo. “Zanella come va? Dove ti stai… imbucando?”
Mi girai verso un uomo gioviale, con occhi vivi all’ombra della visiera di un berretto americano. Il 6 dicembre 2010 era una giornata soleggiata nella tenuta Presidenziale di Castelporziano (Roma).
“Sandro Pignatti” - pronunciò poi, notando l’incertezza nel mio sguardo. Giacca impermeabile beige, un po’ più corta di quella del tenente Colombo, scarponcini scamosciati, e pantaloni di cotone azzurro con la riga. Provai una sensazione di innata simpatia: mia madre non era mai riuscita a capire perché non fosse necessario stirare i blue-jeans. Alzandomi e stringendogli la mano, dissi: “Ci siamo incrociati nel 1996, al Congresso di fitosociologia organizzato da Jean-Marie Géhu sulle foreste, a Bailleul, vicino a Lille, ricordi? …Questo profilo è un disastro nella successione degli orizzonti.”
Annuiva. Tenevo in mano due campioni di suolo, un aggregato organico chiamato orizzonte OH (lettiera trasformata in humus), e un glomerulare pugno di terra organo-minerale detto orizzonte A. “Di solito questi orizzonti sono uno sopra l’altro. Ma i cinghiali, che hanno un aratro al posto del naso, hanno scombussolato tutto quanto; dobbiamo inventare qualcosa per classificare queste strane situazioni” ([13]).
Sorrideva toccando i due campioni, e aggiunse: “È sempre così. Arrivi in campo con le idee chiare, osservi la realtà che ti circonda, e non capisci più niente. Dormito bene in villa?”
“Insomma. C’era una signora prosperosa nella stanza, che mi guardava in continuazione. Ho fatto finta di spegnere la luce per dormire, e l’ho riaccesa subito a sorpresa per intercettare un suo movimento… Niente, ferma sul quadro, sorniona tipo Gioconda e ancora troppo viva. Prima di coricarmi ho anche visto le stelle, urtando con il piede nudo un vaso pesante che spuntava da sotto il letto.”
“Sei stato fortunato, ti hanno concesso una delle stanze reali; hai sicuramente dato un calcio al vaso da notte in ceramica di Vittorio Emanuele II” - risolino sotto i baffi - “Andiamo a vedere una particella dove è il suolo a decidere il divenire della vegetazione, voglio il tuo parere, seguimi.”
Attraversammo una lecceta punteggiata di pozze circolari piene d’acqua stagnante, discutendo animatamente di evoluzione naturale. Partimmo dai seguenti spunti sperimentali:
- è impossibile tracciare una cartina delle unità fitosociologiche senza che questa presenti numerose zone d’ombra. In campo servono i riferimenti a specie caratteristiche delle unità fitosociologiche, che sono di amplitudine ecologica ristretta per definizione;
- per via dell’azione diretta o indiretta dell’uomo, l’evoluzione non è più naturale da almeno un secolo. Teoricamente, gli ecosistemi dovrebbero continuare ad evolvere come se uomo e ambiente spingessero insieme nel futuro queste “parti di natura” (definizione di ecosistema di [12]) in una direzione e verso una complessità biologica ignote ma forse parzialmente “prevedibili e confinate”;
- anche se mal definite sul territorio, le unità fitosociologiche dovrebbero esistere. Equiparabili a dei buchi neri, influenzati dagli attrattori ecologici di Mayr ([5]), che spinti dall’ambiente e dall’uomo si muovano in uno spazio-tempo vivo, cangiante, e indeterminato.
“Non sono un fitosociologo” - disse - “ma un ecologo della vegetazione”.
“Nemmeno Lucio Susmel; scrisse un saggio molto documentato contro la fitosociologia” ([11]) - ribadii. “Ma nella pratica di campo siamo costretti a leggere il paesaggio usando la vegetazione, e a diventare fitosociologi. Mi viene in mente «I Boschi d’Italia»” ([9]) “nel quale è scritto che si devono selezionare quelle associazioni che occupano uno spazio-tempo delimitato da fattori ecologici. Questo principio era molto caro a Géhu, l’erede spirituale di Josias Braun-Blanquet.”
“Lo so, ne abbiamo discusso più volte, è proprio così, altrimenti la classificazione diventerebbe inutile perché infinita. Quando potevo, prendevo con me anche la famiglia, nelle escursioni” - precisò come se parlasse a sé stesso, a voce bassa e chiudendo gli occhi con un sospiro. “Comunque, sono convintissimo che le piante si parlano tra loro, e anche con gli animali. Eccome. Per sopravvivere.”
“Ho imparato che tutto muore e finisce per diventare humus” - aggiunsi dopo qualche minuto di silenziosa riflessione. “Ciclicamente, pedofauna e microrganismi trasformano questa necromassa in mattoncini elementari utilizzabili dalle nuove generazioni di viventi. Abbiamo due tipi di suolo: uno sotto le piante e uno nella pancia degli animali (anche nella nostra), perché anche loro mangiano e digeriscono. Non so fino a che punto il DNA venga decomposto, ma…”
“Interessante questa storia del doppio suolo” - sottolineò. “Ho sempre pensato che dei pezzettini di DNA potessero arrivare intatti alle nuove generazioni; potrebbero essere la lingua del dialogo tra i viventi; potenzialmente tale processo spiegherebbe la co-evoluzione che constatiamo” ([4], [2], [10]). “E anche il fatto che il nostro DNA risulti imparentato per più di metà con le piante” (⇒ https://www.visualcapitalist.com/comparing-genetic-similarities-of-various-life-forms/).
(Che emozione! Il DNA. Non del singolo vivente, ma dell’insieme co-abitante, il metagenoma dell’ecosistema che evolve e si dirama nei limiti imposti dall’ambiente e dall’uomo, fluido, dinamico e imprevedibile. Magico).
Esistono lavori pubblicati che dimostrano l’azione di parti di DNA nel suolo con ripercussioni importanti sull’evoluzione biologica ([6], [3], [14]). I microrganismi del suolo di ambienti poco antropizzati possono avere un indice di biodiversità più basso ma essere filogeneticamente più collegati tra loro di quelli trovati in ambienti equivalenti più antropizzati ([7] - Fig. 1). Prati polispecifici utilizzano meglio le risorse dell’ambiente ([8]). Una specie esogena più generare un nuovo ecosistema ([1]).
Fig. 1 - Una biodiversità più alta può essere meno funzionale. A Porto Caleri, area meno antropizzata, si contarono tra i microrganismi del suolo meno unità tassonomiche, ma che registravano un segnale filogenetico più alto (immagine tratta da: [7], leggermente modificata).
Arrivammo nel posto della Tenuta di Castelporziano dove la foresta cambiava da frassineto con lauro (suolo fresco) a querceto di cerro e frainetto (suolo più secco e filtrante). Il passaggio si concretizzava lungo una fascia che serpeggiava tra i due tipi di foresta. Facemmo delle buche: il frassineto cresceva su un Mull (senza orizzonte OH) appoggiato su uno strato argilloso impermeabile (orizzonte Bt); nel querceto trovammo un Amphi (con orizzonte OH sopra l’A), in contatto con un orizzonte sabbioso e filtrante (BC). L’ecosistema cambiava tutt’insieme, in pochi metri.
Mentre mangiavamo un panino alla fine dell’uscita, gli chiesi anche: “Ma come sei riuscito a mettere insieme tutta la Flora d’Italia?”
“Avevo la casa piena di liste di piante. Sul comodino, dappertutto. Anni di censimenti. E una rete di amici. Mi divertiva, è stata la mia vita. Una fatica che non ti dico a ordinare tutto, mostruoso, e non abbiamo ancora finito.”
Sorrideva, come un eroe.
References
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